domenica 5 febbraio 2017

Le confessioni di Trump. Il conflitto principale del XXI secolo



Leggo che molti sono impressionati dalle "confessioni" di Trump e vi leggono l'avvio di un processo di revisione della storia degli Stati Uniti, i quali ammetterebbero finalmente le loro colpe imperialiste per voltare pagina.
E siccome Trump dice anche di guardare con simpatia a Putin, due più due fa quattro et voila l'Eurasiamerica.
Mi spiace per chi crede alle favole ma non è affatto così. Nell'ideologia dominante, il crimine colonialista viene di solito imbellettato con fiumi di retorica al fine di apparire sempre e comunque buoni (universalismo, Wilson, Fukuyama); ma in determinate fasi storiche lo stesso crimine può essere rivendicato in maniera cinica e sprezzante (particolarismo, Spengler, Huntington).
Siamo esattamente in una di queste fasi storiche [SGA].



 Trump: "Putin sarebbe un assassino? Perché noi siamo innocenti?"
Trump pronto a collaborare con Putin: "Ma non è detto che andremo d'accordo". E a chi accusa il capo del Cremlino di essere un assassino: "Perché noi siamo innocenti?"


DONALD E LA POLITICA DEL COSÌ FAN TUTTI 
FEDERICO RAMPINI Rep 6 2 2017
DONALD Trump la pensa come Noam Chomsky? Al giornalista della Fox che lo interroga su «quell’assassino di Putin», il presidente risponde: «Neanche l’America è innocente». La sinistra radicale questo lo dice da decenni. Torna in mente la critica dei movimenti terzomondisti, anti- imperialisti in cui molti di noi sono cresciuti dagli anni Sessanta.
SEGUE A PAGINA 21
DA UNA PARTE denunciavamo l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, dall’altra i bombardamenti americani al napalm sul Vietnam, l’appoggio di Washington al Sudafrica dell’apartheid, il golpe militare appoggiato dalla Cia per deporre Allende in Cile. E così via, fino all’11 settembre che una certa sinistra antiamericana ha visto come il castigo inevitabile per tutte le nefandezze compiute dallo Zio Sam in Medio Oriente. Poi George W. Bush ha fatto del suo meglio per confermare quella visione con gli abusi contro i diritti umani e la legalità internazionale: Abu Graib, Guantanamo, le carceri segrete della Cia all’estero con le stanze della tortura. Chomsky è solo il più famoso di una lunga serie di intellettuali americani radicali che considerano il proprio Paese colpevole di crimini contro l’umanità. Fa un certo effetto sentire il presidente degli Stati Uniti, eletto come candidato del partito repubblicano, farne proprie le tesi: che differenza c’è tra l’America e la Russia di Putin? Trump le mette sullo stesso piano. E dunque non vede ostacoli di natura politica, morale, ad un’alleanza operativa con Putin, per esempio al fine di sconfiggere il terrorismo islamico. C’è una grossa differenza se a denunciare la “mancanza d’innocenza” degli Stati Uniti è un intellettuale contestatore, o il presidente degli Stati Uniti. Nella critica della migliore sinistra c’era (quasi) sempre un nobile intento: riportare l’America sulla retta via, costringerla a praticare i valori che proclama, incalzarla perché mostri coerenza tra i suoi atti e quel Bill of Rights che riecheggia la dichiarazione universale dei diritti umani. C’era un’ispirazione riformista che ha sognato un Occidente migliore e ha lavorato per costruirlo. Barack Obama s’inseriva a modo suo in questa tradizione riformista. Lui stesso capì subito la forzatura del Premio Nobel della pace che gli era stato conferito prima ancora che governasse. Cercò di chiudere Guantanamo e il Congresso glielo impedì. Tentò (brevemente) di appoggiare le Primavere arabe perché ci vedeva un’aspirazione alla libertà, e fu ferocemente criticato per avere mollato alleati sicuri e affidabili come Mubarak. Fu sempre attraversato dalla tensione fra la realpolitik, la pesantezza di un’eredità neoimperiale (le stragi dei suoi droni), e i valori ideali.
Trump ribalta tutto questo. Di Chomsky non sospetta neppure l’esistenza, possiamo scommetterlo («il presidente non legge libri, la sera guarda la tv», rivelano con orgoglio i suoi consiglieri). Se rinuncia volentieri a ogni idea di diversità fra la sua America e la Russia di Putin, non lo fa con l’ambizione di correggere il passato, migliorare il suo inseguire un modello ideale. Al contrario, dietro il suo “così fan tutti” c’è una chiamata di correo e un’assoluzione preventiva. Smettiamola d’infastidirlo con le prediche su Putin. Il presidente degli Stati Uniti non giudica gli altri perché non vuol essere giudicato. Deciderà di volta in volta se e quando gli conviene collaborare con Putin e ce lo farà sapere. Non ci sono valori o principi universali da rispettare all’estero, quindi non ce ne sono in casa propria. Questo ennesimo strappo accentua la sintonia fra Trump e gli euro- putiniani Orban, Farage, Le Pen, Salvini o Grillo. Rompe la continuità nella tradizione politica americana, dove ogni leader da Woodrow Wilson a Franklin Roosevelt, da Kennedy a Reagan, è sempre stato quantomeno condizionato da un’eredità di valori e da un’idea di Occidente, anche quando la pratica quotidiana della politica conduceva verso compromessi ignobili. Non è un caso se la “fine dell’innocenza” orgogliosamente rivendicata da Trump, coincide con un weekend in cui ha insultato un giudice repubblicano colpevole di indipendenza. Con l’ultimo tweet che è il più minaccioso: «Se accade qualcosa di brutto (allusione a un attentato, ndr) prendetevela con lui e col sistema giudiziario ». ©RIPRODUZIONE RISERVATA

La sfida Trump-xi per la supremazia in america latina
Andrea Goldstein Busiarda 5 2 2017
La rivalità tra Washington e Pechino per la supremazia economica e politica globale si gioca ovunque, a colpi di libretti degli assegni e di soft power. Anche in America Latina, dove in tre anni Xi Jinping ha fatto tre viaggi e visitato dieci Paesi (uno in meno che Barack Obama, in otto anni però). Ogni volta il Presidente cinese inaugura una mega infrastruttura e firma accordi per decine di miliardi di dollari in nuovi progetti. Senza dimenticare Carlos Tévez e i calciatori che stanno trasferendosi in Cina, alimentando ulteriormente nell’opinione pubblica latinoamericana l’immagine di questo Paese come El Dorado.
C’è da scommettere allora che a Zhongnanhai, dove vivono i massimi dirigenti del Partito Comunista Cinese, siano abbastanza soddisfatti con le prime due settimane di Donald Trump alla Casa Bianca. Nessun continente è tanto sensibile alle vicende politiche, economiche e sociali degli Usa quanto l’America Latina, e opinione pubblica, investitori e governanti sono seriamente preoccupati da ciò che hanno visto e guardano Washington con crescente sospetto. Trump se l’è finora presa soprattutto con il Messico, sui temi del commercio («i messicani col Nafta hanno rubato il lavoro agli americani») e della giustizia («gli immigrati, oltre ad essere troppi, sono stupratori, ladri e trafficanti»). In pochi giorni ha sospeso la ratifica del Trattato Transpacifico (cui hanno aderito anche Cile e Perù), minacciato di aumentare i dazi e fare carta straccia del Nafta e avviato la costruzione del muro da 4 mila chilometri per separare i due Paesi, che un giorno (non lontano) erano hermanos. L’80% dell’export messicano si dirige a Nord del Rio Grande e da inizio 2016 il peso ha perso il 14% rispetto al dollaro. 
Anche l’America Centrale, alle prese con la crisi delle bande di delinquenti che stanno facendo fuggire migliaia di giovani e di adolescenti, dipende pesantemente dalle rimesse. L’incertezza sulle politiche commerciali e sul trattamento che Trump riserverà alle multinazionali che investono all’estero pesa ulteriormente, facendo fuggire i capitali. Le politiche negative di Trump comprendono anche clima-scetticismo, tagli nell’aiuto pubblico allo sviluppo e nell’educazione contraccettiva, marcia indietro nella normalizzazione dei rapporti con Cuba e nel sostegno al processo di pace in Colombia. 
Senza dimenticare ovviamente quello che succederà quando la Fed metterà fine al Quantitative Easing e il dollaro si rafforzerà ancora di più. Che sia per incuria, inettitudine o megalomania, durante il periodo dei bassi tassi d’interesse governi e corporaciones latinoamericani si sono indebitati in dollari. Anche se confusamente, Trump ha detto che lui il dollaro lo vuole forte. È il momento del redde rationem, sperando che le economie latinoamericane siano più resilienti che nel 1982, quando una simile fase di aumento dei tassi d’interesse statunitensi avviò la grande crisi del debito. 
Che a Trump dell’America Latina interessi poco è chiaro anche dal fatto che il sito ufficiale della Casa Bianca non è più bilingue. Sembra un aneddoto da poco, ma gli hispanos sono 55 milioni, il 17% della popolazione, che sale al 24% tra gli americani minorenni e al 35% tra quelli nati all’estero. In New Mexico sono addirittura il 48% della popolazione, ma sono numerosissimi anche in Stati ben più popolosi come California e Texas (39%). Tanti, ma invisibili nella nuova amministrazione, che brilla per la sua omogeneità (ricchi maschi bianchi, abbastanza in là con l’età) e per l’assenza di ispanici, una prima assoluta dal 1989. Questo vuol dire che un sesto della popolazione avrà difficoltà a farsi sentire, ad influenzare le decisioni politiche, a battersi contro quelle contrarie ai propri interessi, ad essere nominata nei posti chiave del sottobosco del governo federale. Circostanza sempre preoccupante, ancora più con un Presidente che arriva ad esercitare tanto potere senza avere nessuna, nessuna, esperienza internazionale (e poca cultura generale per di più, avendo accusato un rivale nelle primarie di parlare… messicano!) I latinos hanno per il momento risposto pan per tortilla - solo il 18% ha votato per Trump (fonte Latino Decisions) -, ma sono ancora poco assidui alle urne e quindi non costituiscono una preoccupazione immediata per i repubblicani.
Dall’8 novembre 2016, molti hanno sostenuto che le dichiarazioni bombastiche di Trump non andavano prese sul serio, che una volta al potere sarebbe venuta fuori l’anima pragmatica del tycoon newyorchese. Sembra che invece faccia sul serio, minando alla radice quei valori che negli ultimi due decenni hanno consentito all’America Latina, come al resto del mondo emergente tra cui ovviamente la Cina, di fare immensi passi in avanti. Non a caso Xi a Davos non ha avuto remore nel difendere la globalizzazione (anche se si è dimenticato di dire che la Cina rimane uno dei mercati più protetti). Guadagnando credibilità e influenza nel mondo intero. Per decenni a Washington si è dibattuto su chi avesse «perso la Cina» nel 1949. Per gli storici futuri sarà probabilmente più facile giudicare chi avrà perso l’America Latina nel 2017.
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IRAN, LA MINACCIA DI TRUMP ROBERTO TOSCANO Rep 5 2 2017
LA RAFFICA di decreti presidenziali con cui Donald Trump ha iniziato la sua presidenza ha lasciato ben pochi dubbi sulla radicalità degli intenti di un personaggio che rivendica come caratteristica identitaria la mancanza di moderazione e di dialogo e per il quale la destabilizzazione è una precisa strategia politica.
Rimane però chi, specialmente per quanto riguarda la politica estera, continua ad aggrapparsi alla speranza che l’incoerenza di Trump, opportunista piuttosto che ideologo, possa lasciare spazio a ripensamenti in senso meno estremo, meno destabilizzante.
Su un tema, però, non esistono possibilità di equivoci, non ci sono contraddizioni. Si tratta dell’Iran, oggetto — negli ultimi giorni — di un rilancio di linguaggi coerentemente e sistematicamente aggressivi. Prendendo spunto dal lancio da parte di Teheran, il 29 gennaio, di missili balistici, il primo febbraio il Consigliere per la sicurezza nazionale Flynn ha «formalmente avvisato» l’Iran — minaccia cui ha fatto eco Trump, che ha aggiunto che non si deve escludere un’azione militare. Per usare un’espressione che non si sentiva a partire dalla conclusione dell’accordo nucleare, tutte le opzioni sono tornate sul tavolo. Il primo segnale è l’approvazione, venerdì scorso, di nuove sanzioni decretate formalmente in relazione alla questione dei missili e senza un rapporto con l’accordo nucleare ma che rivelano l’intenzione di trovare altri terreni su cui portare avanti il disegno di isolare e mettere alle corde l’Iran. In sé le prove di lancio di missili balistici non sarebbero sufficienti a giustificare una condanna dell’Iran, se mai una critica, dato che la risoluzione 2231 del Consiglio di sicurezza esorta ( calls upon) ma non impone all’Iran di astenersi dallo sviluppo di missili progettati ( designed) in modo da essere in grado di trasportare armi nucleari. L’Iran replica che le sue esigenze di difesa impongono lo sviluppo di una capacità missilistica convenzionale. Posizione sostenibile dal punto di vista giuridico ma, come ha dichiarato a Teheran il ministro degli Esteri francese Ayrault, criticabile sotto il profilo politico in quanto in contraddizione con il nuovo clima instaurato dall’accordo nucleare e inutilmente provocatoria. Ma Trump, contrario a quell’accordo, non ama le distinzioni. In uno dei suoi martellanti tweet afferma categoricamente che «gli iraniani non si stanno comportando bene» e aggiunge: «Stanno giocando col fuoco e non si rendono conto di quanto Obama sia stato indulgente con loro. Io no».
Mai un passaggio di consegne alla Casa Bianca è stato così radicale: esce un professore di diritto costituzionale criticato dai progressisti per la sua moderazione di stampo centrista ed entra un uomo d’affari/showman che ha incorporato nel suo governo personaggi estremisti (primo di tutti Steve Bannon) e ha un linguaggio che ricorda quello dei personaggi di Clint Eastwood. Il linguaggio di chi è pronto a sfoderare la pistola e ci tiene a farlo sapere Stiamo andando verso un’ennesima guerra in Medio Oriente? La necessità di un dialogo con l’Iran era una convinzione di Obama e del suo segretario di Stato Kerry — un disegno politico che con grande difficoltà era riuscito ad imporsi contro un Congresso tradizionalmente e radicalmente ostile all’Iran. Oggi presidente e Congresso sono nuovamente in armonia. Il primo febbraio è stato presentato alla Camera dei rappresentanti il testo di una risoluzione (H.J. Res. 10) che autorizza il presidente a usare la forza «al fine di prevenire l’ottenimento di armi nucleari da parte dell’Iran». La pistola è ancora nel fodero, ma il proiettile è in canna. Ancora non vi è niente di irreversibile, ma il pericolo può derivare da un’escalation che potrebbe innescarsi a partire da incidenti nel Golfo Persico: Trump ha detto che lui affonderebbe le imbarcazioni iraniane che si avvicinano provocatoriamente alle navi della Marina americana.
Dopo il risultato ottenuto con l’accordo nucleare, il Jcpoa, avevamo pensato che una guerra con l’Iran fosse diventata altamente improbabile. Oggi invece è ritornata ad essere drammaticamente possibile. Di fronte a questa prospettiva l’Europa ha il dovere di non limitarsi a seguire con il fiato sospeso lo svolgersi degli avvenimenti cercando di interpretare le esternazioni di Donald Trump. C’è troppo in gioco, sia per la nostra sicurezza che per i nostri interessi economici. Non solo, come stiamo già facendo, è giusto ribadire che per noi il Jcpoa rimane valido, ma dovremmo senza indugi rivolgere agli americani un pressante messaggio — anzi, un monito: se pensate a una guerra con l’Iran, non contate su di noi. Nel 2003 furono solo Francia e Germania (che per questo si meritarono dal segretario alla Difesa americano la sprezzante definizione di «vecchia Europa») a dire di no alla guerra con l’Iraq e a un intervento che è all’origine di gran parte della catastrofe del Medio Oriente contemporaneo. Andrebbe detto agli americani di tenere presente che oggi le cose andrebbero diversamente, con ripercussioni molto negative su un’alleanza che rimane vitale sia per noi che per loro.
E l’Italia? A differenza dai francesi, gli italiani non sono mai stati tentati da un antiamericanismo fatto di retorica e velleità nazionaliste. Anzi, per noi allinearci con Washington è sempre stato praticamente automatico: non dobbiamo dimenticare che nel 2003 l’Italia decise di accodarsi alla malaugurata guerra contro l’Iraq, insostenibile nelle sue false motivazioni e disastrosa nelle conseguenze. Oggi però è venuto il momento di chiarire che amicizia e alleanza non sono incondizionate, ma richiedono di considerare i reciproci interessi, nonché il rispetto delle norme internazionali e per noi, come dice la nostra Costituzione, «il ripudio della guerra come metodo di risoluzione delle controversie internazionali».
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