domenica 12 febbraio 2017

Le mostra sull'arte della Rivoluzione russa alla Royal Academy e altrove e le consuete banalità sul tradimento estetico dei bolscevichi


L’arte della rivoluzione russa alla conquista del mondo 

Una sontuosa esposizione ripercorre l’esplodere della creatività negli anni che vanno dalla vittoria dei Soviet alla dittatura staliniana 

Rocco Moliterni Busiarda 11 2 2017
Tra il 1917, anno della Rivoluzione che portò Lenin e i soviet al potere, e il 1932 che vide naufragare gli ideali sotto la dittatura staliniana, la neonata Unione Sovietica visse un periodo tumultuoso e vitale. Riuscì a essere culla di avanguardie di ogni tipo che dalla pittura alla fotografia, dal teatro all’architettura, dalla letteratura al cinema si proponevano di inventare nuovi linguaggi per l’«uomo nuovo» nato con l’Ottobre. Ma allo stesso tempo riuscì a cullare quel Realismo socialista tanto amato da Stalin, che avrebbe normalizzato tutto in nome della comprensibilità da parte delle masse popolari. 
Si ripropone di ripercorrere quegli anni formidabili la sontuosa mostra «Revolution. Russian Art 1917-1932» che ha aperto i battenti mercoledì alla Royal Academy di Londra. Curata da Ann Dumas con una pattuglia di storici dell’arte russa, sfodera più di 200 opere, attraverso un percorso tematico che riesce a emozionare, non solo e non tanto per i capolavori esposti (non mancano celeberrime opere di Kandinsky, Chagall, Malevich, solo per fare qualche nome) ma anche e soprattutto per lo spaccato della società sovietica che ripropone attraverso materiali di ogni tipo. Ci sono i manifesti che si affiggevano nelle scuole per educare i bambini a una corretta alimentazione, le tessere annonarie per il pane distribuite ai famigliari dei soldati dell’Armata Rossa, ma anche la ricostruzione del design di un appartamento popolare firmato da El Lissitzky e la riproduzione funzionante della «macchina volante» ideata da Tatlin. Nella sala dedicata al tema del lavoro ci sono splendide opere di Deineka sulle lavoratrici tessili o di Zernova su una fabbrica di conserve. Da vedere anche una sala dedicata allo sport, dove spicca ancora Deineka con la sua 
Corsa
. Ma non mancano sale dedicate al mondo rurale e sale dedicate a quanto e come della Russia Eterna rimane sottotraccia anche negli anni della Rivoluzione. A costellare il percorso i film che hanno reso famosa la cinematografia sovietica, primo fra tutti  L’uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov.
La contrapposizione tra avanguardie e «realismo» si trova anche nelle ceramiche, con piatti, vasi e statuine, ora di stampo suprematista ora di pura propaganda, come il piatto che celebra la «vittoria del 25 ottobre» o la statuina della giovane agitatrice. Colpisce in entrambi i casi la raffinatezza della fabbrica statale di porcellana di Petrograd, che altro non è che il nuovo nome assunto dalla celebre manifattura imperiale degli zar di Pietroburgo. 
La mostra si può anche considerare una sorta di cavalcata sulla creatività di quegli anni, magari a cavalcioni del destriero rosso dipinto da Kusma Petrov-Vodkin, artista cui viene dedicata, come a Malevich, un’intera sala: si scopre tra l’altro la sua Madonna di Pietrograd, ispirata al nostro Giotto, ma anche la sua particolare prospettiva che influenzerà non poco i registi e i fotografi d’avanguardia. Tra questi brilla ovviamente Rodhcenko, ma per chi ama la fotografia i ritratti dei protagonisti della cultura di quegli anni (dal compositore Prokofiev al regista Eisenstein, dal regista teatrale Meyerhold alla poetessa Achmatova), realizzati ora da Moisey Nappelbaum ora da Man Ray, sono straordinari. 
Purtroppo molti di questi personaggi li ritroviamo nella Stanza della memoria che chiude il percorso: qui ci sono le foto segnaletiche di chi è finito nei Gulag staliniani. E accanto a questa «stanza» un video ci fa capire che forse l’Isis, in quanto a distruzione di monumenti, non ha inventato nulla: si vede un filmato di Vladislav Mikosha che immortala la distruzione, il 5 dicembre 1931, della splendida Cattedrale moscovita di Cristo Salvatore. E questa distruzione può essere una metafora della fine degli ideali che avevano animato un’intera generazione di artisti convinti in buona fede che la Rivoluzione avrebbe davvero migliorato non solo la Russia ma il mondo intero, grazie anche alla loro creatività e al tentativo di dar vita a una nuova estetica. E se la Rivoluzione come mutamento sociale ha avuto i limiti che ben conosciamo, i semi di quella nuova estetica germogliano ancora oggi.  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Al servizio del nuovo mondo
Mostre. «Revolution: Russian Art 1917-1932» alla Royal Academy of Arts di Londra, visitabile fino al 17 aprileFlaviano De Luca Alias Manifesto LONDRA 11.3.2017, 19:49 
Sembrava l’inizio di una nuova era, la rivoluzione che avrebbe spazzato via tutte le ingiustizie del vecchio mondo, con tutti i protagonisti delle arti al servizio dell’uomo nuovo, delle masse proletarie consapevolmente in azione sulla strada della libertà e dell’eguaglianza. Invece la fase d’entusiasmo bolscevico durò ben poco – sotto i colpi della guerra civile, della fame e delle privazioni -, forse nemmeno l’intervallo di quindici anni, analizzato da Revolution: Russian Art 1917-1932, la mostra inaugurata qualche giorno fa (e rimarrà fino al 17 aprile) alla Royal Academy of Arts, a Burlington House. 
Dipinti, fotografie, sculture e audiovisivi (in larga parte provenienti dagli archivi sovietici) che documentano il grande furore creativo di quel periodo (con tanti artisti ispirati dalle correnti europee, il futurismo italiano e il cubismo di Picasso, il fauvismo di Matisse e il post-impressionismo), gli stili delle avanguardie radicali nelle arti visuali e le sperimentazioni in fotografia e cinema che poi verranno schiacciate dal controllo statale e dall’emergere del Realismo Socialista. Lenin è ritratto davanti un drappeggio di tenda rossa (l’enorme onda della rivolta?), in uno squarcio laterale si scopre una dimostrazione nelle strade, una folla di persone con bandiere e cartelli, dipinti nel 1919 da Isaak Brodsky. Oppure addirittura in una cadenzata marcia, braccio destro in alto e il sinistro in orizzontale, al centro di Insurrection di Kliment Redko, una città lambita dal fuoco, nel diamante centrale formato da file di lavoratori c’è la figura di Lenin in posa marziale (anche se oggi ricorda, inevitabilmente, John Travolta o il ballerino dello spot Tim) come un santo circondato dai suoi discepoli, come un’icona ortodossa un po’ cupa e misteriosa, dipinta nel 1925 (mai mostrata in Russia fino agli anni ’80), l’anno successivo alla morte del capo socialista rivoluzionario. E le immagini dei suoi funerali dal corpo esposto in pubblico alla sfilata d’ossequio di migliaia di persone comuni, una grande emozione collettiva documentata dai filmati in bianco e nero di Dziga Vertov, i suoi famosi cinegiornali, mandati a ripetizione in sala. 
Non solo colbacchi
Un altro quadro proibito, nascosto nello studio del pittore Georgy Rublev fino alla sua morte, è del 1935, un ritratto di Stalin da fumetto (che ricorda il manifesto del film Emmanuelle, con Sylvia Kristel) tutto vestito di bianco, seduto su una poltrona di rattan, con una gamba sotto l’altra, che legge la Pravda, con un cane lungo disteso ai suoi piedi. E il manifesto stesso dell’esposizione, Il Bolscevico di Boris Kustodiev, pittore e scenografo, che raffigura una sorta di Godzilla, enorme compagno con barba, sciarpa e colbacco, che porta una lunghissima bandiera rossa andando verso la cupola di una chiesa, ergendosi come un gigante dal fiume di gente della manifestazione in strada, tra alberi e palazzi sotto la neve. Boris Kustodiev, Il bolscevico, 1920 
Ogni sala dell’esposizione ha un tema principale sulla falsariga della mostra, Quindici anni di artisti della Repubblica Sovietica Russa (tenutasi a Mosca nel giugno 1933) che è stata la naturale ispirazione di questa esibizione, mettendo insieme protagonisti delle avanguardie ed esponenti del realismo socialista, nomi famosi come Kandisky, Chagall e Malevic insieme coi meno noti Filonov, Petrov-Vodkin e Deneika.
Naturalmente la rivoluzione industriale e tecnologica scorre un po’ dovunque, enfatizzata dai piani economici quinquennali e dalle figure di lavoratori – sia uomini che donne – impegnati nella costruzione di edifici, centri di comunicazione, industrie meccaniche. Nella sezione L’uomo e la macchina, c’è la grande esplosione della fotografia, il medium più usato per documentare e glorificare l’industrializzazione dell’economia russa.
Il fotografo Arkady Shaiket sceglie di ritrarre gli operai industriali come eroi di guerra classici (e sullo stesso stile il quadro Lavoratori resistenti di Brodsky con l’operaio mezzo nudo di schiena, in alto sulle impalcature, contro il cielo, come un Michelangelo sovietico), mentre altri artisti usano la fotografia per creare nuovi stili di arte visiva, ad esempio il fotomontaggio costruttivista, con trivelle, trattori, ingranaggi. Così Le operaie tessili, di Alexander Deineka, 1927, vesti bianche e piedi nudi, che si muovono in interni geometrici con macchine e strumenti o Le operaie dell’industria pesante che trascinano un carrello, quasi angeli della rivoluzione, in una rappresentazione inequivocabilmente luminosa e positiva del lavoro industriale, eppure assai simile agli scenari di La difesa di Petrograd, del 1928 (ma si riferisce a un avvenimento del 1919), stavolta soldati armati in uniformi che vanno e vengono su un ponte, inevitabilmente rimandando alla fantascienza disumana di Il mondo nuovo di Huxley. La libertà, l’euforia, le speranze della Rivoluzione produssero grandi talenti anche nella letteratura e nell’architettura (qui c’è la perfetta riproduzione di un’unità abitativa modello disegnata da El Lissitsky nel 1932, uno spazio razionale e geometrico, su più livelli, con ringhiera e bagno ma senza cucina, per incoraggiare i lavoratori a mangiare tutti insieme e all’esterno). Lì vicino il Letatlin, il meraviglioso aliante di Vladimir Tatlin, una specie di coleottero volante di legno e tela, un albatros che doveva essere la bicicletta volante del futuro collettivo (ma non verrà mai prodotto). 
Potere ai soviet
Alcuni studiosi sostengono che l’energia fantasiosa, la carica innovativa si esaurisce nel 1921 con la morte del magnifico poeta Alexander Blok (a cui verrà negata l’autorizzazione per andare a curarsi all’estero), una scomparsa simbolo della fine della rivoluzione, quel nuovo mondo «dalle radiose e progressive sorti» dipinto da Konstantin Yuon in Nuovo pianeta, nel 1921.
In un’altra sala tantissimi oggetti d’epoca (tazze dipinte con rotelle e ingranaggi, fazzoletti da testa con manifestazioni del Comintern, portafiori con marinai e soldati in marcia, giornali che ribadiscono slogan, «tutto il potere ai soviet») e le meravigliose colorate vignette di propaganda dell’altro poeta, Vladimir Majakovskij, affianco alle esercitazioni di Kazimir Malevich, principale fautore del suprematismo, corrente che sostiene un’arte astratta, ma che mira all’essenza delle cose, avvicinabile nella purezza estrema della geometria. 
Una sua versione del Quadrato Nero sta in un angolo e poi tante Costruzioni di Colori per ribadire l’opposizione al figurativismo e la scelta di linee essenziali e circoli concentrici. Ma le sue produzioni successive, Contadini e Sportivi, hanno casacche colorate e tratti d’automa, tutte un volto eguale e inesistente, dove l’individualità è cancellata. Un’intera stanza dedicata a Kuzma Petrov-Vodkin, cantore del mondo contadino coi suoi crudi dipinti di pane, patate e aringa, Natura Morta con Aringa (1918) o Fantasia (1925), dove un contadino guarda dietro cavalcando uno splendido puledro rosso, e altre scene agricole tra mietitura del fieno, calessi e casette povere. È la sezione Eterna Russia, dove la tradizionale fede ortodossa e l’antica cultura contadina vengono profondamente trasformate dalla collettivizzazione ma resistono nei piccoli villaggi, in lirici paesaggi destinati a scomparire. 
Corpi atletici
Ecco avanzare il Realismo Socialista. La faccia dell’arte staliniana sono sportivi, atleti, giocatori di calcio e lanciatrici del peso, gli allenamenti di plotoni di giovani (come in Corsa di Deineka), le parate celebrate negli stadi, la gloria luccicante della società sovietica. E il suo perfetto contrario, le foto segnaletiche dei deportati nei gulag, di poeti e pittori, insegnanti e ciabattini, delle migliaia di persone scomparse nelle purghe del regime autoritario, messe in fila in una minuscola sala di proiezione.
Forse, in tempi di false verità e spudorata propaganda statale, anche i nostri lontani antenati nella steppa sterminata ci ricordano una breve stagione felice, la grande fioritura creativa prodotta negli stupefacenti anni iniziali della rivoluzione russa, quando ci voleva un’arte nuova per rappresentare un mondo nuovo.

La rivoluzione vista a colori Mostre. Il Kunstmuseum e il Zentrum Paul Klee di Berna uniscono le forze per celebrare i cent'anni russi e i loro artisti Piergiorgio Pescali Alias Manifesto 20.5.2017, 20:01
Nel 1422 il duca d’Uzès salutò l’arrivo al trono di Carlo VII con la frase, divenuta poi celebre: «Le roi est mort, vive le roi!» La locuzione, leggermente mutata in «Il re è morto, lunga vita al re!» passò alla storia e venne ripresa da case reali, autori, politici. Gli Enigma dedicarono alla frase un loro album (Le Roi Est Mort, Vive Le Roi!, 1996), mentre il 19 aprile 1946 Lord Robert Cecil salutò il dissolvimento della Società delle Nazioni a Ginevra parafrasando la proposizione del duca d’Uzès esclamando «La Società delle Nazioni è morta, lunga vita alle Nazioni Unite!»
Il passo è stato oggi ripreso anche da Kathleen Bühler, Michael Baumgartner e Fabienne Eggelhöfer del Kunstmuseum e del Zentrum Paul Klee di Berna, che hanno unito le forze per commemorare i cent’anni della Rivoluzione d’Ottobre inaugurando la mostra La rivoluzione è morta, lunga vita alla rivoluzione che è possibile vedere nei due musei della capitale svizzera fino al 9 luglio.
Due rassegne in una, quindi, ma assai differenti tra loro rispecchiando la tipologia artistica dei due musei ospitanti. «Da Malevich a Judd» è il sottotitolo della mostra nel Centro Paul Klee, mentre «Da Deineka a Bartana» è la parte dedicata nel Kunstmuseum. Nell’avveniristica struttura a onda del Centro Paul Klee, costruita da Renzo Piano nel 2005, si concentrano i lavori dei movimenti avanguardisti russi ed europei del primo Novecento: il Suprematismo, il Costruttivismo fino a giungere alla scuola minimalista passando dal Bauhaus.
L’oggetto insignificante
È l’arte non figurativa che prende il sopravvento e, come era nell’idea di Kazimir Malevich, fondatore del Suprematismo, il concetto stesso di arte viene sublimata in un’emancipazione della sensibilità. «Dal punto di vista dei suprematisti le apparenze esteriori della natura non offrono alcun interesse; solo la sensibilità è essenziale. L’oggetto in sé non significa nulla. L’arte perviene col suprematismo all’espressione pura senza rappresentazione» spiegherà lo stesso Malevich.
È un dato di fatto che le vicende politiche della Rivoluzione russa vennero precedute, e in un certo senso, prepararono il terreno per i cambiamenti sociali dagli avanguardisti, in particolare dai costruttivisti di Vladimir Tatlin e Alexander Rodchenko. La Rivoluzione e il crollo del secolare impero zarista contribuirono a convincere i costruttivisti che un nuovo mondo, alimentato dai progressi scientifici e tecnologici, era possibile. Il rispetto e l’ammirazione degli artisti russi verso i bolscevismo e i rivoluzionari furono, almeno fino all’ascesa di Stalin e l’affermarsi del realismo socialista, contraccambiati dal nuovo assetto politico russo e sovietico. Il neonato Commissariato del Popolo per l’Educazione incoraggiò queste nuove forme artistiche come espressione del proletariato in funzione antiborghese e anticapitalista, favorendo l’apertura di nuove scuole d’arte.
Semi da Bauhaus
La mostra illustra questo passaggio con le opere più significative dei rappresentanti avanguardisti russi, dai già citati Malevich e Rodchenko sino a Kandinskij per poi valicare i confini politici e ideologici e trasferirsi fino in America Latina. Per la prima volta il fulcro ideologico e creativo dell’arte non risiedeva nell’Europa dell’ovest, ma in quella dell’est. Il Costruttivismo, nato ufficialmente nel 1920 con il Manifesto del realismo dei fratelli Naum Gabo e Antoine Pevsner, fu il seme da cui sbocciarono le scuole del De Stijl e del Bauhaus, verso cui confluirono artisti come Paul Klee, Peter Keler e László Moholy-Nagy.

Canoni estetici
La seconda parte della mostra La rivoluzione è morta, lunga vita alla rivoluzione, quella denominata «Da Deineka a Bartana», esposta al Kunstmseum di Berna, tratta il periodo post-astrattista e quello del Realismo socialista, inaugurato da Stalin negli anni Trenta. La necessità del ritorno all’ordine convinse il governo bolscevico che il tempo dell’immaginazione astratta era finito. Le idee dovevano rapportarsi a un concetto più terreno, pragmatico e realista.
Lo stesso Malevich si piegò al nuovo diktat confezionando, ad uso e consumo del regime, il ciclo dei contadini che, pur contenendo elementi della scuola costruttivista, abbandona l’astrattismo per atterrare in una forma d’arte realistica e più comprensibile alle masse popolari.
Nel 1934 l’Unione degli Artisti Sovietici impose un canone estetico ben codificato che diede vita al realismo socialista a cui tutti si dovevano attenere; una sorta di Biblia pauperum socialista. Stalin stesso chiese agli artisti di diventare «ingegneri dell’anima» per rappresentare la verità del Partito. Restringendo la libertà di immaginazione, l’arte diventava il nuovo vangelo della morale socialista secondi i canoni del Partito: il nuovo sistema socialista non solo era l’unica verità possibile nel nuovo e nel mondo futuro, ma era anche il traguardo finale verso cui l’uomo doveva incamminarsi. Tutto doveva essere codificato e conforme alla volontà della nomenklatura: dai colori alle forme, dalla posa dei soggetti allo sfondo dei paesaggi appiattendo così la vena artistica individuale e abbassando il livello dello stile del Realismo Socialista.
I principali rappresentanti di questa nuova scuola furono Alexander Deineka e Alexander Gerasimov (quest’ultimo particolarmente attento a ritrarre i leader del Partito), i quali accolsero con entusiasmo le nuove regole emanate dal Pcus e inaugurarono la fortunata serie di poster di propaganda sovietica che ancora oggi appassiona tanto i collezionisti di tutto il mondo. Vladimir Dubossarsky and Alexander Vinogradov, “What the Homeland Begins With”, photo © Piergiorgio Pescali
Arriva la Sots Art
Così come fece il Costruttivismo, anche il Realismo Socialista varcò le frontiere dell’Urss e della Cortina di ferro per essere preso ad esempio per una nuova scuola artistica. La nuova corrente artistica trovò una vena particolarmente fortunata nelle due Germanie (Est e Ovest) in tutti i campi delle arti visive. Nell’ex Ddr artisti come Ulrich Weiss, Kurt Tetzlaff, Cornelia Schleime e Lutz Dammbeck interpretarono il loro ruolo di registi evidenziando con particolare sagacia e coraggio le contraddizioni all’interno della società socialista, mentre dall’altra parte del Muro i dipinti del maoista Jörg Immendorff, liberati dalle restrizioni del regime sovietico, cercavano un collegamento più stretto e meno ideologico tra arte e potere.
Solo negli anni Settanta, e con maggior vigore negli anni Ottanta, la critica artistica della società sovietica riuscì a farsi largo anche in Urss. Vitalij Komar e Alexander Melamid inaugurarono, nel 1972, il filone della Sots-Art, una combinazione di termini (e stili artistici) tra la Pop-Art statunitense e il Sotsrealism (Realismo Socialista). Se la Pop-Art parodiava la società consumistica, la parallela Sots-Art prendeva gli stessi spunti all’interno della società socialista sovietica e persino della propaganda del Partito.
La Sots-Art fu il preludio di una nuova forma d’arte che si andò sviluppando dopo la caduta dell’Unione Sovietica e di cui il duo Vladimir Dubossarsky e Alexander Vinogradov sono i maggiori rappresentanti. Il famoso lavoro What the Homeland Begins With, dipinto nel 2006, oltre ad essere stato scelto come poster per la mostra di Berna, è anche un triste riconoscimento del fallimento del socialismo sovietico e al tempo stesso una spietata critica al consumismo e all’edonismo di un capitalismo sfrenato.

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