martedì 7 febbraio 2017

La "compagna Le Pen" e la destra sociale piccolo-borghese. I sovranisti italiani "oltre destra e sinistra" pronti a conquistare l'Eliseo





Non ci vuole molto a capire che Trump si sta semplicemente sbarazzando di ogni artificio morale e che critica la Nato perche vuole mano ancor più libera e pretende che gli alleati ci mettano più soldi. Così come non ci vuole molto per capire che Marine Le Pen attacca la UE per ragioni molto diverse da quelle che sono sempre state e dovrebbero ancora essere le preoccupazioni della sinistra.
La destra caritatevole e "sociale" legata alla piccola borghesia è sempre esistita dal XIX secolo e quando c'è crisi rialza la testa. La realtà, poi, non è mai binaria ma sempre dialettica.
Il problema non è, come si sente dire, che una cosa rimane valida anche se a dirla è uno di destra: il problema è che si possono volere cose apparentemente simili per ragioni molto diverse e che le ragioni per cui si vuole una cosa non sono secondarie.
Non è che per andare contro il PD e la "sinistra" neoliberale o postmoderna il medico uno è costretto a diventare di destra: è sufficiente rimanere coerentemente di sinistra.
E invece è tutto un fiorire di sbarellamenti e di "Compagno Trump" e "Compagna Marine".
In queste condizioni ogni ipotesi di "Fronte Ampio", praticabile in teoria durante le fasi di ascesa e quando il movimento cresce, significa consegnarsi mani e piedi a queste destre, che sono largamente egemoni. E va respinta perché è un suicidio deliberato.
La fine indecente della nostra tradizione culturale è certa. Che si possano fare le pulizie non è consolazione sufficiente [SGA].


La promessa di Le Pen alla Francia “Con me fuori dalla Nato e dall’Ue ” 

La leader del Front National: la minaccia alla libertà sono la finanza e l’Islam radicale 
Leonardo Martinelli Busiarda 6 2 2017
La sala esultava, gridava la sua rabbia, batteva insistentemente i piedi. Ecco, Marine Le Pen parla all’«uomo della strada», lo chiama proprio così. «Ti fanno credere che con la mondializzazione sarai un winner», lo dice in inglese. «Ma in realtà loro fanno fabbricare a degli schiavi prodotti da vendere a dei disoccupati». La mondializzazione fatta fuori in una manciata di parole: «loro», i cattivi, sono le banche, chi ha gestito finora la Francia e «il sistema europeista tirannico», «l’Unione europea che vuole imporre le sue direttive inefficienti e i suoi milioni di migranti». Con il discorso tenuto ieri a Lione, la leader dell’estrema destra francese, tuonando contro Bruxelles e la mondializzazione a meno di tre mesi dalle presidenziali, si è imposta definitivamente come il Trump europeo.
Pure l’assemblea, estremamente reattiva, sembrava la claque di un comizio all’americana. La Le Pen, che il giorno precedente aveva presentato le 144 misure che vuole realizzare, se sarà eletta, ne ha spiegata una parte al suo popolo, con quell’oratoria, che oscilla tra il colto (citazioni di Victor Hugo o del cardinale Richelieu) e il popolare, giocando sui toni del sarcastico e del solenne, senza mai scivolare nel trash: una miscela imparata dal padre, Jean-Marie, che ieri non si è fatto vedere («Non ha espresso la volontà di venire e noi non avevamo bisogno che venisse», ha commentato perfido nei corridoi Florian Philippot, braccio destro della Le Pen).
Si è scagliata contro «i due totalitarismi che minacciano le nostre libertà e il nostro Paese: un’ideologia che agisce in nome della finanza mondializzata e un’altra in nome dell’islam radicale». Per reagire ci vuole uno Stato forte, che comunque «non deve essere onnipotente e onnipresente, ma protettore»: quel solito mix di liberismo e protezionismo. Una delle nuove misure principali che vuole introdurre è una tassa generalizzata del 3% su tutte le importazioni, che dovrebbe rendere 15 miliardi all’anno. «Li utilizzeremo - ha specificato - per aumentare i salari e le pensioni inferiori ai 1500 euro netti mensili. In media queste persone ne otterranno così mille in più all’anno».
Tutto il sistema economico della Le Pen, comunque, ruota intorno all’uscita dall’euro e dall’Unione europea. Vuole negoziarla con Bruxelles per sei mesi dopo la sua elezione. «Alla fine sottoporrò il frutto di quella trattativa a un referendum. Consiglierò, secondo i risultati ottenuti, se dire sì o no, ma sarà il popolo a decidere». Sì, una strategia più cauta rispetto a quando diceva che avrebbe sbattuto la porta e basta. Ma ancora ieri ribadiva: «La mia speranza è che l’euro resti per i francesi solo un brutto ricordo». La Le Pen vuole pure che Parigi abbandoni «il comando militare integrato della Nato». Un altro referendum servirà a riformare la Costituzione. In vista di una maggiore democrazia partecipativa, «potrete chiedere al Parlamento di fare una legge oppure di abrogarne una già adottata, se ci saranno almeno 500 mila persone a chiederlo». La riforma costituzionale servirà anche a introdurre il concetto di «priorità nazionale» nel testo fondamentale: vorrà dire priorità ai francesi per le case popolari e una tassa sui contratti di lavoro dei cittadini stranieri. Alla fine si congratula per la «vittoria del no al referendum voluto da Matteo Renzi»: un riflesso, dice, del popolo contro l’oligarchia». 
Agli inizi del suo discorso la Le Pen aveva esordito così: «Sono la candidata della Francia del popolo contro la destra dei quattrini e la sinistra dei quattrini», aggiungendo che «l’attualità recente porta prove eclatanti di tutto ciò». Una chiara allusione al Penelope-gate che ha travolto Fillon, candidato della destra tradizionale: da quando sono emersi quei sospetti sul pagamento fittizio di lauti stipendi da assistente parlamentare alla moglie di Fillon, la Le Pen è costantemente in testa nei sondaggi. Ma è data sempre perdente al ballottaggio. Non ha ancora vinto la sua battaglia. «In nome del popolo».
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“Con i dazi doganali pagheremo stipendi e pensioni più alti” 

Messiha, l’economista del Fn: faremo un protezionismo pragmatico 
Busiarda
È una delle ultime «prede» di Marine Le Pen in quell’élite francese, da sempre ermetica e selezionata, a lei così diffidente. Jean Messiha, economista, 49 anni, ha lasciato da pochi mesi il suo posto di alto funzionario pubblico per seguire il sogno presidenziale della leader dell’estrema destra. Ha coordinato gli esperti che hanno concepito il suo programma economico: la Le Pen ieri l’ha ringraziato dal palco. Messiha è uscito dalla prestigiosa Ena e ha ultimato un dottorato d’economia. A otto anni, in realtà, figlio d’immigrati egiziani, sbarcati a Mulhouse, non parlava neanche una parola di francese. «Ma, per favore, non scriva anche lei che sono un francese d’origini egiziane. Ormai sono un francese e basta».
Ha inventato la nozione di «protezionismo intelligente». Cosa significa?
«Si ristabiliranno barriere doganali e dazi in settori strategici e su imprese che vanno all’estero per fare pura ottimizzazione economica e sociale».
Ad esempio?
«La Renault che fabbrica componenti in Marocco, auto in Turchia, assembla altre vetture in Romania. E poi riporta veicoli in Francia per venderli. Ecco, ci pagheranno delle tasse».
Come deciderete?
«Di volta in volta. Saremo pragmatici e realisti, come su tutto».
Sua anche l’idea di una tassa del 3% sulle importazioni per finanziare l’aumento degli stipendi e delle pensioni. Non ha paura di scatenare una battaglia commerciale?
«Questo tipo di tasse sono già imposte dai nostri concorrenti, i cinesi ad esempio. Che fanno pure protezionismo monetario, al pari degli americani. Ci sono solo gli europei, fra l’altro, a pensare che una valuta non sia uno strumento di protezionismo».
In ogni caso voi volete abbandonare l’euro. Senta, sia sincero: ma anche un economista serio come lei è favorevole all’uscita dalla moneta unica?
«Nel 1992 votai sì per il trattato di Maastricht. Ma poi, facendo il mio dottorato sul coordinamento delle politiche di budget nell’unione monetaria, mi resi conto che era una scelta sbagliata».
Alternate misure liberiste ad altre come la pensione a sessant’anni con 40 anni di contributi. Perché?
«Con una disoccupazione sopra il 10% e il 16% della popolazione sotto la soglia delia povertà, ci sono persone che a quell’età oggi in Francia non ritroveranno mai un lavoro. Siamo pragmatici e basta».
Questo costerà tanti soldi.
«Nel primo anno di presidenza di Marine Le Pen prevediamo un leggero aumento dell’indebitamento pubblico. Poi la crescita economica si riaffermerà saldamente. E in ogni caso noi, senza l’euro, potremo chiedere di stampare moneta alla Banca di Francia per finanziare il debito. Lo fanno gli Stati Uniti, il Giappone, il Regno Unito. Lo faremo anche noi». 
[l. mar.]


Il programma più coerente del nuovo populismo 
Mario Deaglio Busiarda 6 2 2017
I sondaggi indicano che Marine Le Pen, candidata del Front National alle prossime elezioni presidenziali francesi, risulterà in testa al primo turno ma sarà sconfitta al secondo. 
Poco più di un anno fa, negli Stati Uniti si diceva con uguale sicurezza che Donald Trump sarebbe riuscito a conseguire la «nomination» repubblicana ma sarebbe poi stato sconfitto alla prova decisiva.
Questa è la prima ragione per esaminare con molta attenzione i «144 impegni» che Le Pen ha dichiarato ieri di volersi assumere con gli elettori francesi. La seconda ragione è che, a tutt’oggi, si tratta del documento più completo e coerente del nuovo populismo, ben diverso dalle contraddizioni di Trump che, di fatto, vuole favorire le esportazioni americane senza che gli altri Paesi favoriscano i propri prodotti.
Il documento di ieri ha subito «limature» rispetto a precedenti versioni parziali. Non propone più il ritorno della pena di morte ma l’ergastolo «perpetuo», ossia senza possibilità di «sconti»; invece di un aumento di 200 euro al mese dei salari più bassi, indica più vagamente un «aumento del potere d’acquisto»; invece di «uscita dall’euro» si parla di «reintroduzione di una moneta nazionale». 
L’abbinamento della moneta nazionale con l’introduzione di un’imposta del 3 per cento sulle importazioni, dovrebbe finanziare la reindustrializzazione della Francia come ha dichiarato il deputato europeo Bernard Monod, portavoce economico del Front National; il tutto nel quadro di un «patriottismo economico» che favorirebbe sia l’assunzione di lavoratori francesi da parte delle imprese sia l’aumento dei salari più bassi. 
Tutto ciò mostra che i «144 impegni» non sono una serie di slogan e rivendicazioni, bensì l’abbozzo di un programma coerente; un programma che potrebbe anche funzionare nel breve periodo ma a un alto costo economico. In estrema sintesi, dietro al muro dei dazi doganali e delle altre misure nazionaliste, i francesi nel loro insieme avrebbero maggiori occasioni di lavoro – anzi, dovrebbero, in definitiva, lavorare di più – e minori occasioni di acquisti convenienti. 
Con importazioni più care, infatti, tutti i beni collegati alla globalizzazione, dall’abbigliamento all’elettronica, sarebbero più cari a causa dei dazi doganali (probabilmente destinati ad aumentare nel tempo). L’«aumento del potere d’acquisto» funzionerebbe solo in una prima fase e sarebbe successivamente seguito da una sua diminuzione. Votando per il Front National, i francesi si accontenterebbero di un uovo oggi rinunciando a una gallina domani.
Non basta, però, demonizzare Le Pen come non è bastato demonizzare Trump, né ci si può illudere che la globalizzazione risolva tutti i problemi. Precisamente perché non si tratta soltanto di slogan, i «144 impegni» di Le Pen obbligano partiti democratici – in Francia, ma anche in Italia - a scendere sul piano dei fatti e delle politiche concrete. 
Sono necessari programmi e politiche che correggano la tendenza dell’attuale economia globale, di fatto priva di regole, ad accentuare le disparità dei redditi, probabilmente introducendo un sistema di controlli - necessariamente internazionali – sul mercato mondiale dei capitali e non lasciando al Front National, e ai suoi alleati dell’estrema destra europea, il monopolio delle politiche redistributive. A livello di Unione Europea, chi è contrario a Le Pen deve riconoscere che l’Europa dei funzionari e dei regolamenti ha fatto il suo tempo. In nessun Paese europeo si vinceranno le prossime elezioni senza nuovi programmi e nuove visioni.


Le Pen shock, modello Trump “La Francia fuori da Ue e Nato” La leader Fn lancia la corsa per l’Eliseo. I sondaggi: sarà al ballottaggio “Stretta sulle frontiere, niente sussidi agli irregolari, via chi è schedato”ANAIS GINORI Rep 6 2 2017
“On est chez nous!”, padroni a casa nostra. Il coro risuona più volte durante il lungo discorso di Marine Le Pen. La leader del Front National ha presentato ieri il suo programma davanti a tremila militanti. Non è il trumpiano “America First”, ma quasi. E infatti non appena Le Pen cita la scelta di “libertà” del popolo americano, il riferimento al nuovo inquilino della Casa Bianca è accolto da un’ovazione nella sala. «Trump rispetta le sue promesse, mantiene gli impegni presi nell’interesse degli elettori» commenta la leader frontista presentando a sua volta 144 impegni di governo. Una miscela esplosiva di xenofobia, chiusura delle frontiere, patriottismo economico, isolazionismo sul piano internazionale.
Nella sua dottrina, illustrata per oltre un’ora, Le Pen ripete la classica contrapposizione tra “patrioti” e “globalisti”, con una nuova distinzione: esiste una globalizzazione finanziaria, portata avanti dal capitalismo, spiega, ma anche quella del terrore, spinta dal jihadismo. «Siamo in guerra contro il fondamentalismo islamico » annuncia dopo aver fatto un applaudito omaggio ai militari attaccati al Louvre tre giorni fa. Il comizio di Lione segna il vero lancio della campagna elettorale della candidata Fn, unico punto fermo in un paesaggio politico ancora sorprendentemente incerto. I sondaggi non hanno mai smesso di prevedere la sua presenza al ballottaggio del 7 maggio, anche se non si sa più quale sarà l’avversario: François Fillon azzoppato dagli scandali potrebbe essere eliminato al primo turno, superato da Emmanuel Macron.
“Marine”, così come si presenta nei volantini, ha finalmente svelato il suo programma: 12 pagine con 144 proposte per «rimettere in ordine la Francia». Sull’Europa ha scelto un approccio meno drastico, per non spaventare l’elettorato più anziano. Le Pen non vuole più l’addio immediato all’Ue ma propone di fare come David Cameron: aprire una trattativa di sei mesi con Bruxelles e poi convocare un referendum sul Frexit. Sull’immigrazione Le Pen si ispira invece a Theresa May con l’idea di introdurre nella Costituzione una «priorità nazionale» per escludere gli stranieri da alcuni sussidi e servizi pubblici, tra cui la scuola. La leader Fn non parla di “muslim ban” ma vuole uscire dallo spazio Schengen, ripristinare le frontiere, limitare a 10mila gli ingressi legali degli stranieri e impedire che chi entra illegalmente possa ottenere un permesso di soggiorno. «I migranti senza papiers - continua Le Pen - non avranno nessun sussidio, nessuna assistenza medica, nessuna pensione». L’estrema destra prevede anche di abolire lo ius soli, che esiste da secoli in Francia.
Sul piano della sicurezza, Le Pen propone l’assunzione di 15mila poliziotti, la «presunzione di legittima difesa» per le forze dell’ordine e la creazione di 40mila nuovi posti in prigione. «Gli stranieri schedati dall’antiterrorismo saranno espulsi, le moschee radicali chiuse e i predicatori d’odio mandati via». Al livello internazionale, con una vittoria del Fn la Francia uscirà dalla Nato e aumenterà l’investimento nella Difesa dal 2 al 3% del Pil. Le Pen ha invece rinunciato al ripristino della pena di morte, storico cavallo di battaglia del partito.
Poche le novità al livello economico. Come nel 2012, il programma del Fn prevede un ritorno a 60 anni dell’età pensionabile. La patrimoniale sarà mantenuta mentre sarà diminuito l’Irpef sulle prime fasce di contribuenti. Il programma economico è considerato poco credibile da diversi esperti che non vedono la copertura finanziaria di molte misure. Le Pen promette ad esempio di instaurare una nuova tassa del 3% sulle importazioni per «finanziare il potere d’acquisto dei contribuenti più poveri», senza dettagliare le somme. Infine, nel programma sono inserite una serie di riforme istituzionali come introdurre una quota di proporzionale (30%) all’Assemblée Nationale, diminuire da 577 a 300 deputati e da 348 a 200 i senatori, e la possibilità di indire referendum di iniziativa popolare, a partire da cinquecentomila firme, seguendo il modello italiano.
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“Quei due sono una minaccia l’Europa a doppia velocità può dare finalmente la risposta” L’ex presidente della Commissione sostiene Merkel su un’Unione dal duplice volto: “Prima reazione al populismo”ANDREA BONANNI IN PRIMO PIANO Rep 6 2 107
«Dico solo una cosa: era ora». Forse Romano Prodi credeva di aver fatto il callo alle molte delusioni che gli sono arrivate dalla “sua” Europa. Ma il tono di voce con cui commenta le ultime dichiarazioni di Angela Merkel sulla necessità di formalizzare una Ue a due velocità, proprio quando l’Europa è sotto l’attacco concentrico di Trump e di Le Pen, lascia trasparire qualche bagliore del vecchio entusiasmo europeista.
Ha ragione la Merkel, allora?
«Sono due anni che lo ripeto: questa, in mancanza di una condivisa politica europea, è l’unica strada percorribile. Tutti insieme non si riesce a portare avanti il progetto europeo. La mossa della Cancelliera è benvenuta anche perché mi sembra che finalmente dia una prima risposta a Trump e a Le Pen», In che senso?
«Ma come? Trump fa la rivoluzione, annuncia scompigli, attacca la Germania e cerca di dividerla dal resto d’Europa, mina la difesa europea. Le Pen predica la morte della Ue e perfino della Nato. Siamo di fronte ad un doppio attacco coordinato: dall’estero e dall’interno. Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati. E finora non era arrivata nessuna reazione. Questa è la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così».
Va sicuramente bene per l’Europa. E per l’Italia? Il nostro governo è entusiasta della svolta. Ma siamo sicuri di poter restare nel nocciolo duro? Non è che a Berlino qualcuno pensa di lasciarci fuori?
«Il pericolo esiste. Il fatto che la proposta venga dalla sola Germania e arrivi proprio adesso, lascia adito a qualche timore. L’Europa a due velocità non è e non deve diventare un’Europa di prima e di seconda classe. Soprattutto non un’Europa in cui i passeggeri della prima classe decidono chi deve stare in seconda. Sarà il caso che il governo italiano si prepari bene, perché il vertice di Roma, a marzo, escluda questa eventualità ».
Quello delle due velocità è un metodo. I contenuti verranno definiti dai nuovi governi che usciranno dalle elezioni in Francia e Germania.
A questo punto non sarebbe meglio anticipare il voto anche in Italia per avere un governo forte quando la vera discussione si aprirà?
«Ho sempre considerato l’ipotesi di elezioni anticipate una prospettiva poco probabile e, in questa fase, politicamente sbagliata. A maggior ragione, ora, credo che il governo italiano debba avere la tranquillità necessaria per affrontare questi temi. La sfida delle due velocità interpella tutto il Paese e l’Italia deve tornare a diventare un protagonista attivo della politica europea» Come?
«Il problema dell’Italia è la demoralizzazione della società, che non crede più in se stessa. Per aggiustare queste cose, ci vuole il cacciavite. E una politica di lungo periodo, che abbia una sua continuità» Che Europa uscirà dal voto francese e tedesco?
«Escludendo l’ipotesi di una catastrofe, come la vittoria di Le Pen in Francia, mi sembra che sarà un’Europa comunque non peggiore di questa. La Merkel, che finora era passiva e immobile, si è lanciata in questa proposta. E il suo avversario, Martin Schulz, è sicuramente più europeista di lei. Quanto alla Francia, mi sembra che tutti e tre i candidati dell’area democratica siano più vicini all’Europa del presidente attuale. Fino a qualche tempo fa, come sono andato scrivendo su Il Messagero, pensavo che questo anno elettorale non avrebbe portato novità sostanziali. Ora vedo possibilità di qualche progresso per l’Europa. E questo anche grazie all’effetto Trump».
In che senso?
«Lo scossone dato da Trump sta diventando un acceleratore della politica mondiale. Prima, l’America era il fratello maggiore e la Germania era il più grande dei fratelli minori che ubbidivano al primogenito. Con l’arrivo di Trump, l’America non è più un fratello maggiore, ma un cugino dispettoso. E i fratelli europei adesso si trovano a dover reagire».
In un’Europa a più velocità non tutti saranno insieme nei vagoni di testa. C’è chi condividerà la moneta e non la difesa, chi parteciperà allo spazio unico di sicurezza ma non all’Europa sociale.
Come definire questo nuovo perimetro?
«È chiaro che un’Europa a più velocità avrà partecipanti diversi a seconda degli specifici obiettivi. C’è chi è più pronto a mettere in comune la difesa, chi lo spazio unico di sicurezza e chi l’Europa sociale. È tuttavia essenziale che tutti però abbiano l’obiettivo di una integrazione sempre più forte. Chi non lo condivide, chi vuole restare all’Europa delle nazioni, si pone automaticamente al di fuori. Certo io avrei voluto un’Europa che si realizzasse in modo veloce e lineare, una specie di discesa libera mentre adesso dovremo andare avanti con un complicato slalom. L’importante però è che il traguardo sia lo stesso per tutti e che si vada finalmente avanti con valori condivisi ».
Lei parla di valori, e intanto Le Pen li fa a pezzi uno per uno...
«Proprio per questo è ancora più urgente ricostruire dei valori politici comuni. Tranne forse che in Germania, nel resto d’Europa il vecchio sistema dei partiti si sta slabbrando. La politica appare in stato confusionale. Senza partiti non si riesce certo a tenere saldi i nostri principi fondamentali, a meno che non si riesca a creare un rapporto di collaborazione tra i movimenti che stanno ovunque nascendo dal disfacimento dei partiti tradizionali, siano essi progressisti o conservatori. Senza questo rinnovamento della politica l’Europa non riuscirà a salvaguardare i valori da cui è nata e per cui deve continuare a vivere».
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Sanità, banche ed energia Ecco dove Trump vuole ridurre le regole 
La ricetta per mantenere la crescita dell’economia: semplificare procedure, norme e burocrazia 
Alberto Mingardi Busiarda 6 2 2017
Quando Ronald Reagan divenne Presidente portava con sé una filosofia: lo Stato non è la soluzione, è il problema. Donald Trump parla una lingua diversa e non sembra volere un mercato più libero. Lunedì Trump ha però firmato un ordine esecutivo che impegna le agenzie regolatorie a tagliare due regole per ogni nuova norma che introdurranno nel corso dell’anno. La formula è un po’ sloganistica, ma indica la direzione di marcia.
Agli occhi degli europei, gli Usa già oggi appaiono un Paese straordinariamente «semplice», nel quale le regole sono parsimoniose e applicate con linearità.
«Doing Business», la classifica della Banca mondiale che analizza la disciplina fiscale e normativa applicata alle aziende, vede gli Stati Uniti all’ottavo posto, preceduti solo da Singapore, Nuova Zelanda, Danimarca, Corea del Sud, Hong Kong e Regno Unito.
Al contrario, l’Index of economic freedom della Heritage Foundation e del Wall Street Journal, che registra una diminuzione della libertà economica negli Usa, sottolinea come «gli oneri normativi continuano ad aumentare. A partire dal 2009 sono state imposte alle aziende americane oltre 180 importanti nuove normative, che comportano costi stimati a quasi 80 miliardi di dollari all’anno». Il Federal Register che raccoglie tutti i regolamenti emessi dalle agenzie federali è passato da 55.000 pagine nel 1970 a 97.110 nel 2016.
Ovviamente questa escalation è secondo alcuni semplicemente necessaria: un mondo sempre più complesso richiederebbe regole sempre più complicate. Peccato che le norme non si limitano ad avere gli effetti desiderati da chi le ha scritte. Hanno bisogno che qualcuno le faccia rispettare: cioè di apparati burocratici e delle risorse che essi consumano. Dal punto di vista dei privati, rappresentano un duplice costo. Le imprese sono costrette a cambiare i propri comportamenti, seguendo strategie a vario titolo più onerose di quelle che avrebbero adottato altrimenti. E in più debbono investire in profilassi: attrezzarsi con avvocati e lobbisti, per non farsi trovare impreparati e cercare opportunità nelle pieghe dei commi.
Nel suo rapporto annuale sullo Stato regolatore, significativamente intitolato «Ten Thousand Commandments», il Competitive Enterprise Institute di Washington stima che il complesso delle regolamentazioni abbia avuto l’effetto di una tassa da 1.885 miliardi di dollari sull’economia americana, nel 2015.
L’amministrazione Trump ha verosimilmente due obiettivi. Nel breve periodo, deve prolungare l’attuale fase espansiva del ciclo economico, evitando la frenata che è lecito attendersi dopo sette anni col segno più. Nel medio, deve cercare di tamponare quella «fuga dal lavoro» degli americani maschi che caratterizza oggi l’economia statunitense.
La promessa di una crescita economica al 4% e di «25 milioni di nuovi posti di lavoro» vanno lette in questa luce.
Come sottolinea Nicholas Eberstadt dell’American Enterprise Institute (Men Without Work. America’s Invisible Crisis, Philadelphia, Templeton Press, 2016), «le persone economicamente inattive hanno superato i disoccupati nella classifica degli uomini senza lavoro nell’America moderna». Nel 2015 oltre 7 milioni di uomini fra i 25 e i 54 anni erano inattivi: vuol dire che uno su otto non lavorava né cercava occupazione. Negli ultimi cinquant’anni, «il numero di uomini che non ha un’occupazione e neppure ne cerca una è cresciuto a un ritmo tre volte superiore a quello dei maschi che hanno o cercano un impiego». Pesa, ovviamente, il ritardo nell’ingresso del mercato del lavoro dovuto ai maggiori investimenti in capitale umano, e pesa il fatto che ci sono lavoratori che si dedicano per un certo lasso di tempo alla formazione e all’aggiornamento professionale. Ma più di questo contano altri fattori. Dalla crisi del 2008, per la prima volta le aziende che ogni anno chiudono sono di più, negli Usa, di quelle che nascono: e ormai sappiamo che la nuova occupazione si concentra in nuove imprese e nuovi progetti. Non avere un lavoro e non cercarlo è una scelta possibile grazie a sussidi e assegni di disabilità. Ricorda Eberstadt che «l’ammontare medio dei sussidi a favore degli occupati maschi in età lavorativa era nel 2014 pari a oltre 500 dollari» mentre «per gli uomini in età lavorativa che non hanno un’occupazione tale valore è di circa 5.700 dollari», dieci volte tanto.
Questo contribuisce a spiegare le priorità della nuova amministrazione. Per il Congressional Budget Office, l’Affordable Healthcare Act, meglio noto come Obamacare, comporterebbe «perdite equivalenti a circa due milioni di posti di lavoro a tempo pieno nel 2017, che salirebbero a circa 2,5 milioni nel 2024». Come ha spiegato l’economista Casey Mulligan nel suo «Side Effects and Complications: The Economic Consequences of Health-Care Reform» (University of Chicago Press, 2015), Obamacare è un complesso intrigo di incentivi e sussidi, alcuni dei quali hanno un effetto negativo sull’offerta di lavoro e sulla propensione a lavorare di più (al crescere del reddito i benefit diminuiscono).
Per questa ragione, e non solo per motivi simbolici, i repubblicani sono partiti lancia in resta contro la riforma sanitaria.
La seconda priorità è l’energia. Trump ha rimesso in moto gli oleodotti Keystone e Dakota Access. Salterà presto la Stream Protection Rule, una norma a tutela dei rischi idrogeologici imposta da Obama che ha avuto l’effetto di far aumentare i costi dell’estrazione del carbone. Giovedì si è espresso a favore dell’abolizione il Senato, inclusi due democratici, Manchin (West Virginia) e Heitkamp (North Dakota).
Alla Environmental Protection Agency Trump ha nominato Scott Pruitt, un critico delle tradizionali prassi dell’agenzia, col mandato chiaro di semplificare. Lo scetticismo sulle politiche climatiche è parte di un disegno più ampio: dell’ambizione di consentire di approvvigionarsi dalle fonti energetiche più convenienti, liberando risorse.
Meno chiaro è cosa succederà alle norme che governano i mercati finanziari. Prima delle elezioni Trump era il candidato di Main Street, ma ha conquistato rapidamente anche il gradimento di Wall Street. È probabile che le 2300 pagine del Dodd Frank Act, la legge monstre che avrebbe dovuto suggellare la fine della crisi finanziaria, verranno in parte riscritte. Verrà eliminato il Consumer Financial Protection Bureau, un’agenzia a protezione del risparmiatore più nota per una bagarre sulle nomine che per le sue iniziative.
Si parla anche di ridurre i requisiti di capitale per le banche, nella speranza che la necessità di minori accantonamenti faccia aumentare i prestiti a famiglie e imprese. La questione è controversa perché, secondo alcuni analisti, in realtà gli istituti di credito negli ultimi anni non avrebbero affatto aumentato la capitalizzazione, ma avrebbero cambiato le loro allocazioni, spostandosi verso asset con più bassi coefficienti di rischio (un altro artificio della regolamentazione), per apparire più solide. E nella crisi finanziaria è divenuto evidente come banche poco capitalizzate possono rivelarsi incredibilmente fragili.
Queste sono preoccupazioni lontane dal vissuto del nuovo Presidente, che viene dall’edilizia e percepisce la regolamentazione come un problema nella sua materialità: il divieto di fare cose che si potrebbero fare. Sullo sciogliere lacci e laccioli, Trump si gioca molto. Se gli effetti sulla crescita fossero quelli che si attendono lui e i suoi, forse persino l’Europa, dove da anni «deregulation» è una parola proibita, dovrebbe prenderne atto.
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Costi e benefici del dialogo con donald 
La Stampa 6 2 2017
Dopo la prima telefonata fra Donald Trump e Paolo Gentiloni sappiamo che il presidente americano sarà a Taormina per il G7 italiano. Bene. Ma è anche bene discutere come impostare le relazioni con un Presidente rivoluzionario. In epoca di «deal» bilaterali, Roma non può più dare per scontato la vecchia regola aurea della propria diplomazia, secondo cui atlantismo ed europeismo si rafforzano a vicenda. E neanche la vecchia sub-regola, secondo cui l’appoggio di Washington è sempre servito a rafforzare il potere negoziale dell’Italia verso i grandi Paesi europei.
Se il passato è passato, l’Italia deve valutare in modo neutro, non ideologico, costi e benefici del rapporto con un’amministrazione americana che appare intenzionata - per ora a parole, poi si vedrà - a rilanciare il rapporto con una Gran Bretagna in uscita dall’Ue, ad appoggiare le forze politiche sovraniste rispetto a quelle europeiste e a vedere nella Germania un problema, piuttosto che la soluzione del problema. 
Guardiamo brevemente ai costi potenziali.
Primo: è particolarmente delicato, per l’Italia, il tema del «burden-sharing» nella Nato (la divisione degli oneri della difesa). Per un Paese ad alto debito pubblico, con una crescita anemica e già in seria difficoltà rispetto ai vincoli europei, è difficile immaginare un rapido aumento delle spese militari verso l’obiettivo del 2% del Pil (la spesa militare italiana è ancora di poco superiore all’1%, nonostante gli impegni che abbiamo assunto sui tavoli Nato).
Sempre nella colonna dei costi potenziali: se a Washington prevalesse davvero un orientamento protezionista, ne soffrirebbe non solo la Germania ma anche un Paese export-driven come l’Italia, che ha forti interessi economici sia nel mercato interno europeo che nel mercato americano. In genere, e come ha dimostrato il travagliato dibattito sul Ttip – l’accordo sul commercio e gli investimenti fra i due lati dell’Atlantico, ormai gettato alle ortiche -, l’Italia ha sempre qualcosa da perdere di fronte a una rottura aperta fra Berlino e Washington. È uno scenario che oggi non può essere escluso. 
Ai costi economici si sommano, per il governo attuale, costi politici potenziali, collegati al fatto che le forze «neo-sovraniste» italiane si ritengono rafforzate dall’ascesa di Trump - oltre che dalla politica di Putin. A torto o a ragione, si vedrà meglio dopo le elezioni francesi, gli anti-euro nostrani ritengono di potere contare su un contesto molto più favorevole. 
Ma vediamo anche i possibili benefici. Una distensione americana con la Russia (in vista di una collaborazione sul fronte siriano e nella lotta all’Isis) va nella direzione a lungo auspicata dai governi italiani - in questo caso con un sostegno bipartisan e un ovvio interesse dei gruppi industriali. Non è scontato, tuttavia, che l’apertura di Trump a Putin funzioni davvero; l’Italia - senza immaginarsi in ruoli eccessivi - potrebbe favorire un dialogo con la Russia che non passi completamente sopra la testa dell’Europa. 
Secondo beneficio potenziale, da valutare alla prova dei fatti: l’appoggio americano (confermato da Trump a Gentiloni) ai tentativi italiani di stabilizzazione della Libia, incluso l’ultimo accordo fra Roma e Tripoli per arginare i flussi migratori dal Mediterraneo. Il dossier Libia, in chiave di rapporto Italia/Stati Uniti, è in realtà più complesso di quanto non sembri. Come noto, l’Italia sostiene il premier Fayez al-Sarraj, al governo di Tripoli dal marzo scorso; e ha deciso, quale unico Paese europeo, di riaprire la propria ambasciata. Ma questo avviene in un contesto di persistente debolezza del governo Sarraj, in una Libia ancora fortemente segnata dalla lotta interna fra fazioni e dall’ascesa in Cirenaica del generale Khalifa Haftar, appoggiato dall’Egitto, da Mosca e meno apertamente dalla Francia. Come scriveva Maurizio Molinari su questo giornale, gli attori esterni si trovano quindi di fronte a un bivio: o appoggiare la spaccatura definitiva della Libia o favorire con Roma un tentativo di conciliazione fra Tripoli e Tobruk. Le nuove scelte di Washington, dopo la sponda che John Kerry, ex segretario di Stato, aveva offerto a Roma, saranno rilevanti: l’interesse strategico dell’Italia è che un accordo eventuale Stati Uniti-Russia sul fronte mediterraneo non spinga verso una spartizione di fatto della Libia ma in senso opposto. Lo richiedono sia le nostre priorità in campo migratorio che le nostre priorità energetiche (difesa dei terminali petroliferi in Libia e sfruttamento del giacimento di Zohr in Egitto, di cui Eni ha venduto una quota a Rosfnet).
Più problematica, per l’Italia, è la questione generale dei rapporti con l’Islam. Un aumento dell’impegno americano in chiave anti-Isis, e un accordo Stati Uniti-Russia nello stesso senso, rientrano nei nostri interessi di sicurezza; ma l’Italia, con le sue basi militari e la sua sovra-esposizione geografica, dovrà discuterne le modalità. Roma ha invece criticato, anche se in modo soft, il bando temporaneo deciso da Trump nei confronti dei rifugiati da sette Paesi islamici, fra cui Libia ed Iran. Sono posizioni che, al di là di qualunque considerazione di principio, riducono la possibilità che il governo italiano ottenga ciò che persegue da anni: accordi internazionali ed europei per la gestione dei flussi dal Mediterraneo. 
La rivoluzione Trump travolge vecchi assunti su cui si è retta, dal 1945 in poi, la collocazione internazionale dell’Italia. Al tempo stesso, costringe il nostro Paese a scuotersi dalle sue vecchie pigrizie mentali, per ragionare - finalmente - in termini di costi e benefici. Letta in questa prospettiva, la relazione che è appena cominciata con l’amministrazione Trump è più ambivalente di quanto non sembri. E dovrà essere impostata con molta attenzione da parte di un Paese come il nostro: pesante e fragile sul piano economico, instabile e diviso su quello politico, con una posizione geopolitica cruciale sul fronte mediterraneo. La tenuta dell’Italia sarà decisiva per il destino dell’Europa post-Brexit; e la tenuta dell’Unione europea - con le riforme che appaiono ormai indispensabili, incluse le differenti velocità di cui ha appena parlato Angela Merkel - sarà decisiva per l’Italia, troppo vulnerabile per scegliere un destino solitario. Nella logica Trump del «deal-making», Roma dovrà argomentare molto chiaramente che il beneficio della relazione con Washington non può comportare dei costi sul lato europeo. È essenziale, per i nostri interessi nazionali, che la nuova amministrazione americana ne tenga conto: per pragmatismo, se non per convinzione.
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PERCHÉ NON TREMA SOLTANTO PARIGI BERNARDO VALLI Rep 6 2 2017
IL PROGETTO di indire un referendum sull’Europa, nel caso il Front National dovesse vincere le presidenziali di primavera, non è nuovo. Se ne è parlato anche dopo la Brexit, accolta con entusiasmo da Marine Le Pen come una battaglia d’avanguardia vinta dai compagni populisti d’Oltremanica. Una battaglia da ripetere in Francia appena se ne presenterà l’occasione.
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E IL FATTO nuovo è che il momento per colare a picco la nobile e malandata Unione Europea appare adesso ai populisti del continente più che mai favorevole.
L’avvento di Donald Trump ha portato alla Casa Bianca un alleato insperato. Il presidente della super potenza, nonostante le sconcertanti contraddizioni, è considerato dai Le Pen e dai Salvini l’uomo della provvidenza, senz’altro un leader che darà forza all’ondata anti europeista che rischia di abbattersi prima in Olanda, alle elezioni di marzo, e poi soprattutto in Francia.
A dar peso alle parole di Marine Le Pen a Lione è anche il caos che regna tra i suoi oppositori della destra democratica e della sinistra ancora al governo per poco più di settanta giorni, fino al doppio voto presidenziale, di aprile e di maggio, e alle legislative che seguiranno. La sinistra riformista appiattita dai cinque anni della presidenza Hollande non arriverà neppure al ballottaggio. Ma la destra democratica che si preparava a entrare nel palazzo dell’Eliseo non versa in migliori condizioni. Il suo campione François Fillon, l’ex primo ministro, esaltato per la compostezza morale dal mondo cattolico conservatore francese, non è sicuro di arrivare al traguardo del voto. Potrebbe essere costretto a dare le dimissioni da candidato, in seguito alle insistenti pressioni del suo stesso partito. Per quanto coraggioso ( intrepido alpinista e appassionato corridore automobilistico) i suoi nervi rischiano di cedere sotto la pioggia di accuse prima dell’appuntamento elettorale. Il milione di euro che è riuscito a distribuire in famiglia, facendo della moglie e dei figli dei collaboratori quando era parlamentare, scandalizza la Francia. Al punto che quasi l’ottanta per cento degli elettori desidererebbero il suo ritiro dalla gara presidenziale.
E si è accesa la rissa tra le correnti del partito. Gli uomini di Fillon, sempre meno numerosi, sostengono che egli debba continuare la campagna percorrendo il Paese. Il quale non gli riserva soltanto applausi. Qualche insulto viene gridato sulle piazze. Ma non sono pochi coloro che restano perplessi vedendo sprofondare in uno scandalo (su cui lavorano i giudici) l’uomo dall’aspetto dignitoso che immaginavano già incoronato monarca repubblicano. La storia non si ripete mai, e tuttavia si assomiglia spesso. Il caso Fillon non è poi tanto eccezionale nella recente storia di Francia. Nel ’74, un eroe della Resistenza, Jacques Chaban Delmas, non riuscì a conquistare la presidenza perché scoppiò uno scandalo quando risultò che non era un contribuente rigoroso. Ne approfittò Valéry Giscard d’Estaing che però fu sconfitto sette anni dopo, quando cercò di conquistare un secondo mandato e risultò che aveva ricevuto dei diamanti da Bokassa, un folcloristico leader africano. Non importa che i diamanti non avessero alcun valore. L’accusa funzionò. Di recente, François Hollande non sarebbe mai diventato capo dello Stato se il leader socialista designato di fatto candidato del partito non fosse rimasto vittima della sua ingordigia sessuale. Il caso Fillon appare al momento più grave perché si verifica quando le primarie l’avevano già designato come candidato unico del centrodestra e gli altri aspiranti si erano ritirati in buon ordine.
Le correnti avverse a Fillon sono sempre più folte e chiedono ormai apertamente che si ritiri al più presto dalla gara presidenziale. Di queste correnti fanno parte uomini prestigiosi o noti. In particolare Alain Juppé, sindaco di Bordeaux, dato favorito prima della sorprendente ascesa di Fillon; e naturalmente l’eterno Nicolas Sarkozy. Entrambi tuttavia respingono l’idea di sostituire Fillon, nel caso si dimettesse.
Senza muovere un dito Marine Le Pen ha visto cadere come birilli quelli che dovevano essere i suoi principali avversari. Prima dello scandalo Fillon poteva creare al ballottaggio, quando la gara presidenziale si svolge tra due candidati, un fronte anti populista abbastanza solido. Adesso ci si chiede chi potrà sostituirlo. Alain Juppé, se pregato e convinto, potrebbe avere quel ruolo. Ma non è detto che accetti o che riesca a uscire indenne dalla mischia in corso nel partito (i repubblicani). Tanti altri nomi circolano. Ma spesso non sono famosi nel Paese come gli esclusi. Al primo turno Marine Le Pen dovrebbe raccogliere, stando ai pronostici, tra il 26 e il 27 per cento dei voti. Per contenere il suo risultato al ballottaggio sotto il cinquanta per cento ci vuole un “fronte repubblicano” solido. Ed emerge il nome del giovane Emmanuel Macron, 39 anni, ex stretto consigliere del presidente Hollande all’Eliseo e poi al ministero dell’Economia, prima di diventare il leader di una tendenza progressista in bilico tra destra e sinistra. Macron ha una grande virtù: è un uomo nuovo. Marine Le Pen se lo potrebbe trovare davanti, come l’incarnazione dell’Europa.
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