domenica 19 febbraio 2017

La scissione è pronta. Quella di Blair. Spezzaferro detta la linea e inguaia la sinistra radicale



Siluro di D’Alema: “Un nuovo inizio” Salta anche l’ultima mediazione 

Oggi l’assemblea della sinistra dem, che è già divisa sul futuro leader 

Francesca Schianchi Busiarda 18 2017
«Una scissione non è un dramma, ma l’inizio di una ricostruzione». A pronunciare le parole che per Renzi chiudono ogni spazio di mediazione è, in serata, Massimo D’Alema. Il primo a evocarla chiaramente, due settimane fa, lanciando il movimento ConSenso nato dai comitati per il No sul referendum del 4 dicembre. E il primo, ieri, a uscire dal coro della scissione come sconfitta o come sciagura o come catastrofe, per dire che no, la separazione dal Pd non solo è inevitabile «se sarà respinta la richiesta di fare arrivare il governo alla sua naturale scadenza e tenere il congresso del Pd con le primarie a ottobre», ma è anche un auspicabile nuovo inizio.
Così, mentre mezzo partito dichiarava ieri di lavorare per un compromesso, l’ex premier accelerava il percorso verso la frattura, dimostrandosi il più deciso tra tutti gli attori della vicenda. Che avrà una sua rappresentazione nell’appuntamento di oggi, al Teatro Vittoria di Roma, un’assemblea convocata dal governatore toscano Enrico Rossi, il pugliese Michele Emiliano, l’ex capogruppo alla Camera Roberto Speranza. A cui parteciperanno anche D’Alema e Pierluigi Bersani ma, fanno sapere, senza prendere la parola.
Perché questo nuovo «movimento forte alla sinistra del Pd neocentrista» dovrà trovare il suo leader, e non potrà essere uno dei due ex segretari. Un tema che rischia già di creare un problema nella nascente formazione. Nella triade Emiliano-Rossi-Speranza tutti hanno ambizioni di guida, tutti e tre già si erano candidati al congresso del Pd. «Troppi leader per un movimento solo...», commenta malizioso qualche renziano, ritenendo questa una delle ragioni che spinge verso la rottura: nessuno vuole fare un passo indietro, ma se si candidassero al congresso, dividendosi i voti di sinistra, ciascuno sarebbe surclassato da Renzi. Che, non a caso, vuole una conta in tempi brevi «così non gli lasciamo il tempo di organizzarsi».
Per qualche giorno, dopo la Direzione, si è ragionato su una candidatura di Andrea Orlando, che da ministro leale a Renzi per anni, nella riunione di lunedì ha preso clamorosamente le distanze. «Se fossi certo che la mia candidatura alla segreteria potesse evitare la scissione lo avrei già fatto», ha dichiarato ieri. Ma, appunto, il fatto che non sia stata formalizzata significa che non sarebbe risolutiva. «Se Orlando avesse detto a Renzi: “Mi candido alla segreteria e scongiuro la scissione, ma devi spostare il congresso in autunno”, allora avremmo potuto sostenerlo», spiega un bersaniano, «ma non l’ha fatto». Oggi potrebbe presentarsi al Teatro Vittoria.

Nel nascente movimento negano che il sovraffollamento di aspiranti leader possa essere un problema, convinti di poterlo affrontare più avanti. «Non c’è l’ansia di chi deve fare il leader», assicura Emiliano. Forse perché si sente il candidato naturale: dei tre protagonisti di oggi, è l’unico col physique du rôle. Carismatico, con un buon seguito al Sud. Anche se proprio questo potrebbe limitarne l’appeal nazionale. E poi, raccontano, ha un rapporto difficile con D’Alema, nato male negli anni Novanta (quando da magistrato indagò sulla Missione Arcobaleno voluta dal governo dell’ex capo Ds) e, pur migliorato, rimasto segnato dalla diffidenza. Ma oggi, insistono, il problema non è questo. La priorità, adesso, è creare un’alternativa al Pd di Renzi.
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