domenica 5 febbraio 2017

La mostra sulla Mesopotamia a Venezia


Tra il Tigri e l’Eufrate 
Luciano Del Sette Manifesto Alias VENEZIA 4.2.2017, 16:24 
Improvvisamente, la nebbia della memoria si dirada. La nebbia che avvolgeva nomi imparati sui banchi di scuola, e poi, negli anni, privati di una loro, precisa, identità. Mesopotamia, Babele, Ninive, Nabucodonosor, Gilgamesh, Assurbanipal, Semiramide… Storia e geografia che hanno tempo e confini, miti e leggende che tempo e confini non conoscono. Improvvisamente, a Venezia, in Campo Santo Stefano e in cima alla scalinata di Palazzo Loredan, una mattina di metà gennaio, la nebbia della memoria si dirada. E quei nomi, quella storia e quella geografia, quei miti e quelle leggende, si riconsegnano a te. Chiusi negli spazi trasparenti di una mostra, dove l’oscurità indebolita soltanto da poche e giuste luci si fa complice dell’attenzione. Prima dell’alfabeto, Viaggio nella Mesopotamia alle origini della scrittura, è il titolo di una mostra che ai ricordi quasi estinti dei banchi di scuola restituisce forza e conferisce loro il dono dell’emozione. Se prima di entrare ti avessero detto che dentro le vetrine di Prima dell’alfabeto, duecento pezzi provenienti dalla Collezione di Giancarlo Ligabue, avresti trovato per lo più tavolette di argilla e sigilli cilindrici, forse ti saresti inventato una buona scusa per rimandare l’occasione. Commettendo un piccolo, imperdonabile, errore. Frederick Mario Fales, assirologo e studioso del Vicino Oriente, definisce la mostra, di cui è curatore, ‘da meditazione’. Come certi whisky, aggiunge con un sorriso da esperto non di sole antichità. È così, ma occorre far precedere la meditazione da una sorta di Bignami, tale per obbligo di spazio, che identifichi luoghi e date degli eventi.
IRAQ, 3200 A.C.
Mesopotamia, la terra tra le acque del Tigri e dell’Eufrate, oggi assai più brevemente e tragicamente Iraq, 3200 avanti Cristo, l’anno che segna la nascita della scrittura cuneiforme, incisa su centinaia di migliaia di tavolette e sigilli. Saranno loro, nel corso dei millenni, a testimoniare di commerci, trattative, accordi, acquisti di case e terreni, decisioni giuridiche, pratiche d’usura, adozioni infantili, perfino di tangenti in cambio di favori. Racconteranno vita e imprese dei sovrani, vita quotidiana, pozioni mediche, pratiche religiose, avvenimenti della storia, celebrazioni. Tramanderanno la mitologia della nascita dell’uomo e del diluvio universale, dell’eroe Gilgamesh e del suo amico Enkidu, della ribellione degli dei Igigi al dio Enlil che li ha fatti schiavi del lavoro. Approderanno in Siria, sulle sponde dell’Eufrate, in Persia. Daranno involontariamente corpo a un incredibile patrimonio di archivi e biblioteche, dimostrando che, duemila anni in anticipo sui fenici e tremila e seicento sugli arabi, la Mesopotamia aveva compreso l’enorme importanza della scrittura. Occorrerà arrivare al XVII secolo perché l’Occidente decifri quei segni, riesca a interpretare ciò che su tavolette e sigilli avevano lasciato gli scribi e gli sfragisti. Il poligrafico romano Pietro Della Valle racconta nel suo Viaggi delle gigantesche iscrizioni ‘in caratteri sconosciuti’ da lui ammirate in Mesopotamia, durante un pellegrinaggio in Terra Santa agli albori del ’600. Carsten Niebhur, un secolo e mezzo dopo, unico superstite di una spedizione, disegna le iscrizioni di Persepoli. Il linguista Georg Friedrich Grotefend, nel 1802, è il primo a decifrare la scrittura cuneiforme. Sempre nella stessa epoca, il baronetto inglese Henry Creswicke Rawlinson, sospeso a settanta metri di altezza, copia e poi riesce a tradurre l’iscrizione trilingue di Dario I incisa sulle rocce di Bisutun, Iran; Paul Emile Botta e Austen Henry Lavard scoprono i resti della città di Ninive. A metà del ’900, Jean Bottéro traduce il Codice di Hammurabi. Meditazione ed emozione sono alchimia che rende difficile dare priorità.
DOCUMENTI E SIGILLI
Dunque non resta che citare. La busta d’argilla, XIX secolo a.C., con tavoletta all’interno, promemoria di un quantitativo di rame, certificato da firme; la tavoletta del XXV secolo a.C. comprovante l’acquisto di una casa; la Tavoletta dei Messaggeri, 2065/ 2005, a.C., elenco di razioni di birra, olio, farina, pane, grasso; la tavoletta delle prescrizioni mediche per una partoriente corredate da due incantesimi, Primo Millennio a.C.; il calco di cilindro con iscrizione di Ciro II di Persia, V secolo a.C., che legittima la conquista di Babilonia. Nella splendida selezione dei sigilli, curata dall’archeologa Roswhita Del Fabbro, l’aquila Imdugud e alcuni bevitori che attingono birra da un vaso tramite lunghe cannucce; il sigillo incastonato in un anello, due capridi sormontati da figure alate; il tondo dell’orante, mani alzate in preghiera davanti a una creatura ibrida; la Dea Nuda, alla sua destra la dea Lama e a sinistra un sovrano armato di mazza. Emozioni e stupore regala il frammento di bassorilievo assiro da Dur-Sharrukin, oggi Khorsabad, Iraq, che raffigura il re Sargon in abito cerimoniale; le meravigliose collane ritrovate nelle tombe del cimitero di Ur; l’albero sacro e tre geni alati, sulle placchette dell’VIII secolo a.C., in oro; le scene dal mito di Etana, tredicesimo re della prima dinastia di Kish, 3000 a.C. Dal ciclo epico dell’Epopea di Gilgamesh, 2600 anni prima di Cristo ‘L’umanità conta i suoi giorni, qualunque cosa faccia è vento’. Nella terra dei due fiumi ha disegnato su piccole tavole d’argilla il nostro futuro. 
I LUOGHI DEGLI ANTICHI SITI DISTRUTTI DALL’ISIS 
9 novembre 1993. Sulle reti televisive del mondo intero scorrono le immagini della distruzione del ponte di Mostar, lo Stari Most, Bosnia-Erzegovina. In una manciata di secondi, i secessionisti croati fanno macerie del ponte ottomano, costruito quattro secoli prima. 12 marzo 2001. Lo «spettacolo» si ripete a Bamyan, Afghanistan. In una sequenza impressionante, girata e diffusa dai talebani stessi, le immense statue del Buddha, III e V secolo, si sbriciolano come pane raffermo dentro le nicchie che li accoglievano. Indignazione, dolore, sgomento per la morte dello Stari Most e dei Buddha si erano allora accompagnati alla speranza, alla convinzione, che immagini come quelle non le avremmo viste mai più. Speranza e convinzione dissolte nell’elenco delle stragi archeologiche compiute dall’Isis tra il 2015 e il 2016.
Iraq: distruzione di buona parte delle mura di Ninive, della città assira di Nimrud, delle opere del museo archeologico di Mosul. E sempre a Mosul, della Porta di Dio, del monastero di Sant’Elia, del mausoleo sciita di Fathi al-Kahen. Distruzione della moschea di Al-Arbahin a Tikrit e delle quaranta tombe omayyadi, della tomba e moschea del profeta Jirjis, del santuario dell’imam Awn al-Din, di una delle tombe presunte del profeta Daniele, della tomba e moschea del profeta Giona, delle rovine assire di Dur-Sharrukin.
Libia: distruzione dei santuari sufi vicino a Tripoli.
Mali: distruzione dei mausolei e dei monumenti sufi a Timbuctù.
Siria: distruzione del sito assiro di Tal Ajaja e del monastero di Sant’Elian a Qaryatayn. Palmira: distruzione del leone di al-Lat, della tomba di Muhammad bin Ali, del sepolcro di Shagaf, dei templi di Baal Shamin e di Bel, dell’Arco di Settimio Severo. Decapitazione del direttore del sito, Khaled Assam, ottantadue anni. Il 26 marzo 2016 Palmira viene riconquistata dall’esercito siriano con l’appoggio dell’aviazione russa, ma il 10 dicembre torna in mano all’Isis, che il 20 gennaio di quest’anno diffonde la notizia di aver distrutto il Tetrapilo e la facciata del Teatro Romano.
Il 10 dicembre è anche il giorno in cui, a Damasco, si è svolto un convegno internazionale di archeologi sullo stato e il futuro del patrimonio siriano, promosso dal governo. Molti accademici esprimono il proprio dissenso nei confronti di un’iniziativa che si svolge proprio mentre ad Aleppo è in corso l’offensiva finale contro l’Isis, certamente foriera di altri morti e altre distruzioni. Essere lì, affermano, significa avallare indirettamente il regime di Bashar al Assad. Il più deciso nel contestare il convegno è l’archeologo Marc Lebeau, che lamenta un atteggiamento di indifferenza, chiede il rispetto della lotta del popolo siriano, accusa chi continua a lavorare nel Vicino Oriente di sapere bene quanto lì i diritti umani siano violati «…gli archeologi di prima (prima dello scoppio della guerra civile nel 2011, ndr) non erano in contatto con il regime né erano coinvolti nella propaganda». Lebeau e i dissidenti stanno lavorando a una Carta degli archeologi in tempo di guerra. «Ho concluso la mia ultima lezione dicendo ai mei studenti ‘In una vita normale avrei dovuto augurarvi di vedere e godere di molte più cose rispetto a quelle che ho visto io. Non ve lo posso dire. Perché oggi voi non potete andare in un gran numero di paesi che ho visto e studiato. Per molto tempo sarà così’». È l’esordio dell’incontro con Frederick Mario Fales, professore ordinario di Storia del Vicino Oriente Antico all’Università di Udine, da poco in pensione.
Altrettanto perentorio è Fales nell’affermare la fine di un’epoca: «Dal secondo dopoguerra abbiamo vissuto un sessantennio estremamente felice per l’archeologia orientale, di legame con le nuove democrazie della regione che in alcuni casi hanno cercato di sviluppare le classi dirigenti degli archeologi e degli studiosi. Abbiamo potuto intervenire in progetti di salvataggio sul Tigri e sull’Eufrate; abbiamo lavorato nello Yemen. Un periodo magico. Tutto questo ci è scoppiato in mano perché le cosiddette Primavere arabe si sono rivelate un fallimento, una democratizzazione senza regole».
Insieme al rimpianto professionale, quello umano «Bravissima gente, i siriani. Finché siamo rimasti lì, abbiamo pianto con loro ai funerali e fatto festa ai matrimoni. Sono diventate delle belve umane. Mi fa impressione, mi fa riflettere, pensarli prima, pacifici e amici». Pessimista convinto si dichiara il professore anche rispetto alle modalità di rinascita della Siria: «Non sarà ricostruita come io e lei vorremmo. La Siria non tornerà più a essere quella dei suq meravigliosi nelle città, dei grandi alberghi, dei quartieri popolari, delle grandi campagne e dei villaggi. Ci saranno, se ci si arriverà, una reindustrializzazione nuova, una ricrescita non necessariamente rispettosa del territorio, perché nessuno ha detto che occorre esserlo». E l’archeologia? «Pensare di ritornare sui siti, di riaprire la casa del guardiano, è una follia. Se mai succedesse, ci faremo scrivere i permessi in arabo o in cirillico?». 
«Prima dell’alfabeto» nasconde nell’involucro delle sue vetrine narrazioni di usanze e rituali, miti e leggende, che hanno incredibili analogie con altri, ad altre latitudini e in altre civiltà. Prendete la tavoletta in argilla ricavata dal sigillo cilindrico ‘Bevitori di birra con l’aquila Imdugud’, 3000 a.C. Nella parte superiore, i personaggi, per bere, affondano lunghe cannucce in un grande recipiente. Lo stesso, ancora oggi, fanno gli uomini dell’etnia Qiang, nella provincia di Sichuan, Cina. Altrettanto sorprendente la coincidenza che riguarda la tavoletta con gli ingredienti di un infuso per aiutare il momento del parto. Il testo dà istruzione alla donna di accovacciarsi sopra la bocca del recipiente che contiene l’infuso posto su un braciere, in modo che i vapori aiutino la dilatazione. Le ricerche di Roswhita Del Fabbro l’hanno condotta a un’illustrazione del XIX secolo, dove alcune donne africane sono ritratte in identica postura. Una delle sale della mostra diffonde una voce maschile che si lamenta sommessamente. Denuncia il suo stato di prostrazione, gli atti di contrizione rivolti al dio; afferma di aver esplorato il suo animo senza riuscire a trovare una ragione o una colpa che giustifichino tanta sventura. Chiede «Per quanto tempo non avrai cura di me e non mi assisterai?» Il dio lo salva l’uomo e lo esorta «… ungi colui che si è bruciato, dai da mangiare all’affamato, dai da bere acqua all’assetato». Il pensiero corre subito a Giobbe e alle Opere di Misericordia chieste da Gesù nel Vangelo secondo Matteo, ma il testo del lamento, in lingua sumerica, risale al XIX secolo a.C. ed è noto come Tema del Giusto sofferente. Creazione dell’uomo e Diluvio Universale sono narrati nel Poema di Atrahsis, composizione databile al 1700 a.C. circa. Subito dopo la cosmogonia, il dio Anu è salito in cielo e il dio Enku è sceso nell’Apsu, l’abisso di acque. Della terra è divenuto sovrano il dio Enlil. Che impone agli dei Igigi di scavare il Tigri e l’Eufrate, e svolgere durissimi lavori. Duemila e cinquecento anni dopo gli Igigi si ribellano. Enlil, spaventato dal timore di eventuali guerre, accetta, seguendo il consiglio di Anu, di creare l’uomo. Il compito è affidato alla Dea Madre, Mami, che sacrificando il dio We (dio dell’intelligenza), ne mischia le carni e il sangue all’argilla. Convoca poi gli Igigi, esortandoli a sputare sull’impasto. Nasce così l’uomo, cui Enlil assegna il dovere del lavoro. Ma il frastuono prodotto dall’umanità, che in milleduecento anni si è moltiplicata, diviene per Enlil così insopportabile da indurlo a scatenare un’epidemia. Il saggio Athrasis intrattiene buoni rapporti con il dio Ea, che gli suggerisce il modo di fermarla. Una seconda epidemia e una carestia cesseranno i loro effetti sempre grazie all’intervento di Ea. Quando Enlil decide il Diluvio Universale, è ancora Ea a spronare Athrasis affinché costruisca una barca per salvare sé stesso e le specie animali. La barca approda in cima a un monte. Enlil, placata la sua ira, concede vita eterna ad Athrasis. (l.d.s.) 

LA MOSTRA
A Venezia, Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano fino al 25 aprile. Raccomandato vivamente l’acquisto del catalogo edito da Giunti, 40 euro, curato da Adriano Favaro. Il volume, oltre a presentare i reperti esposti attraverso splendide immagini fotografiche, guida il lettore dentro la storia della Mesopotamia e della scrittura cuneiforme. Gli otto capitoli corrispondono alle sezioni della mostra, dal quadro geografico d’insieme alla decifrazione dei testi, passando per il lavoro dello scriba e dello sfragista, il rapporto tra uomini e dei, i sovrani e le loro gesta, la vita quotidiana. Di particolare attualità e interesse la prefazione firmata da Frederick Mario Fales. Per informazioni: 041-2705616 www.primadellalfabeto.it

In principio era il verbo. Scritto in cuneiforme
Maurizio Assalto Stampa 22 2 2017
Ai primi europei che se li trovarono di fronte, quegli strani segni incisi su tavolette di argilla dovettero sembrare impronte lasciate da zampe di uccelli. Pietro Della Valle, l’erudito romano che all’inizio del Seicento compì un lungo viaggio nel Vicino Oriente, davanti alle grandi «iscrittioni» che vide nell’Apadana di Persepoli produsse uno sforzo di comprensione notevole, ma alla fine si arrese: «in che lingua e lettera siano, non si sa; perché è carattere hoggi ignoto».
Ai segreti e alle rivelazioni del cuneiforme - che assieme al geroglifico egiziano è il più antico sistema di scrittura al mondo, escogitato in Mesopotamia oltre 5 mila anni fa e da lì diffuso in una vasta area circostante, fino all’Iran - è dedicata la rassegna «Segni prima dell’alfabeto», curata da Frederick Mario Fales con Roswitha Del Fabbro e ospitata a Venezia, presso l’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti, fino al 25 aprile (catalogo Giunti). Un viaggio alle origini della scrittura che è anche un viaggio alle radici dell’Occidente, perché è nella Terra tra i Due Fiumi, come intuì Jean Bottéro, che si incontra «il primo abbozzo di quello che, ripreso, amplificato, approfondito e organizzato più tardi dai pensatori greci» diventerà lo spirito della nostra civiltà. 
In mostra 200 pezzi, tra vasi, statuine, placche votive, gioielli, soprattutto tavolette iscritte e meravigliosi sigilli che evocano il mito del Diluvio e le storie di dèi e eroi. Provengono dalla straordinaria collezione messa insieme dal veneziano Giancarlo Ligabue - grande imprenditore nel ramo del catering e appassionato paleontologo e archeologo, scomparso nel 2015 (ne ha raccolto il testimone il figlio Inti, che gli intitolato una Fondazione) - con l’aggiunta di alcuni importanti prestiti dal Museo di Antichità di Torino e dall’Archeologico di Venezia.
Dopo il viaggio del pellegrino Della Valle, il mistero del cuneiforme doveva restare inviolato ancora per un paio di secoli. Fino a quando la decifrazione di una delle lingue riversate in quella scrittura, l’antico persiano, aprì la via al fortino degli idiomi mesopotamici. In primo luogo all’accadico, parlato con qualche variante dai Babilonesi a Sud e dagli Assiri a Nord, che essendo una lingua semitica poteva essere compresa attraverso il confronto con le altre dello stesso ceppo. 
Una sfida ottocentesca
Fu una specie di gara, alla quale parteciparono nel 1857 il diplomatico inglese Henry C. Rawlinson, il pastore irlandese Edward Hincks, l’archeologo tedesco-francese Jules Oppert e l’inglese William Henry Fox Talbot, pioniere della fotografia. Ognuno degli sfidanti doveva mandare in busta sigillata alla Royal Asiatic Society di Londra la propria traslitterazione e traduzione di un’iscrizione del re assiro Tiglat-pileser I (1113-1074 a.C.). Quando le buste furono aperte, si constatò che le quattro versioni differivano di poco: l’assiro-babilonese poteva considerarsi decifrato, era nata l’assirologia.
Resisteva il segreto del sumerico, la lingua della civiltà mesopotamica più antica, che intorno al 3200 a.C., in contemporanea con quanto avveniva Egitto, aveva inventato la scrittura, mettendo a punto un sistema di segni che, modificandosi nel tempo, sarebbe rimasto in uso fino ai primi anni dell’era volgare (l’ultima tavoletta in cuneiforme è del 100 d.C.). Il sumerico era una lingua di origine ignota, e fu ancora Oppert a porre le basi per la sua comprensione, poi sviluppata a cavallo tra Otto e Novecento grazie anche alla scoperta di numerose tavolette di «dizionari» sumero-accadici.
«La scrittura», spiega Fales, «è stata inventata quando serviva, in un sistema sociale e economico sufficientemente articolato, per finalità contabili e amministrative: come indicatore minimo di una trattativa che si era svolta a monte, quasi un pro memoria, non come un testo continuo espressione dell’oralità. A questo si arriverà al termine di un lungo processo». Si trattava di un’arte detenuta in esclusiva da una categoria di specialisti, gli scribi, da cui dipendevano in tutto i funzionari e gli stessi sovrani: «Soltanto alcuni facevano eccezione, come Shulgi nel 2100 o Assurbanipal nel VII secolo a.C., che si vantava di avere imparato a scrivere, ma infarciva le sue lettere di errori».
Sono all’incirca un milione le tavolette riportate alla luce nell’ultimo secolo e mezzo, che ci forniscono una visione diretta e dettagliata dell’universo materiale e spirituale di quelle civiltà lontane. Dentro c’è di tutto: testi giuridici, contratti di compravendita, liste di persone cose e animali, lettere, liste lessicali (vocabolari monolingui e bilingui), liste astrologiche, serie di sintomatologia medica, testi letterari come l’epopea di Gilgamesh in 13 tavolette. Tra quelle in mostra - tutte della collezione Ligabue, la maggiore in Italia, se si eccettua quella dei Musei Vaticani - una delle più complesse riporta una minuziosa serie di prescrizioni mediche per una partoriente afflitta da coliche, a cui seguono formule magiche per favorire la nascita: «Non odono più le sue orecchie, non è più alto il suo petto, i suoi ricci sono sparsi, non porta più il velo, non ha più vergogna. O misericordioso Marduk, sii presente! […] Che egli esca, che veda la luce!».
Parole come rebus
Quella dei Sumeri, spiega Fales, era una lingua monosillabica e agglutinante (nella quale le parole sono composte da una radice a cui vengono «incollati» suffissi e prefissi per esprimere il genere, il numero, il caso o il tempo). La loro scrittura assomiglia a un rebus: per esempio, nel nome di persona Enlilti («il dio Enlil fa vivere») il concetto di vita (ti) è difficilmente rappresentabile; si ricorre perciò al segno quasi omofono che rappresenta la freccia (til). Dal 2300 in poi il cuneiforme viene adattato all’accadico, lingua semitica polisillabica e flessiva (che cioè, come l’italiano, declina le desinenze in modo che uno stesso morfema possa esprimere una pluralità di relazioni grammaticali) e quindi a numerose altre parlate locali come quelle dell’Elam, di Ebla, della Siria, perfino a quella indoeuropea degli Hittiti in Anatolia. I segni, inizialmente pittografici, vanno incontro a un processo di progressiva stilizzazione - conseguenza anche dell’uso dello stilo di canna a sezione triangolare con cui venivano impressi nell’argilla fresca - ma hanno adesso valori fonetici differenti, pur nel permanere del significato. Un esempio suggestivo è quello del logogramma della parola acqua, che si legge a in sumerico, mu in accadico e (straordinaria ma assolutamente casuale assonanza con l’inglese) wa-a-tar presso gli Hittiti.
«Il cuneiforme», sottolinea il professor Fales, «è un sistema straordinariamente plastico, e questo ne ha determinato la fortuna». Ma a lungo andare doveva patire le conseguenze della sua stessa diffusione. A differenza che in Mesopotamia, in territori come la Siria e la Palestina l’argilla scarseggiava: come supporto della scrittura si ricorreva alla pergamena, al papiro, al coccio, materiali inadatti a essere incisi, scorrendo sui quali il pennellino degli scribi tracciava segni che non potevano più essere cunei spigolosi. E quando per le accresciute esigenze di società più articolate l’arte della scrittura non fu più riservata a pochi, si dovette constatare che imparare una trentina di segni è molto più facile che apprenderne 600, ognuno con una pluralità di valori. Tramontava il cuneiforme, dopo 3300 anni, e si affermava l’alfabeto. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Bella & cuneiforme
La scrittura più antica del pianeta, ideata  in Mesopotamia, è oggetto di una mostra 
allestita a Palazzo Loredan: una ricca sequenza di reperti provenienti dalla Collezione Ligabue
Domenicale 26 2 2017
Che cosa è la scrittura? Una codificazione coerente, unitaria e inalterabile di segni convenzionali, più o meno numerosi, idonea a esprimere compiutamente e (quasi) senza possibilità di fraintendimenti una lingua, antica o moderna. Questo pensavano della scrittura tutti quei dotti europei, spesso geniali, che dalla metà del Settecento si sono impegnati a decifrare le scritture delle civiltà scomparse. I decifratori sono divenuti nella nostra considerazione moderna veri eroi delle discipline storiche che hanno ad oggetto la ricostruzione del passato più remoto: nella corte del Collège de France a Parigi un monumento immortala Jean-François Champollion, il decifratore della scrittura geroglifica egiziana, pensoso, ma trionfante, con un piede sulla testa di una statua di faraone. Comprensibilmente: uno dei primi assiriologi, Charles Fossey, poco dopo la decifrazione del sistema cuneiforme mesopotamico, portata a termine nel 1857, definiva quel sistema «una scrittura paradossale dalle difficoltà inaudite».
Oggi la scrittura più antica del pianeta - le sue origini, i suoi sviluppi, i suoi impieghi – è l’oggetto di una bella mostra veneziana allestita a Palazzo Loredan dal titolo Segni prima dell’alfabeto. Viaggio in Mesopotamia alle origini della scrittura. La mostra, attraverso gli oggetti della ricca collezione Ligabue, è al tempo stesso un itinerario suggestivo in cui sono illustrati tutti gli aspetti della vita istituzionale, religiosa, sociale, economica, letteraria, artistica, delle grandi civiltà antiche della Mesopotamia. Un itinerario reso particolarmente attraente dalla sapiente guida del curatore Frederick Mario Fales, assiriologo e storico tra i maggiori specialisti italiani della Mesopotamia antica.
Il problema dell’origine della scrittura, cui contributi importanti vengono ovviamente anche dalle scritture della Cina e della Mesoamerica, è un tema in cui oggi al concetto di “creazione”, che può avere ancora una qualche validità solo per alcune delle scritture puramente fonetiche – sillabiche, consonantiche, alfabetiche -, si sostituisce quello di “processo” o “sviluppo”, graduale e lento, di lunga durata. Proprio le indagini e le scoperte sulle più antiche forme di proto-scrittura, che nel mondo mesopotamico ha preceduto di secoli la realizzazione storica della scrittura cuneiforme, che è un sistema misto, logografico e fonetico, affermatosi progressivamente negli ultimi secoli del IV millennio a.C. sono al centro di un dibattito che a lungo si è arenato sullo pseudo-problema della maggiore antichità tra sistema cuneiforme mesopotamico e geroglifico egiziano, che comunque si perfezionarono negli stessi decenni. All’origine della scrittura non furono problemi propriamente linguistici, come a lungo si è ritenuto, ma necessità pratica di durevoli registrazioni grafiche: dai sistemi di conteggio arcaici del mondo mesopotamico tramite gettoni di pietra e involucri di argilla con segni sull’esterno alle etichette d’osso con segni relativi a offerte e tributi del mondo egiziano fino ai modelli onomastici e calendariali del mondo mesoamericano. 
Se naturalmente per l’assenza di contesti linguistici questi documenti di proto-scritture sono spesso di interpretazione estremamente difficile per una loro obiettiva ambiguità, la loro importanza storica è stata notevolissima perché costituirono uno stimolo e una suggestione a costruire quella sorta di ponte tra dimensioni uditive e visuali della comunicazione che fu qualunque tipo di scrittura primitiva. Ogni tipo di scrittura primitiva, e prima fra tutte quella antichissima cuneiforme della Mesopotamia, è stato un fondamentale inizio dell’ardito e complesso passaggio, ricchissimo di conseguenze straordinariamente positive per la storia dell’umanità, dai modi di espressione visuali iconici a quelli simbolici linguistici. 
Le più antiche applicazioni della scrittura cuneiforme, intorno al 3000 a.C. non riuscivano ad esprimere particolarità e sfumature dell’espressione linguistica e dovevano esser integrate dalla memoria e dall’oralità. In Mesopotamia lo sviluppo della prima civiltà urbana non fu certo all’origine della scrittura, ma le esigenze amministrative delle più antiche città della storia impressero un’accelerazione agli sviluppi verso un sistema sempre più sofisticato e compiuto.
Ma restano affascinanti interrogativi riguardo alla più avanzata realizzazione del sistema cuneiforme, che lo rese adatto, entro pochi decenni e diversi secoli, ad esprimere lingue assai diverse da quella agglutinante, il sumerico, della sua prima applicazione: lingue flessive semitiche, come l’accadico e l’eblaita, e indoeuropee come l’ittito, per non parlare del hurrito. Ci si domanda quali furono le spinte decisive e in quali ambiti della società queste ebbero successo. Esigenze politiche e ideologiche di legittimazione che dovevano essere trasmesse di generazione in generazione? Constatazioni di crolli inattesi della memoria anche dei gruppi elitari che imposero di ricorrere all’argilla, alla pietra e al bronzo? Affermazioni di nuovi generi letterari che assumevano nella coscienza delle comunità un significato identitario profondo? Attribuzione alla scrittura di valori magici forti che conferivano ad essa una collocazione nel sistema di valori della società incomparabile con l’oralità?
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