venerdì 17 febbraio 2017

Olocausto perpetuo: la finedell'illusione palestinese dei due Stati. Perché non li bruciate nei forni e la finite qua?






La richiesta di Netanyahu aTrump Sovranità israeliana sul Golan Il premier ha suggerito a Washington di riconoscere l’annessione Lo scopo è creare una zona cuscinetto anti-jihadisti ed Hezbollah Giordano Stabile Busiarda 17 2 2017
C’è una parola che non è stata pronunciata nella conferenza stampa alla Casa Bianca di Donald Trump e Benjamin Netanyahu. Ma ha tenuto banco nell’incontro fra i due leader. Golan. Il campo di battaglia nelle guerre arabo-israeliane dove per decenni si sono confrontati Israele e Siria. Occupato nel 1967, annesso nel 1980, rimasto «congelato» fino al deflagrare della guerra civile siriana. Netanyahu ha chiesto a Trump di riconoscere l’annessione israeliana. Una richiesta impegnativa, un passo difficile, molto di più dell’eventuale spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme o del riconoscimento degli insediamenti. Ma, per Israele, più importante, e che mira agli equilibri futuri in Medio Oriente.
Le Alture del Golan sono uno spartiacque strategico. L’esercito che ci sta in cima può scendere da un lato fino a Damasco, senza ostacoli. O dilagare verso il Lago Tiberiade e il cuore di Israele, dall’altro. Dal 1974 una missione Onu di osservatori faceva da cuscinetto fra israeliani e siriani. Fino all’agosto del 2014, quando 45 Caschi Blu delle Fiji vengono sequestrati dai combattenti di Al-Nusra, l’Al-Qaeda siriana. La missione Onu di fatto finisce lì e l’esercito israeliano si trova su una frontiera contesa fra ribelli moderati, jihadisti, alleati dell’Isis, unità regolari siriane e Hezbollah libanesi. Il Golan si ritrova al centro del dispositivo di sicurezza di Israele.
Per questo Netanyahu ha insistito con Trump. Ha spiegato, secondo fonti israeliane, che l’annessione delle Alture è irrinunciabile, mentre in Cisgiordania non avrebbe senso «annettersi due milioni di palestinesi». Ma il premier ha anche «suggerito» al presidente un secondo passo. Applicare l’idea di John McCain sulle «no-fly-zone» al Sud della Siria al cosiddetto «triangolo druso» alle frontiere con Israele e la Giordania. La politica dell’Amministrazione Usa sulla Siria è in via di ridefinizione. McCain è un anti-russo e Trump vorrebbe tentare una collaborazione con Putin contro l’Isis sul territorio siriano. Ma le cose evolvono rapidamente e ci potrebbe essere spazio per una soluzione molto gradita a Israele. Un «zona-cuscinetto» che tenga fuori sia i gruppi ribelli islamisti sia Hezbollah.
Israele ci sta lavorando dal 2014. Dopo la cacciata dell’Onu i ribelli stavano dilagando. Solo l’intervento di Hezbollah li ha contenuti. I miliziani libanesi hanno ripreso la città strategica di Quneitra e impiantato lì il loro quartier generale. Il fronte è fluido, i villaggi passano di mano in mano, anche perché i ribelli sono molto divisi.
L’esercito israeliano osserva, a parte qualche raid contro postazioni dell’Isis e sui convogli diretti a Hezbollah. Punta sulla carta dell’aiuto umanitario per far breccia nella popolazione. I feriti, sia civili sia combattenti ribelli, vengono fatti passare al confine e curati negli ospedali israeliani. Almeno tremila in tre anni. Per ragioni umanitarie non si fanno distinzioni, e anche quelli di Al-Nusra vengono soccorsi. Ma i militari sottolineano le tante vite salvate. Compresa una bambina di 5 anni, che aveva bisogno di un urgente trapianto di midollo, curata in un centro specializzato di Haifa.
Nei villaggi in mano ai ribelli manca tutto. Non c’è elettricità. I generatori, senza gasolio, sono fermi. L’inverno è rigido, le notti si va sempre sotto zero. L’esercito israeliano ha creato un’unità specializzata nell’assistenza ai civili. I militari notano che non ci sono più alberi, i contadini li hanno tagliati per scaldarsi con la legna. Fanno arrivare cibo, medicinali, vestiti pesanti e «18 tonnellate» di coperte. Una politica che comincia a far breccia soprattutto fra i drusi. Nei villaggi del Golan occupato, i ritratti di Assad cominciano a scomparire dai ristoranti. A Buqata compare la bandiera israeliana su una scuola ricostruita. I rapporti con i drusi, la comunità araba che meglio si è integrata in Israele, servono anche a estendere l’influenza più in là. Se davvero nasceranno le «zone cuscinetto» in Siria, sul modello di quella che la Turchia si è presa nel Nord, Israele giocherà la carta drusa per tenere lontani dal Golan i suoi due avversari arabi storicamente più temibili, la Siria ed Hezbollah.
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Trump e Netanyahu congelano la soluzione dei “due Stati” 

Il leader americano frena sugli insediamenti. “Tocca a Israele e Anp fare un’intesa” Sintonia sull’Iran: impediremo che abbia l’atomica. Il Pentagono pensa a truppe in Siria 
Paolo Mastrolilli Busiarda 16 2 2017
La soluzione dei due Stati non è più la strada maestra che gli Usa intendono seguire per arrivare alla pace tra israeliani e palestinesi. Piuttosto il presidente Trump punta su un accordo regionale che includa anche i Paesi arabi, per trovare un’intesa di ampio raggio in grado di affrontare insieme i diversi problemi che compromettono la stabilità dell’intero Medio Oriente. Lo ha detto ieri il capo della Casa Bianca, ricevendo per la prima volta il premier Netanyahu.
«Io - ha detto Trump - sono per uno Stato, o due Stati. Quello che preferiscono le parti. Il mio obiettivo è la pace, e a negoziarla devono essere israeliani e palestinesi. Noi possiamo assisterli, e poi sosterremo le loro decisioni». Il presidente si è detto sicuro che «faremo un accordo», scherzando con il suo ospite che non sembrava altrettanto ottimista. Quindi ha aggiunto che preferirebbe uno stop agli insediamenti, per favorire il negoziato, che intende affidare al genero Jared Kushner, un ebreo ortodosso che conosce Netanyahu da quando era bambino. Trump ha ripetuto che «stiamo considerando il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme», ma senza prendere impegni precisi sui tempi.
Il premier ha detto che «non mi interessano le etichette, ma la sostanza. E la sostanza è la stessa che ripeto da sempre. Le nostre condizioni per la pace sono due: primo, i palestinesi devono accettare l’esistenza dello Stato ebraico, smettendo di minacciarne la distruzione e insegnarla ai loro bambini; secondo, la sicurezza dell’intera regione dovrà essere affidata ad Israele, altrimenti creeremo solo le condizioni per una nuova base terroristica». Netanyahu ha detto che questo momento rappresenta una grande occasione, perché a causa del terrorismo prodotto dall’islam radicale «molti Paesi arabi, per la prima volta nel corso della mia vita, non considerano più Israele un nemico, ma un alleato». Questo ha spinto Trump a dire che il disegno strategico è allargare il negoziato a questi Paesi, in modo da fare un accordo complessivo per la stabilità dell’intera regione. 
I due leader hanno confermato la determinazione a lavorare insieme contro il terrorismo, e la piena convergenza sulla linea verso l’Iran. Entrambi considerano l’accordo nucleare negoziato dal presidente Obama un errore, e il capo della Casa Bianca ha ribadito che «non consentiremo mai a Teheran di avere l’arma atomica». Netanyahu ha elogiato la decisone di imporre nuove sanzioni per il recente test missilistico, «fatto con un vettore con su scritto che Israele deve essere distrutto». Quindi ha chiesto di prendere provvedimenti anche contro Hezbollah. 
Il clima tra gli Usa e lo Stato ebraico è cambiato radicalmente rispetto all’amministrazione precedente, ma secondo l’ex vice segretario di Stato e vice consigliere per la sicurezza nazionale di Obama, Tony Blinken, la strategia di Trump e Netanyahu non è praticabile «a causa della demografia. Se resta un Stato solo, Israele non potrà essere insieme ebraico e democratico, perché i palestinesi diventeranno la maggioranza. A quel punto o dovrà rinunciare alla democrazia, oppure al fatto di essere uno Stato ebraico».
Poco dopo la conclusione dell’incontro e mentre Netanyahu stava dirigendosi al Congresso, il Pentagono faceva filtrare la notizia che «potrebbe raccomandare l’invio di truppe da combattimento Usa in Siria contro lo Stato islamico». Il Pentagono - ha riferito la Cnn - avrebbe illustrato la proposta a Trump. 
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Confederazione o un piano saudita Ecco le strade per puntare alla pace 

Il presidente Rivlin per confini aperti fra “entità” diverse ma i moderati frenano 
Ariel David Busiarda 16 2 2017
Nella conferenza stampa a margine del suo primo incontro con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente americano Donald Trump ha confermato che la sua amministrazione non considera la soluzione dei due Stati l’unica percorribile per porre fine al conflitto israelo-palestinese.
La dichiarazione rompe con le precedenti amministrazioni Usa e con il resto della comunità internazionale, che fin dagli accordi di Oslo del 1993 ritiene essenziale per il raggiungimento della pace la creazione di uno Stato palestinese accanto a Israele. 
Con il protrarsi dello stallo nei negoziati di pace, alcune voci moderate hanno cominciato a valutare nuovi modelli, ma finora le alternative alla visione dei due Stati sono arrivate principalmente dalle frange estreme della politica israeliana e palestinese. 
Quali sono le alternative che ora potrebbero trovare ascolto alla Casa Bianca? E quali i maggiori ostacoli alla loro realizzazione?
Le ipotesi sul tavolo
Una delle prime ipotesi è quella di una Confederazione o Stato binazionale. Questo modello è caldeggiato da diversi esponenti del partito di destra Likud, tra cui il presidente israeliano Reuven Rivlin. Un «falco» in politica estera, ma attento a garantire i diritti civili dei palestinesi, Rivlin è contrario alla creazione di uno Stato palestinese. In passato, ha lanciato la proposta di una confederazione composta da Israele e da «un’entità» autonoma palestinese, in cui lo Stato ebraico manterrebbe il controllo sull’esercito e i confini. 
Questa settimana, durante un incontro con un’organizzazione pro-insediamenti, Rivlin si è invece dichiarato favorevole all’annessione di tutta la Cisgiordania, a patto che agli abitanti palestinesi sia concessa la cittadinanza israeliana. La soluzione dello Stato unico è appoggiata non solo da ambienti di destra, ma anche da esponenti dell’estrema sinistra e degli arabi israeliani.
Ovviamente è una soluzione che presenta criticità. È improbabile ad esempio che la dirigenza palestinese accetti una soluzione a sovranità limitata, e tantomeno un’annessione. L’ipotesi di uno Stato binazionale spaventa anche gli stessi israeliani moderati. Annettere la Cisgiordania e concedere la cittadinanza a quasi tre milioni di palestinesi altererebbe gli equilibri demografici del Paese e rischierebbe di segnare la fine d’Israele come Stato ebraico, aprendo possibili scenari di guerra civile. 
C’è poi la via di una annessione parziale, ed è quella sostenuta dal ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, leader del partito di estrema destra la Casa Ebraica: egli propone di annettere il 60 per cento della Cisgiordania e creare delle autonomie palestinesi nei territori rimanenti. In base al suo piano, Israele annetterebbe l’Area C della Cisgiordania che comprende i principali insediamenti, e offrirebbe la cittadinanza ai circa 150.000 palestinesi che risiedono nell’area.
La proposta di Bennett potrebbe trovare sostenitori nell’amministrazione Usa, come David Friedman, il candidato di Trump alla carica di ambasciatore in Israele. Friedman, vicino alla destra israeliana, si è detto in passato favorevole all’annessione di parte della Cisgiordania. Ma per i palestinesi e i moderati israeliani, l’idea di Bennett rimane inaccettabile, perché lascerebbe ai palestinesi solo dei minuscoli «bantustan» a sovranità limitata e privi di continuità territoriale. 
«Il piano saudita»
Trump e Netanyahu nella loro conferenza stampa di ieri hanno auspicato un ruolo maggiore nel processo di pace per il mondo arabo e una soluzione regionale al conflitto. Proposte in questo senso vanno da quella di Yaakov Peri, deputato dell’opposizione ed ex capo del servizio di Sicurezza Interna, che vorrebbe aprire in Arabia saudita un tavolo di negoziato permanente con i palestinesi e gli altri Paesi arabi, all’idea di una confederazione tripartita tra Israele, Palestina e Giordania.
Iniziative come la proposta di pace saudita del 2002 dimostrano la crescente disponibilità del mondo arabo a normalizzare le relazioni con Israele, ma queste aperture considerano ancora imprescindibile il ritiro israeliano dai territori conquistati nel 1967 e la creazione di uno Stato palestinese.
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Così gli 007 Usa hanno preparato i palestinesi al cambio di rotta 
Giordano Stabile Busiarda
Sul proscenio mondiale della Casa Bianca il duetto con Netanyahu. Dietro le quinte le trattative con i palestinesi per preparare il terreno alle «nuove soluzioni», cioè la fine della formula «due popoli, due Stati». È la parte difficile per il grande accordo che sogna il presidente americano Donald Trump.
Senza la soluzione «due Stati» le posizioni si allontanano in maniera irrimediabile. Per questo martedì è arrivato a Ramallah, il giorno prima del summit alla Casa Bianca, il direttore della Cia Mike Pompeo. Un faccia a faccia con il presidente palestinese Abu Mazen, segreto ma fatto filtrare da fonti interne alla Muqata. Che hanno anche fatto trapelare come nei giorni scorsi il capo dell’intelligence palestinese, Majd Faraj, era a Washington per colloqui con «alti funzionari della sicurezza», cioè lo stesso Pompeo, in vista del vertice e di un possibile incontro fra il leader palestinese e il presidente americano.
Assieme ad Abu Mazen c’era anche il capo negoziatore Saeb Erekat. Pompeo ha anticipato quello che poi ieri Trump ha chiesto a Netanyahu. Un freno ai nuovi insediamenti nei Territori. La mossa, assieme allo spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, che potrebbe scatenare una rivolta incontrollabile in Cisgiordania. Ne sono convinte le forze di sicurezza palestinesi che hanno passato le informazioni ai colleghi americani. E infatti, dopo la frenata sull’ambasciata, sono arrivate anche le richieste della Casa Bianca per lo stop alle 6 mila nuove case che il governo israeliano ha annunciato di voler costruire.
Le contropartite offerte dagli americani non sono comunque sufficienti. Senza la prospettiva di uno Stato palestinese su tutta o quasi la Cisgiordania, la leadership moderata perde la sua carta più importante e rischia di essere travolta dagli oltranzisti, a cominciare da Hamas ora guidata da un «militare» come Yahya Sinwar. Il fuoco di sbarramento è cominciato prima ancora della conferenza alla Casa Bianca. «Non ha senso accantonare la politica dei due Stati - ha detto Hanan Ashrawi, del comitato esecutivo dell’Olp -. Non possono dirlo senza un’alternativa». E l’alternativa, ha aggiunto, «è uno Stato unico con eguali diritti per tutti».
È la posizione ribadita da Erekat, che si oppone «a ogni sistema discriminatorio nei confronti dei palestinesi». Se Stato unico deve essere, i palestinesi dovranno godere dei pieni diritti. Ma questo punto potrà rimanere uno Stato «ebraico»? Il rischio per gli ebrei di ritrovarsi in minoranza è una delle ragioni che ha frenato la leadership israeliana, assieme alle pressioni internazionali, dall’annettere una parte o tutta la Cisgiordania.
I palestinesi non si fidano e vedono come principale minaccia gli insediamenti che, secondo Erekat, stanno portando «alla costruzione di uno Stato, due sistemi, cioè all’apartheid». E anche se i contenuti dei colloqui con Pompeo sono rimasti segreti c’è da scommettere che è stato questo il punto critico delle discussioni. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

così Donald cambia i giochi 
Stefano Stefanini  Busiarda 16 2 2017
Come tutti i suoi predecessori, Donald Trump vuole la pace in Medio Oriente. La continuità si ferma qui. In mezz’ora di conferenza stampa con Benjamin Netanyahu, il Presidente americano ha messo la pietra sopra la soluzione dei «due Stati».
Una soluzione, quella di uno Stato israeliano e uno palestinese, che è stata il faro degli infiniti tentativi di risolvere la crisi dal 1993 ad oggi. Trump non l’ha esclusa, ma il suo agnosticismo e le condizioni del primo ministro israeliano, che esige il «totale controllo» di sicurezza israeliano sull’intero West Bank, la relegano alla retroguardia della diplomazia mediorientale.
Trump batte un’altra strada. Non interpella i palestinesi. Punta a diluirli in un ampio accordo regionale. Gli fa sponda Netanyahu perché ormai «i Paesi arabi non vedono più Israele come un nemico»: adesso il nemico, comune, è l’Iran. Queste le basi del maxi-accordo (much bigger deal) terreno sul quale il Presidente americano si sente di casa. Visione audace, seguiti operativi lacunosi. Fino a che punto gli Stati arabi sono pronti a un accordo sulla testa dei palestinesi? Quale «flessibilità» offre in cambio Israele? 
La conferenza stampa è stata straordinaria. Si è tenuta prima, non dopo, i colloqui. Su argomenti come gli insediamenti o lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, i due leader se la sono cavata con un «ne parleremo». I due Stati non sono stati nominati, sino alla domanda di un giornalista israeliano. L’accordo nucleare con l’Iran è stato pesantemente censurato, ma senza parlare di annullarlo. Chi chiedeva cosa Washington intendesse farne è rimasto senza risposta. Incoraggiato da Netanyahu, Trump ha confermato nuove sanzioni a Teheran slegate al nucleare e collegate ai recenti lanci di missili balistici iraniani.
Nel bel mezzo di una crisi della sua amministrazione ancora in ebollizione, tutt’altro che sopita con le dimissioni di Michael Flynn, Donald Trump non smette di stupire. L’ha difeso, mentre la Casa Bianca si era affannata a presentarle come un licenziamento. Continua a navigare in solitario. La struttura della Casa Bianca è debole e, quasi dilettantesca. Imparerà forse, ma non è né abituata né preparata allo scrutinio microscopico di cui è oggetto qualsiasi amministrazione. Non se la può più cavare con «fatti alternativi». Dipartimento di Stato e Pentagono hanno un titolare, ma sono indietro con tutte le altre nomine.
Imperterrito, il Presidente sembra avere le idee chiare di dove vuole arrivare, se non di come. Ha fatto dell’Iran il perno di una problematica alleanza in fieri che risolva anche il problema palestinese. Nel disegno c’è anche l’idea di staccare la Russia dall’Iran. 
Oggi il nuovo Segretario di Stato americano, Rex Tillerson, incontra il pilastro della diplomazia russa, Sergei Lavrov. Dovrebbe essere il primo passo per il rilancio del dialogo, ma le nubi si sono addensate sui cieli di Washington. Il critico rapporto russo-americano, che per decenni Casa Bianca e Cremlino avevano maneggiato con i guanti, si è invischiato nelle sabbie mobili della sicurezza e politica interna americana. Trump ha adesso più di uno scheletro russo nell’armadio e deve muoversi con i piedi di piombo.
L’incauto Flynn ha fatto da capro espiatorio. Tuttavia i veri responsabili sono i due leader: Vladimir Putin per l’ingerenza senza precedenti nelle vicende elettorali americane; Donald Trump per averla quasi incoraggiata e soprattutto per l’opacità della sua condotta verso Mosca durante la transizione. Mischiando politica estera con simpatie personali e connivenze elettorali i due Presidenti hanno complicato l’obiettivo di un riavvicinamento. Ma ci sono pochi dubbi che è quanto entrambi vorrebbero.
Donald Trump sta imprimendo più di un cambio direzione alla politica estera americana. Non è detto che avrà successo. Il Senato fa resistenza sulla Russia. Le indagini continueranno sulla «Russian connection». Mosca vuole un’intesa, ma non gli farà sconti. In Medio Oriente alleanze, inimicizie e rivalità sono sfuggenti e fluttuanti. Incerti nel risultato, i segnali di cambiamento da Washington sono però inequivocabili. 
Verrà anche il turno dell’Europa. Ieri, alla Nato, prima avvisaglia: messa in mora del Segretario alla Difesa Mattis sulle spese militari dell’Alleanza. A parte Theresa May, l’unica autorevole voce europea che si è fatta sentire a Washington è quella di Federica Mogherini. Brava, ma non basta. Rischiamo di arrivare in ritardo all’appuntamento con la rivoluzione Trump. Ci piaccia o no, dobbiamo prenderne le misure. 
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“Con Donald e Bibi si va alla catastrofe c’è il rischio apartheid per i palestinesi” L’INTERVISTA. JONATHAN SAFRAN FOER: “LA GOFFAGGINE DELL’AMERICA PUÒ PORTARE A UN NUOVO CONFLITTO”ANTONELLO GUERRERA Rep 16 2 2017
«LA politica di Netanyahu sulla questione israelo-palestinese è come un’automobile lanciata verso il burrone. Se continua così, come la recente legalizzazione degli insediamenti illegali da parte del Parlamento israeliano, sarà la catastrofe». Jonathan Safran Foer, uno dei massimi scrittori contemporanei americani, di famiglia ebraica, padre di Ogni cosa illuminata e l’ultimo Eccomi (Guanda), è oggi a Milano, dove alle 18.30 sarà all’anteprima della rassegna “Tempo di libri” al Piccolo Teatro Studio Melato. Ed è molto pessimista sul futuro di Israele e Medio Oriente.
Perché, Foer?
«Perché quella di Netanyahu è una strada totalmente sbagliata, figlia di una visione triste e deprimente. Si dovrebbero inseguire duri compromessi per la pace, invece si cercano soluzioni apparentemente facili ma distruttive. Di questo passo, Netanyahu metterà a repentaglio l’esistenza stessa di Israele».
Trump ha accennato ieri all’abbandono della soluzione a due stati per israeliani e palestinesi, rinnegando la decennale linea degli Stati Uniti. Lei cosa ne pensa?
«È un grave errore. L’unica soluzione sono i due stati. Israele deve fermarsi, tornare sui suoi passi e scendere a difficili compromessi».
E la soluzione di uno stato unico?
«Impossibile. La conseguenza più probabile di una scelta simile sarebbe una discriminazione tra i cittadini di serie A, gli israeliani, e quelli di serie B, i palestinesi. Sarebbe estremamente immorale. Altrimenti, Israele dovrebbe rinunciare all’essenza ebraica del suo Stato. Ma non è assolutamente plausibile: sarebbe la fine di Israele come la conosciamo, direbbe Jimmy Carter».
Anche sulla questione israeliana Trump non pare avere le idee molto chiare: ha invocato il trasferimento dell’ambasciata Usa a Gerusalemme, poi ha definito gli insediamenti israeliani illegali «una minaccia alla pace», oggi il dietrofront sui due stati.
«La goffaggine di Trump potrebbe scatenare in qualsiasi momento una guerra. E il potere americano nel mondo si sta erodendo. In passato ho sempre creduto che questa fosse una buona cosa, ma oggi non ne sono più sicuro: ci conviene lasciare spazio alle altre potenze? Merkel, l’unica leader razionale, ha la forza e la voglia di prendere il posto di Trump? Bisogna resistere».
E come si resiste a Trump?
«Impegnandosi ogni giorno, tutti: gli intellettuali devono continuare a illuminare le menti, i manifestanti a manifestare, i giudici a far rispettare la giustizia, i giornalisti a trovare notizie. Non bisogna cedere all’America che vuole Trump».
Lei nel concreto cosa fa?
«Oltre a manifestare in strada, sto scrivendo un lungo articolo sul tema e finanzio organizzazioni che si battono per democrazia e diritti. È il mio piccolo contributo».
Come giudica lo scandalo che ha coinvolto Flynn, il consigliere per la sicurezza di Trump, e i presunti “contatti frequenti” dello staff del presidente con la Russia?
«Sono cose che mi sconvolgono, come l’atteggiamento di Trump verso le minoranze e i giornalisti, tutti diritti per i quali abbiamo lottato per decenni e che ora rischiamo di perdere. Terrificante. Lo stesso Bannon, il suo consigliere principe, mi pare l’incarnazione del male. Ma mi chiedo: alla maggioranza della gente comune casi come quello di Flynn interessano? Temo di no. I disgustati di questo e altri disastri dell’amministrazione Trump mi sembrano la minoranza. Quanto sono influenti simili notizie nel mondo iperfulmineo di oggi? Quanto lo sono i media e i giornali, che si sono schierati quasi tutti contro Trump? Quanto lo sono vip e attori che lo hanno attaccato?».
Ma oggi cos’è influente allora?
«L’uomo forte. Anzi, l’uomo carismatico. Credo che in un certo senso Trump sia molto simile a Obama: entrambi sono venuti dal nulla, avevano pochissima esperienza ed erano considerati outsider destinati all’oblio. Ma entrambi sanno entusiasmare e usare le parole in modo straordinario, creando un movimento estremamente fedele come sostegno che difficilmente cambia idea su di loro. Oggi, più che mai, le elezioni sono una battaglia di personalità, e non di idee, purtroppo».
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ISRAELE E LO (STRANO) AMICO AMERICANO ROBERTO TOSCANO Rep 17 2 2017
IL “Donald Trump reality show” continua, e gli spettatori non possono di certo lamentare la mancanza di sorprese. Due giorni fa è stata la volta della visita a Washington di Netanyahu, iniziata con una conferenza stampa veramente bizzarra, e non solo perché si è tenuta prima e non dopo i colloqui. Gli organi di informazione di tutto il mondo hanno colto quello che senza dubbio era l’elemento di più clamorosa novità: l’abbandono da parte del presidente americano (espresso in chiave di agnosticismo: uno o due Stati «per me pari sono ») della linea dei due Stati come soluzione della questione israelo-palestinese. Una linea costantemente sostenuta da Washington sia sotto amministrazioni repubblicane che democratiche, e che — come ha subito ricordato il Segretario generale Guterres, l’Onu considera l’unica da perseguire.
Breaking news, senza dubbio. Ma chi ha seguito in televisione la conferenza stampa non poteva se non restare allibito per la totale incongruenza fra il significato della svolta, con le sue imprevedibili ma certo inquietanti ripercussioni, e il tono tra il leggero e il casuale di Trump. La risatina con cui Netanyahu ha reagito a quelle parole non è del tutto facile da interpretare, ma non è da escludere che sia stato il prodotto di una certa sorpresa per non dire imbarazzo.
Netanyahu infatti, consapevole che si tratterebbe di un passo dirompente, ha ripetutamente espresso scetticismo e riserve nei confronti della possibilità di uno Stato palestinese, ma ha sempre resistito alle pressioni in favore dell’esplicito rigetto dell’ipotesi di un futuro Stato palestinese da parte delle componenti più oltranziste della coalizione che lo sostiene. Non è da escludere che dietro il suo ostentato entusiasmo per l’arrivo di un caloroso amico alla Casa Bianca si nasconda una qualche preoccupazione sulla conduzione del tutto estemporanea e impreparata della politica estera da parte di Donald Trump. Un amico, fra l’altro, che prima esprime appoggio all’ampliamento dei settlement e promette il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, poi — nella stessa conferenza stampa — esorta Netanyahu a rallentare l’espansione delle colonie e lascia vago quando disporrà il trasferimento dell’ambasciata. Un amico piuttosto problematico, insomma, un sistematico destabilizzatore capace di mettere in movimento, con la sua improvvisazione e la sua incoerenza, dinamiche incontrollabili.
Per quanto riguarda il disegno dei due Stati, è vero che esso è rimasto vivo soltanto in astratto, anzi nella retorica. In Israele infatti hanno da tempo prevalso le forze che si oppongono all’abbandono dei territori occupati (un abbandono reso in ogni caso difficilmente realizzabile dalla presenza di 400 mila coloni israeliani), mentre la leadership palestinese è divisa fra moderati che hanno perso popolarità e credibilità e radicali che negano il diritto all’esistenza di Israele e credono di poter portare avanti il disegno della creazione di uno Stato palestinese con la guerriglia e il terrorismo. Il problema, come sempre in politica, risiede però nelle alternative. Se stiliamo il certificato di morte dell’idea di uno Stato palestinese, a cosa andiamo incontro? Quali sono le alternative?
Nessuno crede davvero all’accenno di Trump a un « global deal », una trattativa complessiva in cui svolgerebbero un ruolo i Paesi arabi. Fra l’altro la proposta araba esiste fin dal 2002 (Stato palestinese contro riconoscimento di Israele), ma non sembra che in Israele — né allora né oggi — esista la possibilità che essa venga presa come punto di partenza per una trattativa.
E allora? Qualcuno non manca di idee. Mercoledì il New York Times ha pubblicato un lungo intervento di Yishai Fleisher, portavoce del settlement di Hebron. Per la soluzione della questione, scrive, esistono varie opzioni, e le elenca: 1. Annessione della Cisgiordania, i cui abitanti verrebbero però considerati cittadini della Giordania; 2. Annessione del 60 per cento dei territori occupati — quelli a più alta presenza di settlement — con la concessione di uno status di autonomia (ma non indipendenza) al resto dei territori; 3. Annessione dei territori occupati con l’eccezione di sette emirati ( sic) palestinesi in corrispondenza con i principali centri abitati; 4. Annessione pura e semplice di tutti i territori; 5. Invito ai palestinesi ad emigrare volontariamente con “generosi incentivi”.
Si tratta di proposte veramente indecenti, a parte quella di uno Stato unico e democratico, che fra l’altro coincide con il punto di vista di numerosi democratici e pacifisti ebrei sia israeliani che americani e anche di qualche palestinese della diaspora.
Qui sorge però un problema che appare irrisolvibile: il sionismo non ha aspirato semplicemente alla costituzione di uno Stato dove gli ebrei potessero trovare rifugio e sicurezza, ma di uno Stato ebraico. Ma se i palestinesi diventassero tutti cittadini di Israele lo Stato sarebbe anche loro, e la cittadinanza, una cittadinanza a pieno titolo, non potrebbe essere legata a una religione. A meno di non volere immaginare una sistematica apartheid o una pulizia etnica dei palestinesi, abbandonare l’idea di uno Stato palestinese vorrebbe dire avviarsi verso la fine di uno Stato ebraico. Nel frattempo si è aggiunto un altro elemento alla confusione che caratterizza l’esordio dell’amministrazione Trump, la rappresentante degli Stati Uniti all’Onu ha detto: «Supportiamo la soluzione dei due Stati».
Forse sarebbe troppo chiedere a Trump di riflettere dopo essersi informato a fondo: non è il suo stile.
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