giovedì 9 febbraio 2017

Nella totale indifferenza dei paesi "civili" continua il negazionismo legale dell'Olocausto. Quello palestinese



L’Onu a Israele: nuovi insediamenti violano il diritto internazionale 

Guterres: “Superata la linea rossa”. Si allontana la soluzione dei due Stati 

Giordano Stabile Busiarda 8 2 2017
Israele «ha superato la linea rossa», punta «all’annessione» di parti della Cisgiordania e viola «il diritto internazionale». A dirlo è l’Onu, prima con il suo inviato in Medio Oriente Nicolay Mladenov e poi con lo stesso Segretario generale Antonio Guterres. Una presa di posizione dura, che arriva il giorno dopo l’approvazione da parte della Knesset del provvedimento per la legalizzazione di quattromila case costruite su terre private palestinesi.
La legge, voluta dall’ala destra del governo guidato da Netanyahu, va in senso contrario alla Risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza, approvata lo scorso 23 dicembre, quella che chiedeva lo stop agli insediamenti nei Territori. Per questo le parole al Palazzo di Vetro sono pesanti. Guterres ha parlato di «violazione» che avrà «conseguenze legali di vasta portata» e ha invitato Israele a «evitare qualsiasi azione che possa far deragliare la soluzione dei due Stati».
«Due popoli, due Stati»
È proprio «due popoli, due Stati» - la formula che ha retto il processo di pace fra Israele e i palestinesi per 24 anni, dagli accordi di Oslo in poi - a essere in pericolo. I maggiori alleati di Netanyahu, Avigdor Lieberman e Nafatali Bennett, parlano apertamente di annessione di tutta o parte della Cisgiordania. L’ala destra del Likud ha presentato un mese fa un piano che lascerebbe all’Autorità palestinese solo il 39 per cento dei Territori.
L’archiviazione della formula era tabù fino a pochi mesi fa, ma ora, con Donald Trump alla casa Bianca, tutto è possibile. L’Amministrazione Usa ha criticato i «nuovi insediamenti» autorizzati da Netanyahu a partire dal 20 gennaio, oltre 6 mila nuove case, ma ha precisato che non ritiene «un ostacolo» quelli già costruiti. Netanyahu e Trump ne discuteranno a Washington mercoledì prossimo, il piatto forte del summit assieme al dossier iraniano. Il 23 dicembre, quando Obama non oppose all’Onu il veto americano alla risoluzione di condanna, sembra lontano ere geologiche. 
I Paesi arabi e l’Ue
Fra i palestinesi e nei Paesi arabi c’è sconcerto e preoccupazione. Il presidente Abu Mazen ha parlato di «furto di terra», attraverso un provvedimento «inaccettabile», condannato anche da François Hollande, il più stretto alleato in Occidente, ma agli sgoccioli del suo unico mandato all’Eliseo. Il segretario generale della Lega araba Ahmed Abul Gheit ha puntato il dito su una legge che «riflette le reali intenzioni del governo israeliano e la sua posizione ostile verso la pace». Gran Bretagna, Francia, Giordania, Turchia, e l’Ue, hanno chiesto il ritiro del provvedimento.
La Corte Suprema
Ora la legge deve essere controfirmata dal presidente Reuven Rivlin. Ma si annuncia già una battaglia alla Corta Suprema. Le Ong di sinistra, come Peace Now e Yesh Din, sono pronte a presentare ricorso e contano su un alleato di peso, il presidente della Corte Avichai Mandelblit, che già aveva avvertito nelle scorse settimane sul rischio per lo Stato ebraico di dover comparire davanti al Tribunale dell’Aja in caso di annessioni.
Mandelblit è anche il giudice che ha ordinato lo sgombero dell’avamposto di Amona, eseguito una settimana fa. E ha fissato per il 2018 la demolizione di altre 17 case nell’insediamento ebraico di Tapuach, vicino a Nablus. Sono 97 gli «outpost» costruiti senza autorizzazione nei Territori. Ma almeno 600 mila israeliani vivono ormai in 140 insediamenti realizzati con l’approvazione del governo, a Gerusalemme Est e in Cisgiordania.
BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Hanan Ashrawi: «La Corte dell’Aja unica via per i palestinesi» 
Israele/Territori Palestinesi Occupati. Intervista ad Hanan Ashrawi del Comitato esecutivo dell'Olp e storica portavoce palestinese sull'approvazione della legge che regolarizza gli avamposti coloniali. «Il colpo più duro è l'indifferenza internazionale verso le politiche di Israele»

Michele Giorgio Manifesto RAMALLAH 8.2.2017, 23:59 
La sottovalutazione, se non il disinteresse, dell’Europa per la legge approvata lunedì sera dalla Knesset che ha regolarizzato retroattivamente circa 4.000 case in decine di avamposti coloniali, amplifica la soddisfazione del governo Netanyahu e della destra religiosa alla guida del paese. Il ministro Bennett, leader del partito dei coloni “Casa ebraica”, ha vinto la sua storica battaglia in fondo senza penare troppo. 
Ha solo dovuto aspettare qualche anno, l’uscita di scena di Barack Obama (che in verità la colonizzazione l’ha solo frenata e mai fermata), l’ingresso nella Casa bianca dell’alleato Donald Trump e la paralisi della comunità internazionale messa a nudo il mese scorso dall’insulsa dichiarazione finale della Conferenza di Pace di Parigi alla quale il ministro degli Esteri italiano Alfano ha dichiarato con orgoglio di aver dato il suo fattivo contributo. 
«È una rivoluzione», ha commentato Bennett. Ha ragione. In due settimane Israele ha autorizzato la costruzione di quasi 6.000 case nelle colonie in Cisgiordania e a Gerusalemme est, annunciato un nuovo insediamento e legalizzato 4.000 case in decine di avamposti. 
E il voto della Knesset apre la strada alla estensione della sovranità israeliana alla Cisgiordania. Non su tutta, sulle colonie ma non sui centri abitati palestinesi, per evitare uno Stato binazionale con ebrei e arabi insieme, ha spiegato il ministro Ofer Akunis. 
L’apartheid, avvertono anche diversi israeliani, è dietro l’angolo. Ormai è solo cronaca giornalistica il clamore suscitato a dicembre dal “colpo di coda” di Obama che non bloccò con il veto l’approvazione da parte del Consiglio di Sicurezza Onu della risoluzione 2334 che ha riaffermato lo status di territori occupati per Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est e condannato la colonizzazione. La leadership palestinese intanto è debole, balbetta, non è in grado di elaborare una strategia politica degna di questo nome. 
«Questa legge israeliana è inaccettabile», dice Nabil Abu Rudeina, portavoce del presidente Abu Mazen. Un po’ poco. 
Palestinian politician Hanan Ashrawi, member of Palestinian Prime Minister Salam Fayyad’s Third Way party, seen in her office in the West Bank city of Ramallah. Ashrawi is the first woman elected to the Palestinian National Council. January 31, 2012. Photo by Miriam Alster/FLASH90 *** Local Caption *** çðàï òùøàååé
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Non sorprende l’amarezza sul volto di Hanan Ashrawi, membro del Comitato esecutivo dell’Olp e, più di tutto, storica portavoce palestinese durante la prima Intifada e la Conferenza di Madrid. 
Scuote la testa Ashrawi: «Il colpo più duro – ci dice – è l’atteggiamento internazionale verso tutto questo». 
Cosa potrebbero fare i palestinesi? 
Dobbiamo ridefinire la nostra politica e ripensare alle relazioni con Israele. Sappiamo che questo potrebbe costarci caro ma non possiamo rimanere con le mani in mano. E se gli Usa e l’Europa non faranno la loro parte per fermare l’escalation messa in moto dal governo Netanyahu, la strada da percorrere è quella della giustizia internazionale e del ricorso alla Corte penale dell’Aja. 
Appaiono però rituali gli appelli che i palestinesi lanciano ogni volta alla comunità internazionale. Non sembrano produrre un granché. 
Non possiamo che continuare a rivolgerci all’Onu e invocare la giustizia internazionale. Non dobbiamo stancarci di reclamare i nostri diritti anche se il mondo volge lo sguardo da un’altra parte. I nostri diritti non sono meno importanti di quelli degli israeliani. 
Alcuni dirigenti palestinesi hanno minacciato l’annullamento del riconoscimento di Israele fatto dall’Olp venti anni fa. È una possibilità che ritiene concreta? 
Tutto è possibile, questa e altre opzioni. Dobbiamo mettere insieme un piano che contempli le diverse possibilità a nostra disposizione e, a mio avviso, dovranno essere discusse pubblicamente. 
Queste opzioni includono la fine della cooperazione di sicurezza con Israele? 
Anche questa è una possibilità, assieme a molte altre. 
Quanto l’ingresso di Donald Trump alla Casa Bianca è stato determinante per l’azione del governo israeliano? 
L’elezione a presidente di Trump è stato l’evento scatenante. Netanyahu non parlava d’altro prima del 20 gennaio, nonostante Barack Obama sia stato un presidente molto generoso con Israele, forse il più generoso dal punto di vista politico, finanziario e militare. Il governo israeliano si sente incoraggiato a portare avanti la sua politica da Trump e dalle persone che il nuovo presidente ha scelto per determinati incarichi. A cominciare dal nuovo ambasciatore Usa a Tel Aviv \[David Friedman, aperto sostenitore delle colonie israeliane, ndr\]. Ora abbiamo coloni nel governo israeliano e, di fatto, coloni in quello statunitense. 
Il quotidiano israeliano Haaretz ha riferito di avvertimenti dell’amministrazione Trump ai palestinesi: se denunceranno Israele alla procura internazionale perderanno il sostegno finanziario degli Usa e l’Olp tornerà nell’elenco delle organizzazioni terroristiche. È vero? 
Non sono in grado di rispondere. Ciò che so è che queste minacce fanno parte di una posizione adottata dal Congresso americano. 
È delusa dalla Ue? 
Sì, moltissimo. Ci sono voluti ben 30 anni solo per arrivare all’etichettatura diversa dal Made in Israel per le merci delle colonie ebraiche nei territori palestinesi occupati dirette in Europa. E nel frattempo Israele resta un partner privilegiato della Ue, sotto tutti i punti di vista, nonostante le sue politiche nei nostri confronti. L’Europa parla ma poi fa molto poco per difendere concretamente i diritti dei palestinesi.
La sfida di Israele al mondo 

Qui, dove il “Movimento per la pace” sembra spento, il colpo di mano della Knesset ha il sapore di un primo passo verso l’annessione dei Territori. Proprio come dopo la guerra dei Sei Giorni
Nelle colonie legalizzate dal voto retroattivo E con Trump si allontana il sogno dei due Stati

BERNARDO VALLI  Rep 8 2 2017
FORSE la storia sta cambiando ancora. Ma accade troppo spesso e pochi ci fanno attenzione. La città era impassibile. Sulla Ben Juda, cuore della metropoli israeliana, le radio diffondevano a tutto volume la cronaca del mattino alla Knesset. Dei giovani coloni, col mitra a tracolla, hanno applaudito quando hanno udito che il loro insediamento, nella Samaria, non era più un accampamento di fuorilegge, ma una cittadina legale. Così ha deciso il Parlamento. Parlavano russo e nessuno gli ha dato retta. Più tardi, alla Porta di Jaffa, scendendo verso il Santo Sepolcro, i mercanti arabi, indaffarati con comitive giapponesi, non ascoltavano quel che le radio dicevano.
LEGITTIME o non legittime le colonie, attorno a Gerusalemme, si moltiplicano come funghi. Il voto eccezionale della Knesset che le promuove, le legittima, non scuote la città araba. Per i palestinesi di Gerusalemme la storia non è cambiata. Loro non hanno sentito l’“effetto Trump”. Eppure alla Knesset c’è stato. Ed è stato provocatorio come il linguaggio del neo presidente. È come se tutto avvenisse ai piedi della Casa Bianca e si udisse la sua voce. Anche se in realtà lui si è ben guardato dall’incoraggiare e ancor meno dal dare la benedizione alla decisione del parlamento israeliano. L’influenza che esercita va oltre le sue parole. È dettata dalle sue virutali o supposte intenzioni. Con Barack Obama alla Casa Bianca 60 deputati (contro 52) avrebbero esitato ad approvare una legge definita provocatoria in molte capitali anche amiche di Israele. E infatti ne ha tutte le caratteristiche poiché, con valore retroattivo, quella legge legalizza migliaia di edifici costruiti su proprietà private di palestinesi, che sorgono in sedici colonie israeliane di Cisgiordania. Si tratta di insediamenti approvati, protetti quando necessario dall’esercito israeliano, anche se i coloni (circa 700mila tra Cisgiordania e Gerusalemme) sono armati, ma la cui espropriazione di fatto non era mai stata approvata da una legge del parlamento. Erano quindi formalmente illegali. Da ieri mattina non lo sono più. Ma non si capisce fino o quando saranno legali. La Corte suprema sarà presto investita del caso e potrebbe dichiarare incostituzionale la legge appena approvata dal parlamento. Il procuratore generale ha già fatto sapere che si guarderà bene dal difenderla. Per cui il voto della Knesset appare un colpo di mano ispirato dall’avvento di Trump. Un colpo di mano accompagnato dal dubbio che la legge approvata possa essere applicata. Vale a dire che diventi di fatto un primo serio passo verso una annessione definitiva dei territori occupati da Israele nel 1967, durante la guerra dei Sei Giorni.
L’opposizione internazionale è per ora forte. Il voto dei sessanta deputati israeliani riporta ai momenti peggiori i rapporti tra le due comunità, quella degli occupati e quella degli occupanti. Situazione che dura da mezzo secolo. Quest’anno si potrebbe celebrare il cinquantenario.
Il dinamico Yair Lapid, che punta al posto di Benjamin Netanyahu, ha definito il voto della Knesset «ingiusto, non elegante, dannoso per Israele e la sua sicurezza». Saeb Erekat, il negoziatore palestinese al momento senza lavoro, ha parlato di «un saccheggio della pace che ne affossa le possibili- tà di realizzarla e cancella la soluzione dei due Stati, uno israeliano e uno palestinese». Altri hanno denunciato il tentativo di annessione della Cisgiordania.
Ad affrettare l’approvazione della legge non è stata soltanto la speranza di poter contare sul Donald Trump, in più occasioni dichiaratosi in favore di Israele, al punto da dare l’annuncio (poi ritrattato o ritardato) di spostare l’ambasciata Usa da Tel Aviv e Gerusalemme, che potrebbe provocare una sollevazione degli arabi, già in aperta tenzone con Trump. Ad accelerare i tempi parlamentari è stata anche la decisione di sfrattare quaranta famiglie di coloni e di demolire le loro case ad Amona, perché da dieci anni giudicate illegali. Per evitare la distruzione di quell’insediamento è stata votata la legge retroattiva di gran fretta.
Benjamin Netanyahu era esitante. Dopo avere accolto con entusiasmo la partenza di Obama e l’arrivo di Trump il primo ministro ha capito che il neo presidente, pur sostenitore della destra israeliana, non poteva inimicarsi il mondo arabo. Ne aveva bisogno nella guerra contro lo Stato islamico e per questo era diventato vago sul trasloco dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, e aveva invitato a non estendere gli insediamenti in Cisgiordania per non impedire la ripresa del dialogo israelo-palestinese.
Durante la visita a Londra, al primo ministro britannico che insisteva sulla formazione dei due Stati, Netanyahu non ha risposto. Ha sorvolato sul problema. Non ha parlato della possibile creazione di due entità indipendenti. Il silenzio è stato interpretato come un tentativo di non apparire contrario al colpo parlamentare che si stava preparando a Gerusalemme. Fino ad allora, senza manifestare entusiasmo, adottando una accurata riservatezza, il primo ministro non aveva ripudiato del tutto la possibilità remota di creare due Stati. In realtà si adattava alla volontà di larga parte della società internazionale. Al tempo stesso era prigioniero della forte contraddizione di cui era ed è prigioniera la sua società, quella israeliana.
Da un lato, ad ogni sondaggio i cittadini dello Stato ebraico non si dichiarano contrari alla nascita di un Stato palestinese alle porte di casa. Ma i meccanismi politici, alimentati da una classe politica sempre più a destra e sempre più votata, porta in un’altra direzione. La situazione viene descritta in modo irriverente da un intellettuale di Tel Aviv: la soluzione dello Stato palestinese è considerata ineluttabile come la morte, nessuno può negarla, ma tutti la vogliono ritardare. In mille maniere, non sempre confessandolo.
Il caos mediorientale, il mosaico di guerre ai confini, il livello del terrorismo che non decresce, l’instabilità delle frontiere nazionali in tutta la regione, sono tutti fattori che conducono a radicalizzare le posizioni. Non a caso si è praticamente spento il Movimento della Pace che ha avuto un ruolo di rilievo nella vita politica israeliana degli ultimi decenni. Un tempo i giovani scendevano in piazza, anche in divisa militare, per invocare la pace. Oggi pacifista viene spesso tradotto disfattista.
Esitante, preoccupato di non turbare Donald Trump, di cui sarà ospite il 15 febbraio alla Casa Bianca, Benjamin Netanyahu è ritornato da Londra a Gerusalemme lasciandosi alle spalle la finzione dei due Stati e deciso ad adeguarsi alla provocazione che si stava preparando alla Knesset. In parlamento si stava celebrando con il voto retroattivo della legalizzazione di tante colonie l’avvento di Trump alla presidenza americana. Anche se Trump non è affatto d’accordo con quel voto, che accresce l’inimicizia degli arabi, già furiosi per l’annullamento dei visti, ma necessari come alleati per combattere lo Stato islamico in Siria e in Iraq. La guerra dei Sei Giorni, che nel 1967, portò all’occupazione della Cisgiordnia e di Gerusalemme Est, fece nascere il sogno del grande Israele. Il sogno è diventato un progetto. Alla Knesset, di primo mattino. Si è tentato di realizzarlo almeno in parte. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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