mercoledì 22 febbraio 2017

La festa appena cominciata è già finita


Crepe nel fronte anti-Renzi In bilico l’addio di Emiliano 

Il governatore prova l’ultima mediazione per ritardare il congresso 

Amedeo La Mattina Stampa 21 2 2017
Michele Emiliano tratta e riflette. È stato tutto il giorno incollato al telefono con gli emissari di Renzi, è andato al ministero per lo Sviluppo economico dove ha incontrato la viceministro Teresa Bellanova per la questione dell’Ilva. Ha sentito Speranza e Rossi che temono moltissimo che il governatore voglia rompere il fronte degli scissionisti. Vuole capire che spazio avrebbe se, rimanendo nel Pd, si candidasse alla segreteria e sfidasse Renzi. Lui in serata dice: «Non so se andrò alla direzione del Pd. Sto ancora riflettendo con i miei sul territorio, in Puglia e in altre Regioni. Ho parlato con molte persone che ho conosciuto in queste settimane e che guardano a me con interesse. Vediamo se ci sono le condizioni per fare un’altra cosa».
Michele Emiliano è tormentato, è in bilico, non vuole ancora sciogliere la riserva, non vuole imbarcarsi in un’avventura politica che appaia una Cosa rossa ad egemonia ex comunista, ex diessina, con la regia di D’Alema. Sta cercando di capire se sarà una cosa nuova, se tra militanti e amministratori c’è una vera scissione. Non vuole una bolla di sapone. «Comunque deciderò nella giornata di martedì con Rossi e Speranza. Rifletterò ancora questa notte perché qui non si tratta di una scelta semplice: le implicazioni sono tante, nelle Regioni e anche rispetto al governo». Il governatore spiega che sbagliano coloro che pensano che lui abbia deciso di rimanere nel Pd, come candidato anti-Renzi alla segretaria: «Chi lo scrive è fuori strada». 
Intanto la macchina organizzativa della scissione da parte di Rossi e Speranza si è già messa in moto: venerdì potrebbero essere annunciati i gruppi parlamentari e all’inizio di marzo l’evento costituente del nuovo movimento dove in prima fila non ci saranno Bersani e D’Alema che ieri a Benevento ha cercato di fare il modesto. «Lo spazio di un militante della mia generazione non è quello di essere front-runner. Io sono disponibile a dare una mano. Ci sono tre candidati, Emiliano, Speranza e Rossi». 
Emiliano ha sentito tutti i dirigenti del Pd che stanno con Renzi, sta cercando di convincerli a non fissare oggi, alla direzione, una data del congresso. Di aprire una stagione congressuale lunga in cui metterci dentro una conferenza programmatica. Per poi fare le primarie a fine giugno-luglio, dopo le amministrative. Renzi non è d’accordo ed è convinto che tenendo duro sfilerà Emiliano dal tridente scissionista. Ma il governatore vuole tenersi le carte coperte fino all’ultimo secondo. Oggi si riunirà con Speranza e Rossi e deciderà con loro se continueranno insieme fuori del Pd o se le loro strade si divideranno. 
Speranza ha fatto ormai la scelta ed è andato a Venezia ad un incontro con l’ex sindaco di Milano Pisapia. «Per me non ci sono le condizioni per stare nel congresso, e non credo andrò alla direzione del Pd. Renzi ha fatto una scelta molto chiara, che va nella direzione di rompere il Pd». 
Rossi addirittura sta pensando di consegnare la tessera del partito e chiede a Emiliano di essere «conseguente»: «Spero che andremo avanti insieme. Abbiamo firmato un documento che dice che Renzi ha provocato la scissione. Io penso che bisogna essere conseguenti». 
Rossi e Speranza oggi non andranno alla direzione. Emiliano invece dice che non sa cosa farà, aumentando i sospetti. Intanto si cominciano a fare i calcoli su numeri dei gruppi parlamentari. Gruppi che daranno battaglia suo voucher, l’articolo 18, lo ius soli. «Noi - spiega Gotor che guida la pattuglia più corposa dei senatori - ci impegneremo perché sui provvedimenti che riguardano ad esempio il precariato del lavoro, il reddito di inclusione per la povertà, interventi sulla scuola, il governo possa lavorare per migliorare la situazione». 
Ecco allora che il fronte che nascerà punterà molto su un programma diverso da quello portato avanti da Renzi: battersi sui temi sociali, sulle tasse. Con uno scenario di possibili scontri in Parlamento non solo sulla legge elettorale.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

D’Alema puntella Gentiloni: più dura e più si logora Matteo 

L’ ex premier tentato di ricandidarsi al Parlamento nel “suo” Salento 

Fabio Martini Stampa 21 2 2017
Rieccolo. Come tanti anni fa l’energetico Amintore Fanfani riemerse da un pensionamento anticipato e fu battezzato con quel memorabile nomignolo da Indro Montanelli, ora anche Massimo D’Alema è tornato a far politica dopo una quaresima durata cinque anni. Riemerso sì, ma a pelo d’acqua: nelle settimane scorse ha tracciato - in anticipo e da dietro le quinte - la linea della scissione ai suoi riottosi compagni di strada; nei mesi precedenti aveva fatto campagna per il no al referendum ma con comizi vecchia maniera, in grandi e piccoli centri. E con lo stesso profilo basso Massimo D’Alema in queste ore sta confidando in contatti personali e riservati la linea per i prossimi mesi alla nuova area che nascerà a sinistra del Pd: «La situazione del Paese è grave, i dati sullo spread confermano che tutte le incertezze internazionali hanno un effetto immediato sull’Italia». E poi il consiglio più politico: «Comunque il governo Gentiloni va sostenuto, perché è giusto per il Paese e anche perché se l’esecutivo si consolida, potrebbe crescere la distanza tra il presidente del Consiglio e Renzi...». Come dire: più dura il governo, più si logora Renzi. E questa sera il ritorno di D’Alema sarà coronato da un evento televisivo: per la «prima» di Bianca Berlinguer, che prende la conduzione del nuovo talk show-ammiraglia di RaiTre, l’ospite d’onore è proprio Massimo D’Alema.
E lui, su scenari periferici, sta preparando le premesse anche per un possibile, al momento improbabile, rientro in Parlamento: venerdì l’ex presidente del Consiglio, per lanciare ConSenso, il suo nuovo contenitore, ha scelto l’area nella quale per diversi anni era collocato il suo feudo elettorale: il Salento. La ripartenza di Massimo D’Alema è cominciata dall’hotel Tiziano di Lecce, l’albergo delle convention dei notabili pugliesi e il primo impatto con la sua «gente» è stato incoraggiante: la sala era stracolma, i cinquecento posti esauriti, le ovazioni ripetute. 
Certo, il partito della «Nuova Sinistra» non è ancora nato ed è prematuro immaginare che Massimo D’Alema ne possa diventare uno dei parlamentari, anche perché la verve dispiegata in questi ultimi mesi nella battaglia contro Renzi non ha come obiettivo uno scranno parlamentare per un ex premier. Ma la scelta di Lecce per la partenza del suo tour e il calore dell’accoglienza sono sintomi eloquenti. E davanti ad una «chiamata», probabilmente lo stesso D’Alema potrebbe vacillare. Lui stesso, interpellato sulla promessa, sinora ignorata, di ritornarsene dietro le quinte dopo la battaglia referendaria, risponde così: «Faccio il mio lavoro di presidente di una Fondazione culturale e, quando sono libero, sono un militante. Fa parte dei diritti civili, che non mi possono essere negati».
Un diritto civile, quello alla parola, che D’Alema non si è negato da quando, nell’ottobre del 2012, decise di non ricandidarsi in Parlamento. Erano le settimane nelle quali Renzi, allora sindaco di Firenze, batteva così forte sulla rottamazione che sia Walter Veltroni che Massimo D’Alema annunciarono la non-ricandidatura alle Politiche 2013. Ma lasciando il suo scranno, in un momento nel quale erano in corso la sfida alle Primarie tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi, «Baffino» pronunciò parole destinate a durare: «Non chiederò deroghe, con Bersani candidato, il rinnovamento lo agevolerò... Ma se vince Renzi sarà scontro, in quel caso ci sarà scontro politico».
In questi giorni, prodigo di consigli agli altri big della sua area, D’Alema ha suggerito la linea: «L’ipotesi di correre verso elezioni anticipate, con la prospettiva sicura di ingovernabilità, è una scelta folle: va sostenuto convintamente il governo Gentiloni».
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Renzi fa rotta su Orlando per coprirsi con la sinistra 

Il leader benedice candidature ai gazebo che parlino al mondo ex Pci Spunta un sondaggio che lo darebbe vincente al 73% contro Emiliano 

Carlo Bertini Stampa 21 2 2017
aspettando Godot, cioè Michele Emiliano, la ruota gira, almeno così vorrebbe Matteo Renzi, stufo di una scissione ancora incompiuta, uno stillicidio cui si deve porre termine. «Ora basta, dobbiamo evitare di continuare a parlarci addosso, di portarci appresso litanie e polemiche, una volta definita la questione, bisogna tornare a parlare delle idee». Oggi il leader Pd non sarà in Direzione, convocata per costituire la commissione congresso. Adempimento che non taglia la testa al toro della scissione, perché in teoria si possono presentare candidature al congresso ancora per dieci giorni. Renzi tramite Matteo Orfini farà un ultimo tentativo per tenere dentro il governatore pugliese e i suoi deputati, come il presidente della Commissione Bilancio Francesco Boccia, che continuano a mandare segnali di fumo cercando validi appigli per restare. E se - come fa sapere il capogruppo Ettore Rosato - su un allungamento all’estate dei tempi congressuali la porta resta chiusa, l’appiglio offerto a Emiliano sarà la conferenza programmatica: su cui si batterà il tasto, dimostrando che sarà una cosa seria per consentire un confronto vero sui nodi aperti. 
Primarie il 7 maggio
Nel Pd tutta l’area ex Dc che fa capo a Dario Franceschini spinge per tenere dentro il governatore, tanto che nel dibattito sulle date delle primarie è proprio il ministro a tifare per il 7 maggio piuttosto che per il 9 aprile. Non solo perché votare più in là scongiura il rischio di un voto a giugno, «e se non si vota a giugno si va a febbraio 2018», prevede un dirigente del gruppo. Ma anche perché allungare i tempi congressuali va incontro alle richieste della minoranza, sia quella di Emiliano e compagni, sia quella di Andrea Orlando, corteggiato dal leader per una sua candidatura al congresso. Con il primo, Renzi non avrebbe paura di misurarsi e fa girare un sondaggio riservato che lo darebbe vincente al 73,5% contro l’11,7% del governatore, l’8,3% di Rossi e il 6,5% di Speranza. Il leader Pd è convinto che Emiliano non uscirà e che lascerà i compagni di avventura col cerino in mano. Dunque si prepara a combatterlo. Le bordate in assemblea dei renziani contro il governatore vengono anche interpretate nel Pd come segno della paura di un candidato insidioso, che potrebbe riservare sorprese nelle percentuali finali e nel numero di candidati che porterà a casa nelle future liste elettorali.
Discesa in campo di ex Ds
Ma in attesa di Emiliano, è su Orlando che sta puntando Renzi. Il ministro della Giustizia è considerato infatti la figura più autorevole per poter disputare un congresso che non sia una passerella per rilegittimarsi in vista delle politiche. Parlando di colui che scherzosamente nell’inner circle renziano chiamano «il nostro Bernie Sanders», alludendo al senatore americano che sfidò la Clinton alle primarie, Renzi argomenta così con i suoi la validità dell’operazione Orlando. «Con lui sarà un congresso vero, quella parte della sinistra è rappresentativa di un mondo nel Pd e lui ha un’autorevolezza per misurarsi anche su opzioni programmatiche diverse». Insomma, una benedizione in piena regola anche se ancora ufficiosa. Per una sfida nei gazebo, dove il leader vuole sia ben rappresentata l’anima della sinistra, magari anche con Cesare Damiano che non esclude di candidarsi se Orlando dovesse rinunciarvi. I renziani sono convinti che le primarie saranno alla fine molto partecipate, perché «se si candida Emiliano - e se non ci fosse lui anche con Orlando - molti dei militanti filo D’Alema e scissionisti vari filo-Bersani verranno lo stesso a votare alle primarie per condizionare il voto e indebolire Matteo». Ecco, un’altra perla della fiera dei veleni che anima il Pd. 
Tre regioni in subbuglio
Per il momento - dicono però i luogotenenti di Renzi che hanno acceso le sonde sul campo - dai territori non giungono allarmi particolari. Tranne che in Puglia per l’effetto combinato di D’Alema-Emiliano, in Calabria, terra di Nico Stumpo e in Basilicata dove gli ex Ds sono molto radicati e dove ha il suo bacino elettorale Roberto Speranza.
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Il Guardasigilli candidato antirenziano “Qualche scissionista cambierà idea” 

Chiederà primarie a metà maggio: poi sfiderà l’ex premier 

Francesco Grignetti Stampa 21 2 2017
Si schermisce, ma ci pensa. Andrea Orlando è a un passo dal candidarsi alla segreteria del Pd in rappresentanza della sinistra che tiene duro. L’Orlando pontiere ancora ieri però ci teneva a far sapere che lui continua con le telefonate. «Ho parlato con Michele Emiliano diverse volte, con Roberto Speranza, con Enrico Rossi. Non so bene con quali risultati, ma continuerò a farlo fino all’ultimo minuto utile per evitare che questa vicenda, che ha un segno doloroso, si compia». 
Una speranza sempre più esile, la sua, di evitare l’irreparabile. Ecco perché accarezza l’idea di candidarsi: per mostrare anche plasticamente che nel Pd permane uno spazio alla sinistra. Che questo partito non è tutto renziano. «Se la mia candidatura è in grado di far ripensare chi ha preso la strada della scissione, io sono in campo». 
Poi, certo, se proprio nulla servisse a fermare quei tre, Orlando pensa che una sua candidatura potrebbe almeno convincere più di qualche indeciso. Ecco perché si passano al microscopio le dichiarazioni di tanti. Quella di Nicola Zingaretti, ad esempio: «Per quanto mi riguarda, ovviamente rimarrò nel Pd». Un altro big romano che resterà è Goffredo Bettini.
Ci pensa seriamente, insomma, con un’avvertenza che va ripetendo nelle telefonate di queste ore: «Se mi candido, non è per fare la parte del Partito dei Contadini com’era in Polonia». Un riferimento criptico che sa capire soltanto chi conosce a fondo le vicende del movimento comunista. Il Partito dei Comunisti era un fantoccio in mano al partito comunista polacco, e se si gli permettevano di presentarsi alle elezioni era solo per nascondere la dittatura del partito unico. 
Prima di decidersi, vuole rendersi conto se può essere una candidatura vera e non di facciata. Per questo Orlando punta a fare le primarie il più tardi possibile, verso metà maggio: per avere il tempo di girare un po’ l’Italia e farsi conoscere. 
Una prima mossa per contarsi, intanto, Orlando l’ha fatta già domenica sera quando è stata annunciata la nascita di una nuova corrente interna che vede assieme lui, Gianni Cuperlo e Cesare Damiano. È un segno delle scomposizioni e riaggregazioni in atto dentro il Pd. A questo punto si può tranquillamente affermare che i «Giovani Turchi» non esistono più: da una parte c’è Matteo Orfini, dall’altra Orlando. Ma da domenica non c’è più nemmeno «Sinistra è Cambiamento», la corrente che univa Maurizio Martina a Cesare Damiano. 
Secondo le loro stime, la sinistra che resiste conta su un’ottantina di parlamentari. Quarantacinque gli orlandiani, tra cui Misiani, Bordo, Marantelli, Anna Rossomando, Cristina Bargero. Una ventina quelli che si riconoscono in Damiano, il più noto è Marco Miccoli. E quindici quelli di Cuperlo, tra cui Marco Carra e Andrea De Maria. Giovedì proprio De Maria presenterà il suo libro «Insieme», scritto col sindaco di Bologna, Virginio Merola, di cui non è sfuggita la frase: «L’appello del ministro Orlando è importante e ho condiviso molto le parole di Cuperlo». 
La seconda mossa del ministro, oggi, sarà la presentazione in società di un blog, Lo Stato presente, che Orlando ha predisposto qualche settimana fa e raccoglie alcune belle teste di sinistra, dallo storico Paolo Borioni all’architetto Stefano Boeri, al sindaco di Pisa Marco Filippeschi, al giurista Luigi Ferrajoli. «Parto dal presupposto di non gettare a mare un percorso che è durato dieci anni, che in questo Paese ha consentito di evitare che la sinistra fosse travolta dai populismi». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Non sempre le scissioni sono nocive 
Giovanni Sabbatucci Stampa 21 2 2017
Non è detto che tutte le scissioni siano dannose. Possono essere necessarie, o risultare addirittura utili.  Lo sono se rispecchiano una divisione profonda sui principi fondanti di un partito, se chiariscono equivoci ideologici, se interrompono convivenze oggettivamente impossibili. Rischiano di avere effetti deleteri quando nascono da contrasti personali o da piccoli giochi di potere, quando irrigidiscono e assolutizzano divergenze che potrebbero essere composte con le risorse della politica, o anche quando, come capita spesso, la linea di frattura va a situarsi nel punto sbagliato. In questi casi la scissione non solo non risolve nulla, ma tende a reiterarsi nel tempo e a riprodursi come una metastasi nelle formazioni nate da quella rottura. L’infinita casistica delle scissioni nel movimento socialista italiano offre esempi nell’uno e nell’altro senso. 
La scissione di Livorno del gennaio 1921, tanto spesso citata come concausa della sconfitta del movimento operaio nel primo dopoguerra, era inevitabile in quanto riproduceva una frattura epocale e mondiale fra comunisti e socialisti che si era aperta con la rivoluzione d’ottobre. Dannose furono semmai le modalità della scissione: ad andarsene furono i «comunisti puri» fedeli alle direttive di Mosca, mentre la maggioranza massimalista e rivoluzionaria restò nel Psi e impedì alla minoranza riformista qualsiasi alleanza politica atta a bloccare l’avanzata del fascismo (il che conferma, per inciso, che le scissioni hanno qualche possibilità di successo solo se operano un taglio netto, dando vita a gruppi omogenei e ideologicamente compatti). Per la stessa ragione fu logico il divorzio dell’ottobre 1922, quando furono i riformisti a lasciare il partito ancora controllato dai massimalisti facendo proprio lo slogan di Matteotti: «I socialisti con i socialisti, i comunisti con i comunisti». Quella volta, però, fu sbagliata la tempistica, visto che, di lì a poche settimane, Mussolini avrebbe preso il potere. Del tutto comprensibile fu la scissione di Saragat a Palazzo Barberini (gennaio 1947): sullo sfondo c’erano niente di meno che la guerra fredda e la scelta fra blocco comunista e «mondo libero». Lo stesso discorso vale per le scissioni successive: che cosa poteva tenere uniti, nel 1964, gli autonomisti socialisti che andavano al governo con la Dc e gli scissionisti un po’ operaisti e un po’ filosovietici che diedero vita (breve) al Psiup? E che cosa avevano in comune, nel 1969, i due rami della famiglia socialista, Psi e Psdi, protagonisti di una effimera riunificazione mai realmente decollata? Infine, nel ’91, come si poteva chiedere ai rifondatori del comunismo di restare in un partito (il Pds-Ds) che nasceva proprio per allontanarsi faticosamente da quel solco?
E’ facile notare come tutte le esperienze scissionistiche richiamate fin qui si caratterizzassero per un alto tasso di impegno ideologico, accompagnato a un forte riferimento internazionale. E viene spontaneo chiedersi, per venire all’oggi, se motivazioni analoghe, o ugualmente pesanti, possano essere attribuite agli uomini che si apprestano a spaccare il maggiore partito italiano (ad oggi potenzialmente il più forte del campo socialista europeo), l’unico in grado, finora, di contendere il primato a sovranisti, populisti e neo-qualunquisti. La risposta non può essere che un no secco. Certo, dietro l’imminente rottura ci sono non solo incompatibilità e risentimenti personali, non solo questioni di potere, di organigrammi e di seggi, ma anche contrasti di idee, di programmi e più ancora di stile: nulla però che ecceda la normale dialettica di un partito progressista dove tutti si dicono riformisti e tutti aspirano a occupare il polo sinistro del sistema, nulla che impedisca all’opposizione interna di giocare le sua carte nelle sedi statutarie. Ma evidentemente i promotori della scissione hanno saputo ben nasconderne le motivazioni alte e nobili, coprendole con una cortina di proclamazioni generiche e di richieste pretestuose. Consegnandoci così lo spettacolo inedito di un grande partito che si spacca sulla data di un congresso o su una telefonata non fatta. E di una minoranza che vorrebbe vincere per abbandono del principale avversario.
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“Resto nel partito ma la colpa del disastro è del leader inadeguato” 

L’INTERVISTA. GIANNI CUPERLO: “MATTEO PENSA DI AVER VINTO MA È IL CONTRARIO”

ALESSANDRA LONGO Rep
Sì se ne vanno, no tornano indietro... Ore di vigilia in cui Gianni Cuperlo continua a sperare che un piccolo margine ci sia ancora. Ci vorrebbe, però, dice Cuperlo, un altro atteggiamento da parte del segretario: «Renzi sembra non capire l’effetto che avrebbe una scissione. Se fosse così, se non ha capito, avrei davvero la conferma della sua inadeguatezza».
Cuperlo, secondo lei Renzi pensa di aver vinto la sfida?
«Il problema è proprio questo: Lui pensa di aver vinto e invece ha perduto perché le minoranze avranno fatto i loro errori ma se il Pd si rompe la responsabilità più grande è di chi stava alla guida».
Oggi Renzi non sarà nemmeno alla direzione.
«Sarebbe un altro errore dopo quello di domenica quando il segretario non ha sentito il dovere di alzarsi e replicare alle richieste che gli erano venute da tanti, Franceschini, Veltroni, Emiliano, Fassino. Ho letto che se ne è andato soddisfatto per aver regolato i conti. Se fosse vero, se davvero non ha compreso che dopo una rottura nulla sarebbe uguale a prima, avremmo, lo ripeto, la conferma della sua inadeguatezza».
Tornerà segretario, finalmente senza oppositori interni...
«Chi ragiona così è un irresponsabile. Ma anche questo fa parte di una regressione della cultura di questa classe dirigente. Troppi non capiscono che perdere un pezzo sarebbe la fine del progetto per come lo abbiamo pensato. Sarebbe una sconfitta per milioni di persone che hanno scommesso sulla nascita di un partito popolare, inclusivo, interprete di valori e passioni della sinistra nelle sue diverse stagioni e culture».
Lei rimane?
«Io sono un uomo di sinistra. E voglio militare in una forza che sia espressione di quella tradizione. Ai compagni che stanno per fare una scelta diversa dico: proviamo fino all’ultimo a difendere il progetto più ambizioso che la sinistra abbia realizzato nell’ultimo quarto di secolo».
Come vede un’eventuale candidatura di Andrea Orlando alle primarie?
«Stimo Orlando, è un amico. Penso che assieme a lui e altri dobbiamo immaginare la discontinuità più netta con questi anni che hanno visto il leader del Pd rompere l’unità del Paese, del suo campo, del partito. Vorrei che fossimo capaci di unire tutte le forze che pensano ad un’alternativa non solo possibile ma necessaria. Tutte. E che trovassimo assieme la candidatura più forte e credibile per scalare la montagna. Una cosa le dico: il congresso che verrà penso si possa vincere. Non partecipare, vincere».
Gli italiani capiscono quello che sta succedendo o vi volteranno le spalle?
«Alle regionali, nelle città, al referendum molti italiani a questo Pd hanno già voltato le spalle. Non averlo visto è una causa della crisi. Per citare Del Rio se nella diga si apre una crepa e l’acqua inizia ad uscire è impossibile prevedere ciò che accadrà. Registro il contrapporsi di due fragilità e sono turbato perché rischiamo di non essere compresi dalla nostra gente. Servirebbero coscienza dei nostri limiti, umiltà e molta, molta generosità, ciò che domenica, all’assemblea, è mancato».
Veltroni teme il ritorno al passato, di nuovo Ds e Margherita.
«Io so che dieci anni fa sedevo nella segreteria dei Ds e mi spiegarono che dovevamo fare il Pd perché col 18 per cento dei voti non bastavamo a noi stessi. Pensare di aver buttato dieci anni per tornare a prima della partenza mi pare un errore da scongiurare fino all’ultimo. In questo senso temo che rompere il Pd possa rivelarsi un’operazione antistorica».
Se l’aspettava che uno come Bersani potesse decidere di lasciare la Ditta?
«Bersani è stato per quattro anni il leader di questo partito. Se un uomo con la sua storia e cultura minaccia un passo del genere senza che l’attuale vertice senta il peso enorme di quella frattura il problema non è Bersani ma chi ha ridotto la politica a contabilità».
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Prodi: “Questo è un suicidio non posso rassegnarmi ho fatto decine di telefonate” 

L’ex premier non si schiera: “Ma non per indifferenza, sono angosciato. La crisi di sistema si combatte, non si accetta”

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
Voce squillante, umore cupo. «Sono angosciato», dice Romano Prodi. Fondatore dell’Ulivo e del Partito democratico, protagonista assoluto della stagione del centrosinistra italiano, due volte vincitore su Berlusconi, padre nobile ma mica seduto sul divano col plaid. Attivissimo, sempre in campo, figura di riferimento di un popolo o di ciò che ne è rimasto. «Faccio decine di telefonate, certo non sono indifferente alla scissione. Colloqui privati, tali rimangono». Pieno di ferite, anche. Uliviste e democratiche, ovvero inferte dalle sue creature. Dalla caduta del primo governo nel 1998 alla fine anticipata del Prodi 2 nel 2008, fino al peccato originale di questa legislatura, seme della scissione che oggi si consuma: il tradimento di 101 parlamentari del Pd che votarono contro il suo nome per la presidenza della Repubblica. Imboscati nel voto segreto.
Le ferite sono nel cuore e nella sua memoria di ferro, ma non nel fisico. «Sto molto bene, grazie. Mi sono allenato anche stamattina», esordisce cordiale. «Non sono in grado di dire nulla sul Partito democratico». Ma poi scolpisce: «Nella patologia umana c’è anche il suicidio ». Morte auto-inflitta di un progetto, di una storia fatta di carne e ossa, milioni di voti, governi, politiche, riforme. Eppure il Professore dovrebbe sapere che tutto è cambiato intorno a quell’idea, non solo gli anni che passano. L’Ulivo e il Pd si reggevano su due gambe: il maggioritario, quindi il bipolarismo e l’Europa. La prima gamba non c’è più, la seconda gode di pessima salute, anzi è il bersaglio preferito di chiunque voglia competere nelle urne. In tutto il continente. «C’è sicuramente anche questo nella crisi del Pd. Ma lei me lo chiede perché pensa che io mi rassegni? Non esiste. Semmai, mi intristico. E se è vera la crisi di sistema che abbiamo descritto, va affrontata, combattuta, sconfitta. Io non mi rassegno affatto».
Le telefonate dunque sono “di lotta”. Non chiacchierate amarcord, ma tela da tessere, consigli richiesti e non richiesti. Prodi ha parlato con Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani, Paolo Gentiloni, con il quale, a sorpresa, molti hanno scoperto che c’è una sintonia politica forte. Con Enrico Letta, naturalmente. Lo ha fatto più di una volta in questi giorni. Continua a farlo. Forse si è confrontato anche con Walter Veltroni e Massimo D’Alema.
Il Professore cerca di fermare l’onda della scissione. È lui infatti a raccontare che non aspetta lo squillo del telefonino. Non si limita a ricevere chiamate, le fa. Non dice però “chi sta sbagliando più forte”, come recita una canzone di Ivano Fossati. Se il segretario uscente che, dopo 10 anni di vita, vede il Pd perdere un pezzo. O la minoranza dem che vuole richiamarsi all’Ulivo, al centrosinistra, persino nella sigla futura, per marcare il legame con la stagione prodiana. Il contenuto dei colloqui, ripete, «deve restare privato» e la sua opinione su chi e come dovrebbe fare un passo indietro la confida solo agli interlocutori. Adesso il punto è salvare il Partito democratico. E non rassegnarsi al morbo della divisione: «La soluzione, per poi rimettersi insieme, non può certo essere la frammentazione».
Di altri attori fondamentali dell’Ulivo, arrivano prese di posizione pubbliche e altre sussurate in privato. Ha parlato Veltroni, primo segretario del Pd, ribadendo le ragioni della nascita del partito: alternativa alle destre, al consociativismo, alle larghe intese, alle coalizioni dei riformisti contro i populisti. Lo ha fatto ieri Enrico Letta, discepolo prodiano per eccellenza, con un post su Facebook che esprime, al fondo, lo stesso concetto del Professore: non rassegnarsi, non credere all’incredibile. Sceglie il silenzio invece Giorgio Napolitano, che del governo Prodi 1 fu ministro dell’Interno. Ma l’ex capo dello Stato non vede spazi per la scissione, non la condivide, non arriva nemmeno comprenderla. Per questo viene considerato uno dei principali sponsor della candidatura di Andrea Orlando alla segreteria, che significa tenere dentro al Partito democratico un profilo e una storia. Un soluzione dentro la cornice democratica, non fuori. Tace, ovviamente, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che all’ulivismo fornì una legge elettorale voluta dagli italiani con il referendum. Il suo pupillo Dario Franceschini prova ancora a salvare il salvabile, ma da una posizione «non equidistante».
Tutti si parlano, ma non si sa quanto si ascoltino. La macchina della scissione romba sulla strada di due forze separate e distinte. Ci vorrebbe o il passo indietro di uno dei contendenti o un’invenzione last minute che scongiuri la rottura. Un candidato nuovo, per esempio, che tenga unito il Pd. È anche di questo che si discute nei «colloqui privati»? Le indiscrezioni riferiscono di un pressing su Enrico Letta perché torni in Italia e affronti la sfida delle primarie per la segreteria. Possibile? In tanti lo pensano. «Non è una notizia, è un ragionamento », spiegano. Ma se questa ipotesi avesse avuto la disponibilità e la benzina per camminare, forse non saremmo a questo punto. Al punto di quello che Prodi chiama «suicidio ».
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Orlando raduna la sinistra che resta “Pronto a sfidare Renzi ed Emiliano” 

Il ministro della Giustizia e il congresso: “Non faccio il partito contadino” Renzi pensa di anticipare ad aprile le primarie

TOMMASO CIRIACO Rep
Pronto a candidarsi. E non sarà l’identikit degli avversari, né la concorrenza di Michele Emiliano a fargli cambiare idea: «Non faccio dipendere le mie scelte da chi saranno gli sfidanti spiega Andrea Orlando agli amici che lo contattano alla vigilia della direzione - Se scelgo di correre, lo faccio per sfidare Renzi ed eventualmente anche il governatore pugliese». Non era questo il piano A, a dire il vero. L’idea del Guardasigilli era quella di rifondare la sinistra del Pd senza rischiare di trovarsi in mezzo a un duello violentissimo che rischia di stritolarlo. Pazienza, l’ingranaggio è partito e non sarà la quota “populista” di Emiliano a modificare la strategia. «Se loro due alzeranno i toni e inizieranno uno scontro durissimo - racconta ai suoi - significa che noi ci presenteremo come la candidatura del buonsenso. Certo non mi metto a costruire una riserva, né a cantare Bandiera rossa...».
La minoranza è praticamente fuori. Di Bersani si intravede già la sagoma che si allontana dal Nazareno. E dire che soltanto alcune settimane fa proprio Orlando aveva studiato con “Pierluigi” un piano per far virare il partito a sinistra. Tutto naufragato. E adesso proprio ai delusi e agli antirenziani vecchi e nuovi - bersaniani inclusi - intende rivolgersi il Guardasigilli. A guidare la macchina organizzativa è Daniele Marantelli, mentre trenta deputati e dieci senatori sono già arruolati alla causa. Certo, resta in piedi l’“incognita pugliese”. I segnali che arrivano da quelle parti, in questo senso, sono emblematici. «Da soli non si va da nessuna parte - scrive sui social Alessandro Emiliano, fratello del governatore - Emiliano e Renzi insieme per responsabilità e senso del bene comune. Il Pd non deve lacerarsi ».
Non sarà quest’eventuale giravolta clamorosa, comunque, a cambiare la storia delle primarie di Orlando. Il ministro conosce naturalmente i punti di debolezza di questa scalata. A partire dall’accusa, che già gli scissionisti fanno echeggiare, di essersi compromesso irrimediabilmente con il renzismo. Forse anche di essere un candidato “comodo” per il leader. «Se mi spendo in prima persona - risponde a tutti - lo faccio per vincere. Non faremo il “partito dei contadini”, né l’opposizione di sua maestà a Renzi».
Restano ore tormentate, naturalmente. Dell’operazione non farà parte l’altro fondatore dei Giovani Turchi, Matteo Orfini, schierato senza tentennamenti con il segretario uscente. E però ci sarà Cesare Damiano, “ambasciatore” con quella galassia sindacale che Renzi ha smarrito da tempo. «Con Andrea e Cuperlo - ammette l’ex Cgil - stiamo parlando di continuo per costruire questa alternativa di sinistra nel Pd». A lui qualcuno aveva pensato anche come carta “di riserva”, nel caso in cui Orlando avesse deciso di sfilarsi dalla corsa. Ma il film prevede ormai un altro finale.
E Renzi? Il segretario uscente incassa un primo risultato, quella spaccatura nella minoranza da spendere in chiave interna, puntando il dito sulle contraddizioni degli scissionisti. Non sa ancora se partecipare alla direzione di oggi, e nel frattempo ragiona sui tempi dell’assise. L’idea era di convocare le primarie il 7 maggio, ma adesso non è escluso che possa bruciare ancora di più le tappe per non consentire agli avversari di organizzarsi. Qualche tempo fa ha lasciato trapelare di preferire Orlando ad Emiliano, ma adesso si prepara a sfidarli entrambi. A sentire i renziani non c’è problema, comunque: sondaggi riservati in loro possesso accreditavano l’ex premier al 73,5% dei consensi, con i tre della minoranza (Emiliano-Rossi- Speranza) a spartirsi il resto. Adesso anche questo scenario è alle spalle. In campo potrebbero ritrovarsi Emiliano e Orlando. E insieme infastidire il segretario uscente. Come? Puntando a sommare le forze per raggiungere il 50% dei delegati dell’assemblea nazionale - nominata sulla base dei risultati dei gazebo - in modo da controllarla.
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