martedì 7 febbraio 2017

La lotta furibonda dentro le élites statunitensi: Steve Bannon


Steve Bannon, storia di un troll razzista divenuto mainstream 
Il ritratto. Già broker della Goldman Sachs si sposta a Hollywood a produrre film reazionari. Poi dal 2012 diventa direttore di Breitbart News. Oggi è nel Security Council come «consigliere strategico» di Trump: l’arcipelago ordinovista tra falchi del Vaticano, B-movie contro i latinos e il «Deploraball» a Washington. Dai film contro Michael Moore alla rete dei blog ultra-maschilisti. Mai il fascismo americano è arrivato così vicino alle leve del potere

Luca Celada Manifesto LOS ANGELES 7.2.2017, 10:19 
Nel 2004 mi capitò di seguire a Dallas la prima edizione dell’American Film Renaissance – festival dedicato al «cinema conservatore», una risposta ad autori come Michael Moore che proprio quell’anno aveva prodotto Fahrenheit 9/11. 
La rassegna voleva rappresentare una controffensiva «culturale» della destra, impegnata a cooptare strumenti e linguaggi agit-prop, prerogative della controcultura progressista sin dai tempi della contestazione degli anni ’60. 
L’INTENTO di quel festival e di altri che vi sarebbero seguiti (come il Liberty Film Festival fondato da Govindini Murty e Jason Apuzzo a Hollywood) era di sovvertire quelle «élite liberal» designate anni dopo come «nemiche» dai trumpisti. 
Contenevano cioè l’embrione di attivismo culturale ai cui frutti assistiamo oggi: l’insediamento di un «guastatore» ideologico come Steve Bannon alle massime leve del potere. Nemmeno il più ottimista dei giovani leoni di Dallas avrebbe potuto immaginare un successo così folgorante. 

Negli anni neocon di Bush, le nuove leve del movimento conservatore si limitavano a criticare da destra l’establishment repubblicano. Ma si trattava dei primi semi di quella Alt-right che una dozzina di anni dopo avrebbe espugnato il governo del paese più potente del mondo. Fra la manciata di mediocri documentari propagandistici e film a sfondo religioso, in quel primo anno spiccava Michael Moore Hates America, una parodia di Roger& Me diretto da Michael Wilson. 
Nell’intervista di allora, Wilson era un giovane laureato, dalle argomentazioni pacate, che si infervorava sull’argomento di Ayn Rand che – come molti al festival – venerava come madre ideologico-spirituale della dottrina «libertarian». 
Rand, esule russa ebrea emigrata in America dalla Russia bolscevica nel 1925 fu drammaturga e sceneggiatrice di qualche modesto successo, poi militante politica fautrice di un proto liberismo vagamente mistico che postulò in opere come La Rivolta di Atlante e La Fonte Meravigliosa. Il movimento che fondò teorizzava l’egoismo «hobbesiano» e l’estremo individualismo imprenditoriale come motore della società virtuosa. Un filone che avrebbe influenzato successive generazioni della destra reazionaria americana. 
FRA GLI INTERVISTATI anti-Moore nel film di Wilson figurava un coetaneo del regista: Andrew Breitbart. Cresciuto in una famiglia ebrea nel facoltoso sobborgo di Brentwood a Los Angeles, Breitbart era un early adopter di internet, aveva collaborato sia con Arianna Huffington (quando era ancora repubblicana) al lancio di Huffington Post e con Matt Drudge al suo portale reazionario Drudge Report
Fatto tesoro di quelle esperienze – e dell’operazione di diffusione ideologica di Fox News – Breitbart nel 2007 lancerà Breitbart News, destinato a diventare il portale di riferimento della Alt-right. 
Nel suo sito, Breitbart adotta e aggiorna per la rete il «format della rabbia» e della bufala, affinato per anni sull’etere delle am-radio, i talk show delle emittenti conservatrici che trasmettono sulle onde medie. I programmi urlati da conduttori come Rush Limbaugh, Sean Hannity, Laura Ingram, Glenn Beck (e, fra gli altri, il futuro vicepresidente Mike Pence) offrono sfogo e catarsi agli ascoltatori che invitano a commentare in diretta. 
UNA DIETA QUOTIDIANA di complottismo e rancore verso le urban élites o le Nazioni unite. Una dialettica kamikaze che negli anni 2000 fa da eco a quella della Fox News sempre più plasmata da Roger Ailes in vero ministero della comunicazione del Gop di era Tea Party. 
Breitbart però coopta anche tecniche di provocazione «situazionista» tradizionalmente usate dalla sinistra (quelle degli Yes Men ad esempio). 
Nel 2009 un suo collaboratore, James O’Keefe, lancia un’operazione per screditare la Acorn, una cooperativa per l’assistenza sociale ai ceti urbani disagiati, coacervo di disprezzati «community organizer». Con un’attrice nei panni di una prostituta O’Keefe si presenta negli uffici della ong e chiede incentivi per aprire una attività di prostituzione giovanile. Ottenuta l’apparente offerta di assistenza O’Keefe pubblica i video girati con camera nascosta. Una successiva inchiesta non troverà estremi di illeciti ma l’obiettivo è raggiunto: gettare ombra sull’organizzazione e per estensione sulle politiche sociali di Obama. 
INTERNET OFFRE una inedita, efficace e anonima cassa di risonanza alla retorica dell’insulto, facendo nuovi proseliti negli ambienti limitrofi ai videogiochi e del tech. Un giro quasi esclusivamente maschile che sarà battezzato manoshpere
L’antifemminismo militante si manifesta nei post di siti e blog che deridono e insultano donne come quello di Mike Cernovich un giovane avvocato californiano, altro collaboratore di Breitbart, titolare del blog Danger and Play e autore di Gorilla Mindset, un libro su come liberare «l’animale interiore» per non farsi sottomettere dalle donne. 
Quando si dichiarano anti gender, il genere che hanno in mente i troll della manosphere è quello femminile; opposizione che la febbrile campagna anti Hillary ha ulteriormente cristallizzato. 
LA FAZIONE MASCHILISTA e «trollista» sviluppata su Alt-right sarà componente fondamentale della coalizione populista catalizzata da Trump. 
Nella singolare e strumentale confederazione trumpista di working class bianca, nazionalisti, evangelici e troll si coniugano il rancore viscerale delle am-radio e l’aggressiva supponenza libertarian con la cifra comune di una bellicosità ammantata di sacrosanta rivalsa. 
Lo capirà più di ogni altro Steve Bannon un sodale di Bretibart che rileva la direzione di Breitbart News dopo l’improvvisa morte del titolare nel 2012. 
STEVE BANNON – già broker della Goldman Sachs – si sposta a Hollywood dove fa il produttore e finanziere di medio rango facendo fortuna con i diritti delle repliche della serie comica Seinfeld. Accanto a questa attività, coltiva però una passione politica reazionaria che esplicita in una serie di documentari propagandistici che si ricollegano ai film in cartellone in quel primo festival a Dallas. 
Il primo risale proprio al 2004: In The Face of Evil traccia «la crociata di Ronald Reagan per distruggere il sistema politico più tirannico e depravato che il mondo abbia mai conosciuto». 
Seguono Cochise County e Border War che documentano gli «eroici sforzi» dei vigilantes armati che pattugliano il confine contro i clandestini messicani. 
Altri film realizzati da Bannon sono apologie di Sarah Palin (Undefeated) e del Tea Party (Battle for America), elogi della «America vera» e sermoni contro il movimento Occupy e le «élite cosmopolite e globaliste». 
Una filmografia che declina una ideologia populista anti-multiculturale e anti statalista. Bannon e la nuova destra della Alt-right considerano welfare e pari opportunità come un cancro sociale che corrode l’originale fibra della nazione. 
L’assalto ai diritti civili di minoranze è dissimulata come critica della «correttezza politica» e ammicca agli ambienti più estremisti dell’arcipelago reazionario e inevitabilmente alle frange razziste del suprematismo bianco. 
Siamo agli albori di un conflitto brutale, ha detto riferendosi allo scontro con l’islamofascismo esortando i cattolici alla guerra globale contro laicità e califfato 
«NON SONO UN NAZIONALISTA» si schernirà successivamente Bannon una volta giunto ai vertici del potere. «Sono un nazionalista economico» ma è, a dir poco, un eufemismo. 
In realtà Bannon esprime posizioni radicalmente ordinoviste come quelle da lui stesso descritte nel 2014 in un intervento ad una conferenza presso il Dignitatis Humanae Institute, istituto vaticano presieduto dal cardinale Raffaele Martino e diretto da Benjamin Harnwell. 
In quell’occasione dichiara che «siamo tutti figli della barbarie iniziata con l’assassinio dell’arciduca Ferdinando che pose termine alla pax vittoriana». L’attuale crisi capitalista, nell’analisi «epocale» di Bannon, è conseguenza della «perdita delle radici giudeo-cristiane della civiltà occidentale». 
Il «destino manifesto» cristiano e capitalista di un occidente predestinato e superiore rivela (ancora una volta) il debito Alt-right al pensiero di Ayn Rand. 
NELLA VERSIONE APOCALITTICA di Bannon le sorti dell’occidente si giocano nello scontro di civiltà che oggi affronta. «Siamo agli albori di un conflitto brutale e sanguinoso» ha dichiarato riferendosi ovviamente allo scontro con «l’islamofascismo», un dogma assunto dall’amministrazione Trump. 
Né è casuale che abbia articolato il concetto a Roma esortando i cattolici e la chiesa ad arruolarsi nella «guerra globale contro laicità e califfato per salvare l’occidente». 
Che la chiamata alle armi si stata lanciata in Vaticano pare tanto più significativo alla luce degli attuali contatti fra integralismo cattolico, nazionalismi europei e trumpismo. Non casuale forse anche il fatto che Breitbart abbia appena aperto un ufficio di corrispondenza proprio dal Vaticano
Con Bannon oggi nel consiglio sicurezza e «consigliere strategico speciale» del «leader del mondo libero», l’arcipelago dell’internazionale ordinovista – considerato estremo finora perfino in ambienti ultra conservatori – si trova insediato ai vertici assoluti del potere. 
È difficile rendere la straordinarietà della situazione. Mai fascismo americano aveva raggiunto così completamente le leve del comando. 
L’avvento di Bannon e Trump equivale ad una vittoria presidenziale di George Wallace o di Barry Goldwater. È come se fossero diventati presidente J. Edgar Hoover o Joseph McCarthy e le loro orwelliane cacce alle streghe diventate politica nazionale. 
Il 20 gennaio Trump avrebbe annunciato la nascita di una nuova era e proclamato nel primo atto ufficiale una «giornata di devozione patriottica», una retorica degna di Philip K Dick e della sua Svastica sul Sole, che non ha potuto che rincuorare gli adepti della Alt-right che lo avevano seguito a Washington. 
Per celebrare l’inaspettata vittoria, si sono dati appuntamento in un ricevimento al National Press Club alla vigilia dell’insediamento. La festa era intitolata Deploraball (ironica frecciata a quel «deplorevoli» con cui li aveva dipinti Hillary Clinton) ma per molti versi è stato un summit celebratorio del partito di Bannon e Breitbart. Alla soirée erano presenti il «mascolinista» Cernovich e il breitbartiano James O Keefe (quello della operazione Acorn). Alex Jones, l’incazzatura come format 
C’erano Michael Flynn Jr, figlio del generale omonimo, capo della sicurezza nazionale di Trump, e Alex Jones, attuale decano complottista che dal suo sito Infowars denuncia complotti ebrei per abbattere le torri gemelle e accusa Obama di aver compiuto la strage alla scuola elementare di Newtown. Tutti insieme hanno celebrato l’improbabile ma concreto trionfo della Alt-right. 
Come ha dichiarato l’ex nixoniano Roger Stone, altro esponente «deplorevole» dell’ultradestra, amico di Bannon e consigliere di Trump: «Il mainstream adesso siamo noi. Le frange sono Cnn e il New York Times».

Tutti gli ideologi del Presidente In trincea per difendere gli Usa Bannon guida il team di pensatori che forgiano l’America di Trump È lui ad aver ideato il bando ai rifugiati. E ora Silicon Valley si ribella Paolo Mastrolilli Busiarda 7 2 2017
«Quelle del 2016 sono le elezioni del Volo 93: assalta la cabina di pilotaggio, o morirai. Forse morirai comunque. Tu - o il leader del tuo partito - potreste riuscire ad entrare nella cabina, ma non sapere poi come pilotare l’aereo o farlo atterrare. Non ci sono garanzie. Tranne una: se non ci provi, la morte è sicura. Perché, per completare la metafora, la presidenza di Hillary Clinton sarebbe come giocare alla roulette russa con un’arma semiautomatica. Con Trump almeno puoi girare il tamburo dei proiettili, e sperare di essere fortunato». Queste sono le frasi con cui cominciava l’articolo «The Flight 93 Election», pubblicato il 5 settembre dell’anno scorso dalla Claremont Review of Books. L’autore aveva firmato con lo pseudonimo Publius Decius Mus, un console romano che si era sacrificato in battaglia per salvare la nazione, ma ora sappiamo che il suo vero nome è Michael Anton e dalla settimana scorsa lavora alla Casa Bianca. Anton, un quarantenne di New York, fa parte del «cerchio magico» che sta cercando di imprimere la direzione ideologica alla presidenza Trump, contro l’ala dell’establishment. Il leader è l’ormai notissimo Steve Bannon, ex capo del sito Breitbart, a cui la rivista Time ha dedicato la copertina definendolo «il secondo uomo più potente al mondo». Con lui lavorano altri consiglieri chiave come Stephen Miller, senior advisor del presidente, e autore del discorso che tenne alla Convention di Cleveland. Miller è nato a Santa Monica in una famiglia liberal, ma si era convertito al conservatorismo dopo aver letto «Guns, Crime and Freedom», testo seminale del capo della National Rifle Association Wayne LaPierre. Si era rivoltato contro la cultura liberal californiana in cui era cresciuto, scrivendo sul giornale del liceo che «Bin Laden si sentirebbe benvenuto nella nostra scuola». Dopo la laurea alla Duke University era andato a lavorare per il senatore Sessions, scelto da Trump come ministro della Giustizia, elaborando la dottrina del «nation-state populism» con cui contrastare la globalizzazione.
Insieme a loro lavora Sebastian Gorka, deputy assistant del presidente, ex direttore dei National Security Affairs per Breitbart. È nato a Londra da genitori ungheresi fuggiti al comunismo, dopo gli studi si è trasferito negli Usa. Il 31 gennaio 2016 era stato fermato all’aeroporto Reagan di Washington, perché voleva salire sull’aereo con una pistola in valigia.
La dottrina di Bannon, ex dirigente di Goldman Sachs, è nota. Eminenza grigia della Casa Bianca, è stato l’autore del bando contro gli immigrati in arrivo da 7 paesi islamici. Non a caso, ieri, si sono unite al ricorso contro questo provvedimento tutte le aziende leader della Silicon Valley, cioé i liberal globalisti che lui aborrisce. Durante una conferenza del 2014, organizzata in Vaticano da un gruppo vicino al cardinale conservatore americano Burke, grande critico di Papa Franceso, Bannon aveva detto via Skype che, dopo il crollo dell’Urss, l’Occidente, il capitalismo, la Chiesa, sono precipitati in una crisi che ne minaccia la sopravvivenza. A questo poi si è aggiunta la sfida dell’Isis e dell’islam radicale. Aveva paragonato la situazione attuale a quella precedente all’uccisione dell’arciduca Ferdinando a Sarajevo, che aveva messo fine all’era vittoriana e aperto la porta alle due guerre mondiali.
La visione di Anton è quasi più apocalittica di Bannon, e vale la pena di leggere «The Flight 93 Election» per capire l’ideologia che questo gruppo ha portato al potere. Secondo Michael i repubblicani dell’establishment, tipo Reince Priebus che ora guida l’ala rivale alla Casa Bianca, si erano rassegnati alla marcia dei liberal, che poggiando sull’immigrazione dal terzo mondo puntavano a creare una maggioranza permanente. Così avrebbero distrutto tutti i valori più cari dell’Occidente. «Trump è peggio che imperfetto», ma davanti alla morte sicura, votarlo è stato come assalire la cabina di pilotaggio del volo 93 dirottato dai terroristi: magari morirai lo stesso, ma almeno ci hai provato. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Il cuore nero della destra americana  Da Evola a Mussolini fino a D’Annunzio il pantheon di BannonDel consigliere di Trump si conoscevano i legami con i suprematisti bianchi, ma ora spuntano quelli con i classici del Ventennio Il rischio di tentazioni illiberali e totalitarieFEDERICO RAMPINI Rep 12 2 2017
«Per capire l’America di oggi mi sono immerso nella biografia di Gabriele d’Annunzio. Tutto comincia da lui, poi viene Mussolini, buon ultimo Trump». È la confessione che mi fa una grande firma culturale del
New Yorker,
Russell Platt. «D’Annunzio – mi dice Platt – elabora molti temi della cultura fascista ma è anche un genio del self-marketing, un narcisista estremo, un maestro moderno nella promozione della propria immagine. L’attuale presidente degli Stati Uniti al confronto è un dilettante, d’Annunzio giocava con ventimila vocaboli, a Trump ne bastano otto ». Lo sfogo di Platt non è inusuale. Nella nostra epoca eccezionale – o che crede di esserlo per ignoranza del passato – accade pure questo: l’élite intellettuale americana, la sinistra newyorchese o l’estrema destra di Stephen Bannon, si è convinta che abbiamo inventato tutto noi. È già accaduto, e proprio in Italia. Silvio Berlusconi che Trump studiò come modello molto prima di candidarsi, la Lega Nord, Beppe Grillo, gli ingredienti italiani vengono riscoperti e studiati con attenzione. Poi si risale più indietro di un secolo, a d’Annunzio e Mussolini per l’appunto.
A riscoprire l’Italia come laboratorio politico – non in senso positivo – fu un intellettuale neoconservatore ma anti-trumpiano, Robert Kagan. Era il 18 maggio dell’anno scorso, The Donald non aveva neppure vinto la nomination repubblicana. Kagan dalle colonne del Washington Post lanciò quel terribile allarme: «Così il Fascismo arriva in America». Seguì un revival di vendite per alcuni romanzi premonitori, sul filone della fanta-politica: «Da noi non può succedere» di Sinclair Lewis, anno 1934, che immagina un fascista alla Casa Bianca al posto di Franklin Roosevelt, o il più recente «Complotto contro l’America » di Philip Roth che ha una trama simile. E giù tutti a ristudiarsi gli anni Venti e Trenta, quando non furono Stalin o Hitler ma proprio Mussolini ad affascinare tanti americani illustri: Henry Ford, Charles Lindberg, William Randolph Hearst, perfino il padre dei Kennedy. Il “rivoluzionario” prima ancora del fascista, secondo la definizione di Renzo De Felice: il Mussolini eclettico e ambiguo che manipolava idee socialiste o nazionaliste, piaceva alla piccola borghesia impoverita dalla prima guerra mondiale, e ai grandi industriali o agrari reazionari.
L’allarme di Kagan del maggio 2016 e le paure dell’intellighenzia progressista potevano sembrare delle esagerazioni. Fino a quando sulla scena è apparso Stephen Bannon, l’eminenza grigia di Trump, elevato dal presidente nel circolo dei consiglieri più intimi, nominato perfino nell’organismo istituzionale che elabora strategie militari e di politica estera, il National Security Council. Bannon è l’ispiratore di alcune delle mosse più controverse, come il decreto sigilla- frontiere bloccato dai tribunali. Di Bannon si conoscevano i trascorsi nel sito di fake-news
Breitbart, i legami con l’estrema destra detta “alt-right”, perfino con esponenti del Ku Klux Klan. Fin qui siamo nell’alveo della destra reazionaria americana, i suprematisti bianchi, che negli anni Sessanta esprimeva dei leader politici nazionali come George Wallace e Barry Goldwater (meno fortunati di Trump). Ma è lo stesso Bannon che a un certo punto ha tirato in ballo l’Italia, come patria dei suoi “classici”. The New York Times di recente ha indagato sull’ammirazione dichiarata di Bannon per Julius Evola; e al tempo stesso i suoi legami coltivati attraverso Breitbart con gli ambienti tradizionalisti del Vaticano. Nasce un neologismo per designare questo mondo, è in disuso “teocon”, ora si dice “rad-trad” ovvero radical-tradizionalisti. Sulla rivista The Atlantic, il conservatore dissidente David Frum pubblica un saggio intitolato «Come si costruisce un’autocrazia»: secondo lui ci sono le condizioni perché l’America soccomba alla tentazione illiberale, perfino totalitaria, se il Congresso e l’opinione pubblica si arrendono al trumpismo. Tra le analogie più audaci, c’è chi connette il “biennio rosso” italiano che portò alla vittoria Mussolini, e gli eccessi del “politically correct” nei campus universitari Usa: non certo per un’equivalenza con le violente proteste e scioperi che paralizzarono l’Italia nel 1920, ma per il senso d’identità e di valori minacciati nel ceto medio benpensante. Timothy Egan sul
New York Times ricorda che se il Fascismo in America non sfondò, è solo perché ebbe di fronte un altro populismo efficace, quello di Roosevelt che mise al centro delle sue politiche “the Forgotten Man”, l’uomo dimenticato, l’operaio bianco all’ultimo livello della piramide sociale. The Forgotten Man: esattamente l’espressione che Trump ha copiato nel suo discorso del giuramento, Inauguration Day, 20 gennaio. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

Nessun commento: