martedì 7 febbraio 2017

Migrazioni e geopolitica in una prospettiva facilmente strumentalizzabile in chiave complottista: "Armi di migrazione di massa" di Kelly M. Greenhill


Kelly M. Greenhill: Armi di migrazione di massa, prefazione di Sergio Romano, Leg Edizioni, pp. 480, € 20

Risvolto
Fu Gheddafi a darne una dimostrazione nel 2004, quando ottenne la revoca delle sanzioni da parte dell’Unione Europea: la paura dell’immigrazione e dell’arrivo di masse di rifugiati poteva essere sfruttata come un’arma temibile, era sufficiente poter alimentare, manipolare e sfruttare il fenomeno migratorio. Questo libro è la prima ricerca sistematica secondo un metodo consolidato di comparative history che studia la teoria e la pratica di questo irrituale strumento di persuasione: sono passati in rassegna più di cinquanta casi dal 1953 al recente passato, con particolari approfondimenti dedicati a vicende paradigmatiche, da Cuba al Kossovo, da Haiti alla Corea. Tesi dell’autrice è che i grandi numeri di rifugiati rappresentino una minaccia utilizzata da realtà politiche per perseguire propri obiettivi, a volte contro le democrazie liberali (particolarmente esposte nei confronti delle dinamiche
migratorie) altre nei confronti di differenti regimi. L’analisi rigorosa esplicata in queste pagine assume particolare rilevanza alla luce degli ultimi anni, che hanno visto esodi di proporzioni impensabili. Quali sono le dinamiche di un attacco basato sull’emigrazione? Come difendere allo stesso tempo le persone fatte fuggire dalle proprie terre e le nazioni che vedono in questi spostamenti una minaccia per sicurezza, identità e risorse? Ancora una volta, la conoscenza oltre le ideologie, per comprendere una guerra asimmetrica che sta scrivendo la storia del terzo millennio.
Quell'"arma di migrazione di massa" per piegare gli avversari più potenti
Dalla Cina alla Serbia: i rifugiati usati contro le democrazie


Migrazioni di massa super arma dei più deboli 
Dagli Usa tenuti in scacco per decenni da Cuba a ondate di boat people all’Europa d’oggi assediata da Sud a Est: la tesi di una politologa di Harvard 
Francesca Paci Stampa 28 3 2017
Menzionate per la prima volta nel 1937 dal Times, nelle cronache dei raid su Guernica, le «armi di distruzione di massa» hanno accompagnato il Secolo breve evocando il potenziale di morte delle riserve nucleari o chimiche e dissuadendo le grandi potenze dal ricorrervi e annientarsi a vicenda. Ma le tante guerre più o meno calde combattute nel frattempo hanno anche visto usare, con frequenza pari al suo basso profilo, un altro arsenale quasi altrettanto letale, il preferito dai Paesi deboli nello scontro asimmetrico con i colossi: le migrazioni. È l’interessante tesi della politologa di Harvard Kelly M. Greenhill che ha dedicato allo «spostamento coatto di milioni di persone» il volume Weapons of Mass Migration premiato nel 2011 dall’International Studies Association e pubblicato ora in Italia con la prefazione di Sergio Romano (Armi di migrazione di massa, Leg Edizioni, pp. 480, € 20).
Uomini come bombe
Chi attribuiva al male oscuro della vecchia Europa la paura dell’«invasione», esasperata al punto da affidare le proprie frontiere a partner dal dubbio pedigree democratico come Gheddafi prima e poi Erdogan o al-Sisi, dovrebbe rileggere gli ultimi settant’anni: dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 a oggi, la Greenhill conta una cinquantina di tentativi di «migrazione forzata» tra quelli creati deliberatamente e quelli manovrati. Il 57% di questi tentativi ha raggiunto l’obiettivo in maniera «pressoché totale» contro il 38% dei corrispettivi sforzi militari e diplomatici di Washington. 
«L’accordo tra Europa e Turchia, che a breve termine considero un successo per Erdogan, è una precisa conseguenza di quanto chiamo la coercizione migratoria», ci spiega la Greenhill che nel suo libro si concentra su tre casi studio: Cuba contro Stati Uniti nel ’56, l’80 e il ’94, Repubblica Federale Jugoslava contro Nato tra il ’98 e il ’99 e infine Haiti contro Stati Uniti nel ’79’ nel ’91 e nel 2004. 
Con la diffusione delle guerre a bassa intensità l’arma umana si è fatta più appetibile: oltre 7 volte su 10 è stata usata dopo il 1970, come se il moltiplicarsi delle Ong e la nascita di un sistema internazionale a tutela dei profughi avessero involontariamente incoraggiato Paesi minori, attori non statali e gruppi armati a servirsi di queste «riserve umanitarie» per sfidare gli avversari e in particolare le democrazie liberali, quelle teoricamente più dotate di salvaguardie giuridiche per i diritti umani. L’opinione pubblica pesa. Se per esempio negli anni 90 la pressione dei profughi haitiani spinti anche dal regime obbligò l’America a oscillare tra apertura e chiusura, fino a capitolare favorendo il ritorno del despota Aristide, fallì invece la sfida nord-coreana a Pechino perché, non dovendo rispondere in casa alle violazioni del diritto, la Cina resse, e quando nel 2004 fu di nuovo minacciata da Pyongyang innalzò un muro.
La trappola dei valori
La super-arma è la nuova frontiera bellica, scrive nell’introduzione Gianandrea Gaiani citando la Libia post-Gheddafi, dove metà del Pil della Tripolitania deriva dal traffico di uomini di cui beneficiano anche le tribù necessarie ad al-Serraj. La chiave di lettura sta in quello che l’autrice chiama «il costo dell’ipocrisia», il prezzo che una democrazia paga agli occhi del mondo quando i suoi comportamenti ne smentiscono i valori. 
L’impressione suggerita dal libro è che l’Europa presa d’assalto dai migranti e obbligata a negoziare con i Paesi confinanti sia nella condizione dell’America tenuta per decenni in scacco da Castro a ondate di boat people. Il parallelo regge all’analisi della Greenhill: «Non so se al momento la Libia cerchi di forzare l’Ue, ma varie fazioni libiche l’hanno fatto a più riprese tra il 2013 e il 2015. So inoltre di una minaccia in questo senso inviata l’estate scorsa dall’Egitto all’Italia dopo una crisi diplomatica tra i due Paesi, e so che la Germania ha provato a negoziare con il Cairo concessioni e cooperazione sulla sicurezza in cambio del controllo dei flussi».
La Storia si ripete. Il volume narra che Deng Xiaoping silenziò un Carter ansioso per la scarsa libertà di movimento dei cinesi chiedendo quanti ne volesse: un milione, dieci, trenta? Scacco matto. Era accaduto con il tiranno dello Zaire Mobutu e con il pakistano Zia, passati dal ruolo di paria a quello di statisti grazie al controllo dei migranti, e si è ripetuto nel ’97 tra l’Italia e l’Albania di Berisha; nel 2002, quando Lukashenko bloccò i flussi e passò all’incasso a Bruxelles; nel 2004, con l’Europa disposta a revocare le sanzioni contro Gheddafi per scongiurare il presunto esodo. 
La grande questione è se e come i migranti saranno un dì usati dal terrorismo, lo spettro agitato dai populismi. La Greenhill è cauta ma possibilista: «Il terrorismo, come lo spostamento coatto di persone, è un mezzo tattico e non un attore politico. Ma ovviamente attori non governativi che ricorrono al terrorismo possono servirsi di armi di migrazioni di massa. Ed è innegabile che, sebbene la crescita del neofascismo sia un fenomeno complesso, i sentimenti xenofobi e anti-migranti diffusi in Occidente siano un effetto di queste dinamiche».
Davide contro Golia?
Il vantaggio è di chi ha meno scrupoli, perché nelle democrazie non conta tanto la realtà del pericolo, quanto la percezione dell’opinione pubblica. Nonostante l’onere di migranti sostenuto dall’Occidente sia minimo rispetto al resto del mondo, il 52% degli americani li considera un problema e il 33% degli europei si dice abbastanza razzista. Inoltre, sottolinea la Greenhill, le crisi migratorie tendono a spaccare la comunità e lo fanno con maggiore agio quando, come nelle democrazie occidentali contemporanee, c’è una distanza crescente tra popolo e élite: «Per quanto questo tipo di pressione sia stata esercitata a turno un po’ da tutti, si è rivelata un’arma particolarmente efficace quando usata in modo non convenzionale e disumano. Diversamente da un bombardamento, una crisi migratoria può essere «un regalo che dura per sempre» e una democrazia non è nelle condizioni “politiche” di contraccambiare».
L’exit strategy è stretta. La Greenhille ammette che spesso non è possibile bilanciare princìpi liberali e pragmatismo geopolitico: «I governi sotto il tiro di armi di migrazioni di massa possono aprire le porte enfatizzando i benefici economici a lungo termine, ma è una strategia poco efficace nel pieno di una emergenza. Oppure possono accantonare i propri princìpi e chiudere le frontiere vanificando quelle armi ma aprendo una contraddizione interna in termini di valori e rischiando di pagare alla fine un prezzo identitario più alto». I migranti sono diventati la guerra, si scrisse all’indomani della guerra del Kosovo. E noi ci siamo dentro. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

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