venerdì 3 febbraio 2017

L'Almanacco Filosofia MicroMega 2017


Il bene e il male della religione codificati nel nostro cervello
L’estremismo che provoca il terrorismo può essere sconfitto facendo appello al nucleo universale della fede, ma non si cancella 

Telmo Pievani Busiarda 2 2 2017
Ara Norenzayan negli anni Ottanta del secolo scorso era un ragazzo come tanti di Beirut. La sua famiglia apparteneva alla Chiesa ortodossa armena e rimase neutrale. Tutto attorno quindici anni di inferno, di autobombe che uccidono i suoi amici più cari, di schegge di mortaio che piombano in tinello, di crepitii di mitraglia, di vendette e ritorsioni senza fine. Nella sua Beirut avere una religione significava appartenere a una fazione: tutti gli altri erano potenziali nemici o alleati, da un giorno all’altro. Quel ragazzo non capisce che cosa sta succedendo. Chiede conto ai suoi parenti, ai conoscenti, ma ottiene solo risposte evasive. Comincia a farsi domande scientifiche. Esiste una proprietà nascosta nella religione che improvvisamente rende persone pacifiche degli assassini? Che trasforma padri di famiglia in sterminatori con le migliori intenzioni? E poi, è davvero tutta colpa soltanto delle religioni o non anche di chi le strumentalizza? 
Da Beirut a Vancouver
Adesso quel ragazzo di Beirut è psicologo sociale presso la University of British Columbia a Vancouver, in Canada, ed è uno dei massimi esperti al mondo di evoluzione cognitiva e sociale del pensiero e del comportamento religiosi, con pubblicazioni e dibattiti sulle maggiori riviste scientifiche internazionali. La sua ricerca parte da un assunto: la religione, come molte espressioni della natura umana, è radicalmente ambigua e produce tanto un Osama bin Laden quanto un Dalai Lama. Per capire il fenomeno è inutile ricorrere alle proprie opinioni, condizionate anch’esse da credenze o assenze di credenze. Servono fatti sperimentali e Norenzayan da anni progetta originali esperimenti di psicologia sociale che lo hanno portano a una tesi scientifica interessante e robusta. 
La sua idea centrale è che vi sia stata una coevoluzione culturale fra le religioni che un tempo favorivano la socialità attraverso la devozione verso Grandi Dei onniscienti, da una parte, e la cooperazione su larga scala in grandi gruppi di estranei, dall’altra. Una forte pressione selettiva, di tipo sociale e culturale, ha consolidato meccanismi che promuovevano la solidarietà fra credenti, la crescita demografica e l’espansione del gruppo attraverso il proselitismo. Come possano stare insieme gruppi numerosi composti da un elevato numero di estranei che devono coordinarsi? Attraverso Grandi Dei che tutto vedono, che incutono timore e sorvegliano il rispetto delle norme sociali e morali. È questo il meccanismo che nei millenni ha spinto estranei anonimi a fidarsi l’uno dell’altro, a stringere patti, a commerciare a distanza. Religiosità e codici morali, la cui origine non coincideva, hanno finito così per cementarsi. 
Cervello e anima
Questo è il lato sociale della faccenda, poi c’è quello cognitivo, che rende le credenze religiose impermeabili agli sviluppi delle conoscenze scientifiche. Le funzioni sociali della religione si intrecciano infatti con i vincoli cognitivi profondi che predispongono la mente umana alle credenze religiose: la teoria della mente, il dualismo intuitivo mente/corpo, l’idea della sopravvivenza dell’anima, la nostra fortissima tendenza a favorire spiegazioni teleologiche, il vedere intenzioni e agenti ovunque. Sono le stesse predisposizioni cognitive che rendono controintuitiva la spiegazione evoluzionistica darwiniana (storica, contingente, probabilistica) e invece intuitivamente persuasiva una spiegazione dei fenomeni naturali basata su progettisti intelligenti. Così, le iniziali «intuizioni religiose» – all’inizio indipendenti da pressioni selettive di tipo sociale e più legate al particolare modo di interpretare la realtà esterna, in base ad agenti e intenzioni, che caratterizza Homo sapiens – sono state poi cooptate in nicchie ecologiche diverse al crescere dei gruppi sociali umani. Nel passaggio da piccole società umane di cacciatori e raccoglitori, senza bisogno di grandi dèi supervisori, a grandi gruppi con Grandi Dei promotori di religioni pro sociali, si è innescata una sopravvivenza differenziale delle religioni, con il predominio di quelle dotate di divinità onniscienti, onnipotenti e interventiste (in primis i grandi monoteismi). 
In sintesi, i precursori naturali inscritti nella nostra mente (vincoli cognitivi e intuizioni religiose) si sono poi evoluti attraverso cambiamenti culturali, non genetici ma socialmente trasmessi nei sistemi di credenze e nei comportamenti correlati. I «mutanti culturali» delle religioni sono entrati in competizione fra loro e hanno prevalso quelli con gli effetti popolazionali più forti. La religione quindi non sarebbe un «tratto» singolo dell’umanità, ma un mosaico di caratteristiche associate, un pacchetto di tratti in evoluzione nel tempo, un complesso di attitudini e di comportamenti con un’estrema variabilità: alcuni inducono al conflitto settario, altri favoriscono la pace e la fratellanza. Un legame paradossale unisce infatti la solidarietà all’interno del gruppo (il piccolo «noi» che ci protegge, la cerchia, la setta) e la competizione fra gruppi: sono due facce della stessa medaglia. Nella sua ambivalenza, la religione ha trasformato sia la cooperazione sia il conflitto, e può promuoverli entrambi in base ai contesti e alle circostanze. 
Il bivio
Ovviamente un comportamento che si è rivelato adattativo in passato (cooperare intensamente fra persone estranee e anonime) non è detto che lo sia ancora oggi o che debba essere positivo di per sé. Anche i teppisti delle gang, i mafiosi e i terroristi islamici sanno cooperare molto bene, a modo loro. Il legame con filtri cognitivi profondamente radicati nell’evoluzione umana (facili generatori di ideologie) e la dimensione sociale totalizzante (il piccolo «noi» che diventa orizzonte totale di senso, inizio e fine del proprio mondo, contro tutti gli altri «noi» attorno) spiegano perché il fondamentalismo è uno dei molteplici tratti psicologici costitutivi del fenomeno religioso. Non è l’unico e può essere messo a tacere (allargando per esempio la sfera del «noi» ai diritti universali di ogni essere umano), ma in quanto costitutivo può sempre riemergere. 
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