venerdì 3 febbraio 2017

Predrag Matvejević

























Spesso su posizioni politiche sbagliate, legate a una visione acritica del dirittumanismo, ma sincero [SGA].

Predrag Matvejevic, voce dal crogiolo

Magris Corriere della Sera 10 3 2017

Il testamento. «Salvati dalle parole». Con Matvejevic nella Zagabria feritaA un mese dalla morte, colloquio inedito con lo scrittore realizzato nel 1992, in piena guerra civile: il ruolo etico della scrittura nei Paesi dell’Est
Piero Del Giuduce giovedì 2 marzo 2017


Letteratura. Addio a Matvejević, voce del Mediterraneo
È morto a Zagabria lo scrittore celebre per il «Breviario Mediterraneo», narrazione geopolitica di scuola braudeliana per tutti i Paesi e tutte le isole del Mare Nostrum
Avvenire Piero Del Giudice giovedì 2 febbraio 2017

Le parole usate come ponti tra i popoli
Predrag Matvejevic. La scomparsa dello scrittore e autore del «Breviario Mediterraneo». La critica al socialismo reale e ai regimi nati sulle macerie macchiate di sangue della Jugoslavia. Da Mostar a Zagabria, Parigi, Roma sempre controcorrente. Una vita condotta tra esilio e asiloDunja Badnjevic Manifesto 3.2.2017, 22:41
L’ultima volta ho visto Predrag Matvejevic nel novembre scorso. Era in una clinica a Zagabria, sulla sedia a rotelle, ma ancora lucido e molto contento del nostro incontro. Teneva la mano della moglie Mira nella sua e parlava in italiano con il mio compagno. Cercavamo di ricordare i suoi anni romani. Era il mio testimone al matrimonio, ma soprattutto a Roma, all’università La Sapienza, aveva tenuto per quattordici anni la cattedra di letteratura jugoslava cercando di aiutare e indirizzare gli studenti che arrivavano dal nostro ex paese. Molti devono a lui l’inserimento e la comprensione della società italiana. Non era affatto apatico né si lamentava, bensì cosciente del suo ormai precario stato di salute. Aveva anche un aspetto migliore di quel che mi aspettavo conoscendo la sua situazione. In qualche modo a Zagabria, a casa sua, credo si sentisse sereno.
UNA VITA «TRA ESILIO E ASILO», come diceva, era stata la sua esistenza negli ultimi decenni subito dopo le prime avvisaglie del conflitto che avrebbe tolto dalla carta geografica il suo paese per sempre. Il paese dove lui si sentiva bene ovunque, a Zagabria come a Belgrado, a Ljubljana come a Sarajevo, e soprattutto nella sua nativa Mostar. A causa delle minacce quotidiane e delle lettere anonime nella cassetta postale, ha dovuto, dopo i colpi di rivoltella alla scritta con il suo nome, lasciare Zagabria dove era professore universitario per stabilirsi a Parigi nel 1991. Alla Sorbona ha insegnato Letterature comparate e scritto i suoi Il mondo ex e Le lettere dell’altra Europa. Si trasferisce a Roma tre anni dopo per rimanervi fino al 2008.
IL LIBRO PIÙ IMPORTANTE di Predrag Matvejevic è sicuramente Breviario mediterraneo, oggi tradotto in più di venti lingue e vincitore di numerosi premi, definito dallo stesso autore «un saggio poetico» e «un diario di bordo» e che Claudio Magris saluterà come un «libro geniale, fulminante, inatteso». Viene pubblicato nel 2003 L’altra Venezia, scritto in Italia e vincitore del premio Strega; l’ultimo è Pane nostro, del 2010. Nel frattempo Matvejevic riceve anche diverse onorificenze tra cui quella di Ufficiale della legione d’onore francese, Cavaliere dell’Ordine della stella della solidarietà italiana insieme alla cittadinanza onoraria e il titolo di Cavaliere delle Arti e delle Lettere di Spagna.
Tuttavia è L’epistolario dell’altra Europa il lavoro che a mio avviso descrive meglio il coraggio e la parte sempre molto combattiva e ribelle di Predrag. Perché lui era un grande combattente, sempre in soccorso degli ultimi.
Nel 1993 scrive lettere a Milosevic e Tudjman consigliando a entrambi il suicidio per il bene dei loro popoli. Ma ancora prima si era rivolto a Tito consigliandogli di dimettersi e pensare a un successore per il bene del paese. Ovviamente, tutti messaggi e suggerimenti inascoltati. Erano una critica serrata, dolente e vissuta del socialismo reale, la radiografia di quella temperie politica. Come si evince dalle lettere scritte a Havel, Sacharov, Solzenicin, Brodski, Kundera, per citare solo alcuni dei suoi interlocutori; in quelle righe vi erano chiarimenti ma anche appoggio agli intellettuali dell’Est perseguitati dai regimi totalitari.
MATVEJEVIC CI TENEVA a dirsi jugoslavo (era figlio di padre russo e di madre croata bosniaca) e soffriva per la «balcanizzazione» del suo paese. Nella guerra cui abbiamo assistito, non parteggiava per nessuno anche se riconosceva la maggiore tragedia subita dai musulmani. Nei Signori della guerra metteva insieme i tre «distruttori»: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic, eppure non tralasciava neanche le influenze esterne e del Vaticano. Come chiedeva di non parlare sempre di «quanti» clandestini sono approdati e «quanti» devono andarsene ma di gettare uno sguardo anche sui loro «fagotti», sapere cosa portano da quei paesi da dove sono stati costretti ad andarsene.
LA SITUAZIONE ATTUALE dell’Europa (si identificava alla fine come intellettuale europeo) lo faceva sentire sconfitto. Ormai, diceva, l’identità è precipitato nella «particolarità», un particolarismo – inteso come valore – molto dannoso. «Anche il cannibalismo rappresenta una particolarità ma non per questo è un valore! Nei paesi dell’Est dal socialismo di Stato si è passati alla democratura, una democrazia solo di nome mentre l’Europa ormai si sta jugoslavizzando. Il Mediterraneo che doveva diventare un ponte ormai è un mare di morti. L’Unione Europea non ha creato l’Europa unita. E dappertutto si erigono i muri a difesa delle nostre mere nazionalità. Il nazionalismo ha vinto ovunque: in Ungheria come in Bulgaria, in Polonia come in Romania. Molti ancora non si rendono conto. Un po’ come ballare sul Titanic con l’iceberg in agguato che non vogliamo vedere», scrive ne La storia non è una merce di scambio.
«Sono nato in un paese senza frontiere e poi le frontiere si sono costruite» diceva Predrag Matvejevic. Speriamo che non se ne sollevino molte altre.
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SCHEDA
Nato a Mostar nel 1932, Predrag Matvejevic ha accompagnato con un rigore etico la sua scrittura. Ha vissuto la sua giovinezza nella Jugoslavia nata dopo la seconda guerra mondiale. e a quella idea di presenza e convivenza tra «popoli» diversi è sempre rimasto fedele, anche se non ha mai lesinato critiche alla Jugoslavia «socialista» e ai regimi nati sulle sue ceneri macchiate del sangue provocato dalle guerre che hanno bussato le porte dell’Europa centrale. Il primo libro che lo fatto conoscere in Italia è stato «Breviario mediterraneo» (Garzanti). A seguire sono arrivati «Epistolario dell’altra Europa» (Garzanti), Sarajevo (Motta), «Ex Jugoslavia. Diario di una guerra» (Magma), «Mondo ex: confessioni» (Garzanti), «Golfo di Venezia», «Tra asilo e esilio» (Meltemi) , «Il Mediterraneo e l’Europa» (Garzanti), «I signori della guerra» (Garzanti), «Isolario Mediterraneo» (Motta), «Sul Danubio» (Le impronte degli uccelli), «Compendio di irriverenza» (Casagrande), «Un’Europa maledetta» (Baldini&Castoldi), «Padre Nostro» (Garzanti), «Confini e frontiere. Fantasmi che non abbiamo saputo seppellire» (Asterios).

L’amore per la lingua di Dante
Predrag Matvejevic. Un ricordo dello scrittore nato a Mostar e che ha vissuto, tra l'asilo e l'esilio, molti anni in Italia
Vi era ospitato da troppo tempo, ma è rimasto lucido fino all’ultimo, mi diceva ancora alcuni giorni fa sua moglie che io chiamavo due-tre volte la settimana.
Solo pochi giorni addietro, altri amici mi avevano chiamato dal’Italia per sapere come stesse Predrag, l’autore – fra una quarantina di altre opere – di quel Breviario mediterraneo che gli è valsa la candidatura al Premio Nobel per la letteratura, assegnata invece al cantautore americano Bob Dylan.
La candidatura di Predrag era stata promossa proprio dagli scrittori italiani, tra i quali Claudio Magris di Trieste, Fabio Fiori di Rimini e tanti altri dalle Alpi alla Sicilia.
Fabio, il marinaio scrittore riminese, mi scrisse il 16 gennaio. Nella ricorrenza del trentesimo anniversario dell’uscita del «Breviario» matvejeviciano, voleva presentare a Radio 3 con cui collabora un racconto telefonico su quel libro e su Predrag in generale. Gli risposi ricordando, e qui lo ripeto per chi ci legge, che il Breviario vide la luce a Zagabria nel giugno del 1987; la prima edizione in una lingua straniera delle ventitre finora uscite nel mondo, dalla Cina ai paesi arabi, apparve in italiano, a Milano, nello stesso anno.
Predrag scriveva infatti anche in italiano e francese, numerose opere sono state infatti pubblicate originariamente prima nella lingua di Dante e poi in croato! Predrag Matvejevic va pertanto considerato anche uno scrittore italiano. Lo voglio sottolineare oggi, nel giorno del dolore per la perdita dell’amico (che ha arriccchito non pochi miei libri con le sue prefazioni).
Ci incontrammo la prima volta nel lontano1955 a Fiume dove era stato mandato alla leva militare, e per la prima volta lo sentii parlare di amicizia con l’Italia nel momento in cui era ancora aspra la polemica per la «questione di Trieste». Da allora non abbiamo mai interrotto i contatti, la collaborazione, l’amicizia si è rafforzata via via anche per l’affinità delle idee, fino a trasformarci in fratelli. Con la sua fine ho perso un compagno fraterno.
Che dire ancora di fronte alla scomparsa dell’ uomo che per tutta la vita si è battuto contro le dittature e le« democrature», contro i seminatori d’odio, contro i «talebani» del suo e di altri paesi, che ha sempre cercato di costruire ponti di pace, di coesistenza e collaborazione, soprattutto con le culture italiana e francese?
Ricordo che Predrag ha vissuto per lunghi anni in Italia, insegnando alla Sapienza di Roma; era diventato cittadino italiano per i tanti suoi meriti acquisiti nella costruzione degli scambi culturali fra i due paesi che si specchiano nel comune mare Adriatico.
Era arrivato in Italia per sfuggire all’odio di coloro che, non perdonandogli di essere figlio di un cristiano ortodosso russo e di una cattolica bosniaca di Mostar, spararono una raffica sulla sua porta di casa nel cuore di Zagabria. Scelse allora l’Italia e una vita tra asilo ed esilio.
Tornato in patria parecchi anni dopo la fine della guerra cosiddetta «patriottica», ha vissuto il resto della vita isolato. L’odio che aveva acceso la guerra non era mai sparito nella ex Jugoslavia. Viene rinfocolato anche oggi, ed ha finito per consumarlo lentamente.

Matvejevic, la coscienza d’Europa in mezzo al MediterraneoLa triste fine dello scrittore croato in un cronicario di Zagabria, a 84 anni Aveva denunciato il dramma dei migranti e i rischi della “democratura”Mario Baudino  Busiarda 3 2 2017
«Sul Mediterraneo ho navigato con gli equipaggi e con compagni di viaggio; ho percorso i fiumi e le loro foci in solitudine» scriveva Predrag Matvejevic nelle ultime righe di Mediterraneo, uno dei libri che più rappresentano, fra storia e cultura, la coscienza europea in un’Europa sempre più senza coscienza. Ora in altrettanta solitudine se n’è andato, morto in un cronicario di Zagabria dove era ricoverato da due anni. A nulla è valso l’appello firmato da moltissimi intellettuali, italiani e non solo, per denunciare la sua situazione, per strapparlo in qualche modo al tristissimo declino.
La seconda moglie, Mira, ha rifiutato ogni richiesta di trasferimento, anche quelle del dottor Petar Cokorilo, un cugino medico residente a Stoccolma, che aveva dato a sua volta l’allarme per i pericoli rappresentati dalle cure a base di pesanti psicofarmaci, e chiesto di poterlo trasferire in Svezia. Il professor Nicolò Carnimeo, suo grande amico, lo ha incontrato ancora nel novembre scorso: era lucido, anche se debole e affranto. Aveva ormai alle spalle un calvario - pare che non gli venisse neppure concesso di leggere e scrivere quanto desiderava - iniziato due anni fa, quando fu colpito da una sorta di collasso psichico, ricoverato e poi avviato senza che potesse reagire allo squallido cronicario Domgodan. «Questa è l’ultima volta che ci vediamo» fu il saluto. Aveva ragione.
Nato a Mostar nel ’32, Predrag Matvejevic ha attraversato il Secolo breve con l’occhio critico e partecipe di chi non è solo testimone, ma anche protagonista. Breviario mediterraneo, pubblicato in croato nel 1987 e tradotto da noi nel ’91, è la traccia di tutto questo, un libro, come scrisse Claudio Magris, «fulminante e inatteso». Attraverso di lui, che si era sempre battuto per e con gli intellettuali dissidenti, l’Europa dell’Est riannodava i fili spezzati dalla cortina di ferro.
La definizione migliore del suo lavoro è proprio nell’appello, dove si chiedeva per lui un Nobel che avrebbe significato molto, e se ne esaltava la «concezione poetica altissima, che fonde la capacità di sentire con quella di capire i luoghi e le genti della sua Europa». «Ha elaborato - leggiamo ancora - la teoria della “geopoetica”, intendendo che sono i luoghi, sedimentando storia e sentimenti di tanti popoli, che emanano poesia; i poeti non la creano, quindi, ma semplicemente, con la loro maggiore sensibilità, la colgono e la “traducono” con i loro versi, mettendola a disposizione degli altri».
Ha insegnato a Zagabria, alla Sorbonne di Parigi e alla Sapienza di Roma; gli era stata conferita (dal Presidente Scalfaro) la cittadinanza italiana onoraria, e in Francia la Legion d’onore. Era un uomo mite e sorridente, senza asprezze, che però non rinunciava mai a posizioni anche impopolari. Lo testimoniano tutti i suoi libri (editi da Garzanti), da Epistolario dell’altra Europa a Mondo Ex: confessioni, a Tra asilo ed esilio che affrontò tra i primi il dramma delle grandi migrazioni; e persino, nel 2005, la condanna del tribunale di Zagabria (cinque mesi) per aver definito «i nostri talebani» alcuni scrittori del suo Paese.
Quanto all’Est, metteva talvolta profeticamente in guardia contro i rischi della «democratura», ossia una democrazia formale gravata dal retaggio totalitario del passato. Ne scrisse anche per il nostro giornale, con cui ha collaborato. «Sono un intellettuale laico», amava dire di sé. Pane nostro (del 2010) è il suo ultimo lavoro, un grande saggio di storia materiale e culturale della nostra civiltà, ma anche una sorta di manifesto della condivisione. E chissà, anche una preghiera laica.
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Addio a Matvejevic poeta della convivenza nel MediterraneoAveva 84 anni Nato a Mostar, fece del confronto tra i popoli il tema delle sue opereWLODEK GOLDKORN Rep 3 2 2017
È stato nemico di ogni nazionalismo e di ogni esaltazione dell’appartenenza etnica. La parola identità la declinava al plurale, per sottolineare che tutte le persone hanno più appartenenze e l’unica lealtà dovuta è quella a difesa dei valori universali e umanistici. Predrag Matvejevic, morto ieri a Zagabria, di identità e appartenenze ne aveva molteplici. Era nato, nel 1932 a Mostar, una città jugoslava, oggi in Bosnia, abitata da cattolici croati e bosniaci musulmani e divisa, o forse unita, da un antico ponte, che venne fatto saltare in aria il 9 novembre 1993 dagli ustascia, i fascisti croati. Il padre di Matvejevic è stato un russo, nato a Odessa, città plurinazionale, plurireligiosa, sul Mar Nero, contesa tra Russia e Ucraina, e che agli occhi dello stesso scrittore assomigliava a Genova e Marsiglia. La madre invece era una croata, cattolica devota. Il nonno e uno zio di Matvejevic sono stati prigionieri del gulag sovietico; il padre la prigionia la subì invece, durante la seconda guerra mondiale, nella Germania nazista. Tornato a casa, non parlò al giovane Predrag di vendetta, ma anzi, gli raccontò, come un giorno, un pastore evangelico lo invitò a casa, gli diede da mangiare, gli offrì un bicchiere di vino. Predrag, si sentì a quel punto in dovere di offrire, a sua volta, un tozzo di pane a un prigioniero di guerra tedesco.
E lui, stesso chi era? Era nostalgico della Jugoslavia di Tito Matvejevic? Della Jugoslavia, probabilmente sì. Di Tito un po’ meno. Da giovane aveva aderito alla Lega dei comunisti. Ma, nel 1974, venne espulso dal partito. La colpa: aver scritto una lettera, a Tito, in cui lo esortava a preparare la successione, a non lasciare che la Jugoslavia andasse a pezzi. Dissidente, Matvejevic è rimasto per il resto della sua vita. Quando la Jugoslavia cominciò a disgregarsi davvero, e i discorsi sulla guerra e sulla “pulizia etnica” li facevano leader e forze che si richiamavano alla democrazia, coniò il neologismo “democratura”. La parola ebbe tanto successo, che oggi viene adoperata per parlare del regime di Putin in Russia. Nemico del nazionalismo anche di quello “suo” croato, nel 1991 dovette andarsene dal Paese. Esperto di letteratura francese, approdò alla Sorbona. Nel 1994, si trasferì a Roma, insegnò slavistica a La Sapienza, dopo 18 anni di esilio tornò in Croazia. Nel frattempo, subì una condanna a cinque mesi di prigione (la pena non fu mai eseguita), per aver scritto parole che un poeta locale considerò ingiuriose nei confronti della nazione.
Per Matvejevic la vera patria era il Mediterraneo. Il suo libro più importante è stato Breviario mediterraneo, (Garzanti), tradotto in 23 lingue. Vi si susseguono racconti su persone incontrate e leggendarie, analisi sulle origini delle parole, narrazioni su modi di preparare il cibo e sui nomi delle pietanze e degli oggetti, annotazioni geografiche, considerazioni sulla forma delle isole e sulla particolarità delle capitanerie di porto. Matvejevic spiega che i confini del Mediterraneo non sono determinati dallo spazio, e che quindi hanno qualcosa di mitico e immaginario; ma poi mette in guardia dalle troppo facili illusioni sulla presunta somiglianza delle persone e dei popoli. Il Mediterraneo è fascinoso perché contraddittorio e inafferabile per chi voglia classificare l’umanità e la natura a seconda delle rigide categorie. In questo senso il libro è una critica radicale della modernità, che come ha insegnato Bauman, ama la gerarchia, l’esclusione e l’eliminazione di tutto quello che disturba l’ordine prestabilito.
Matvejevic nutriva una certa diffidenza nei confronti di teorie filosofiche complicate. Contrapponeva quella che chiamava “l’identità dell’essere” a “l’identità del fare”. Siamo quello che facciamo. Per questo ha scritto Pane nostro, in cui raccontava come e perché il pane fosse al contempo un oggetto sacro da venerare e un profano saper fare il cibo. Ma pane significa anche, per una persona segnata nella storia familiare dai totalitarismi del Novecento, morire di fame: così morì suo zio, in un lager sovietico.
Negli anni della guerra balcanica Matvejevic rifletteva sulla follia dei politici; sul fatto che i padri dei leader serbi fossero suicidi. Tornato in Croazia, da Zagabria, seguiva con un certo scetticismo l’integrazione del Paese in Europa. Due anni fa, già malato, pubblicò un libro Granice i sudbine (“Confini e destini”). E in un’intervista a un giornalista croato spiegava come l’idea stessa della Jugoslavia fosse un’invenzione ottocentesca intelligente perché rendeva possibile la vita in uno spazio come i Balcani diviso tra diverse fedi, tradizioni. Diceva: certo, non ci sarà più la vecchia Jugoslavia, ma una cooperazione tra i nostri popoli è indispensabile. Per arrivare a questo, basterebbe, suggeriva, capire che le nostre memorie sono divise e spesso contrapposte. Ma il passato, se compreso ed elaborato, non impedisce di costruire un futuro comune.
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Predrag Matvejevic, socialismo dionisiaco
Intervista. Un esclusivo e inedito incontro con lo scrittore che nel 2001 raccontava la scuola di Curzola, luogo di incontro della sinistra internazionaleLuka Bogdanić Manifesto Alias 11.2.2017, 1:22
Quando nel 2000 mi sono per la prima volta avvicinato allo studio della storia della rivista filosofica jugoslava Praxis, non c’erano molti documenti e archivi a disposizione e gli studi sull’argomento erano rari. Il ricordo delle recenti guerre che avevano cancellato dalle mappe la Jugoslavia socialista era ancora molto vivo e parlare di quel paese e del marxismo non era proprio di moda.
Erano gli stessi anni in cui viveva a Roma, tra asilo ed esilio, Predrag Matvejević, che fece parte del Comitato organizzativo della Scuola di Curzola, il palco internazionale di quella rivista e il luogo dove avveniva il dialogo tra le varie anime delle sinistre di un mondo diviso dalla Guerra fredda e dai muri. Animato dalla volontà di capire di più di quella stagione della storia culturale della Jugoslavia, nell’ormai lontano 2001, provvisto di un registratore per cassette (all’epoca si faceva cosi), in un caldo luglio romano, catturai alcuni suoi ricordi e riflessioni di quegli anni.
Partita dalla Scuola estiva di Curzola, quella intervista si è trasformata in molto di più, una visione personale dello scrittore su alcune esperienze significative della sua vita e del paese in cui aveva vissuto. Non è un resoconto pignolo dei fatti, ma piuttosto una loro interpretazione. Questo è il suo pregio, anche se qualche storico potrebbe pensare diversamente.
In ricordo di questa personalità straordinaria, convito che la vita si conservi nel pensiero e nella parola, propongo un estratto di quel suo racconto/ricordo del mondo di ieri.
D: Quali sono stati i suoi primi contatti con i filosofi e gli intellettuali della rivista Praxis?
R: Quando la rivista Praxis iniziò a uscire alla metà degli anni Sessanta io ero ancora in Francia. Il mio avvicinamento ai filosofi praxisti risale al 1968. Ero da poco tornato a Zagabria poiché nel dicembre del 1967 avevo discusso il dottorato alla Sorbonne e da ricercatore ero diventato docente all’Università di Zagabria. A maggio, e più tardi nel giugno del ‘68, la rivolta studentesca parigina si espanse in molte città europee, tra le quali anche Belgrado e Zagabria. Mi ricordo che nei primi giorni di quel giugno ci siamo radunati nel Centro studentesco. Le manifestazioni erano già iniziate a Belgrado e la polizia ci sorvegliava. Poiché avevo vissuto a Parigi ed ero stato testimone del clima culturale che aveva preceduto il maggio francese, gli studenti di Zagabria mi chiesero di parlare. Fui tra quelli che suggerirono di far intervenire in quell’occasione anche Gajo Petrovi, capo redattore della rivista Praxis e Mladen Čaldarović, uno dei membri della redazione. Il discorso che tenni quel giorno uscì sulla rivista Razlog con il titolo Cosa hanno in comune i movimenti studenteschi in Europa. Seguendo le sorti del testo del programma d’azione degli studenti di Belgrado, quel mio contributo venne proibito. Confesso che non ho mai compreso perché fu vietato, poiché in esso non c’era nulla di veramente sovversivo. Questo fu il mio primo contato diretto, in qualche modo “intimo”, con i compagni della rivista Praxis.
D: Che seguito hanno avuto questi primi contatti?
R: Dopo quei fatti il collega Branko Bošnjak, membro della redazione della rivista Praxis, mi chiese di far parte del Comitato direttivo della Scuola di Curzola.
D: Se lo aspettava questo invito?
R: Sinceramente no, per due ragioni. In primo luogo mi ritenevo ancora troppo giovane e poi loro erano filosofi, mentre la mia formazione era letteraria. Credo che Bošnjak abbia contato sul fatto che le mie relazioni con l’Inteligencija francese potessero essere utili alla Scuola, anche perché a quel tempo collaboravo con alcuni giornali francesi e in particolare con il supplemento letterario di Le Monde.
D: Cosa hanno rappresentato per lei i filosofi della rivista Praxis?
R: Sono stato solo un membro del Comitato direttivo della Scuola e non della redazione della rivista. Non scrivevo per Praxis in quanto non mi sentivo un filosofo e vedevo questa saggistica filosofica come un pericolo per la letteratura. Comunque, la stagione della Scuola estiva rappresentò per me un periodo di maturazione. Fu il mio apprendistato, anche se non ho avuto un maestro in particolare. Mi trovai fra intellettuali che cercavano come me di pensare ad un socialismo dal volto umano da contrapporre al socialismo reale.
D: Quando andò la prima volta a Curzola?
R: Partecipai alla Scuola di Curzola per la prima volta nell’estate del 1968. Esisteva già da qualche anno, ma quella volta eravamo davvero in tanti. Quell’estate venne Herbert Marcuse che era al massimo della fama, in qualche modo era un mito del movimento studentesco. Curzola fu il primo posto in cui venne dopo il ‘68 parigino, prima ancora di qualsiasi altro in Francia. Fu una bellissima esperienza, ero giovane e da poco docente, avevo un’auto con la quale aiutavo colleghi e compagni più anziani nell’organizzazione e ogni tanto facevo traduzioni. Ricordo che tra noi c’erano Ernst Bloch, Henry Lefebvre con i suoi studenti di Nanterre, Erich Fromm che chiamavamo “l’Europeo d’America”, Jürgen Habermas che cercava ancora la sua strada, Lucien Goldmann, Kosta Axelos, Jean-Michel Palmier, Mario Spinella, Enzo Paci, Lelio Basso e tantissimi altri. Venivano anche i compagni dell’Istituto Gramsci e tantissimi studenti da ogni dove. In quei giorni avvenne l’occupazione di Praga e durante quei fatti si vide l’ingenuità di Dubček e si capì come Tito nel 1948 fosse stato molto più astuto di Dubček e di Imre Nagy nel 1956. Nessuno nel movimento comunista vedeva in Dubček un controrivoluzionario. L’entrata a Praga delle truppe del patto di Varsavia creò un grande scompiglio e molti dei comunisti espressero le loro riserve verso la politica dell’Unione Sovietica. Tutti eravamo sconvolti e per reagire decidemmo di scrivere delle lettere di contestazione. Bisogna ammettere che il governo jugoslavo permise a tutti quelli che volevano lasciare la Cecoslovacchia di venire e rimanere in Jugoslavia. Anche noi, da parte nostra, abbiamo fatto di tutto per aiutare i colleghi cecoslovacchi a rimanere nel nostro paese o di andare altrove liberamente. Questa fu la mia prima esperienza a Curzola e da allora andai ogni estate fino al 1974, quando la Scuola fu chiusa.
D: Cosa ricorda come una particolarità di quella Scuola in quegli anni?
R: La cosa più importante erano i dibattiti molto liberi come anche gli scontri fortissimi tra opinioni diverse. Non a caso di Curzola si parlava come di un luogo del “socialismo dionisiaco”. Ero spesso assieme ai trotzkisti, tra cui c’era Ernest Mandel, che era la guida del gruppo. Ricordo delle sue critiche totali e violente. Anche gli anarchici venivano in gran numero e tra questi c’era Daniel Guérin. Per molti, educati nel moralismo staliniano, era una sorpresa vedere come Guérin non nascondesse la sua omosessualità. Dato che parlavo francese, ho avuto occasione di tradurre le sue relazioni e ricordo che in quegli stessi anni furono tradotti a Zagabria i suoi scritti.
D: Perché oggi sembra che di tutti quegli sforzi non è rimasto nulla?
R: In primo luogo bisogna considerare che questa guerra è stata una grande tragedia, che ha esaurito, disunito e disarmato le forze intellettuali del paese. Il discorso nazionalista appariva già molto forte negli anni Ottanta, così sono riusciti a dividerci. Dopo la morte di Tito, ma anche negli ultimi decenni della sua vita, il partito era diventato un’organizzazione impotente, senza fini, disunita e nazionalizzata. Tutto questo poi va inquadrato all’interno della crisi che il movimento socialista internazionale stava vivendo e del fallimento dell’Urss, che diventava sempre più palese. Invece di trovare una nuova via noi siamo tornati ai vecchi nazionalismi. Purtroppo anche la parziale realizzazione dell’autogestione ha aiutato il nazionalismo. Io sono stato un difensore dell’autogestione, ma ritengo che bisogna distinguere due livelli, quello che gli inglesi chiamano Self-management (gestione della fabbrica) dal Self-government. In Jugoslavia si è dato vita ad un Self-government, e questo ha dato un apporto positivo all’affermazione delle identità, ma alla fine le ha spinte verso le vecchie ideologie nazionaliste che si sono fatte guerra.
D: Cosa rimane oggi del marxismo umanista della rivista Praxis?
R: Rimane un ricordo importante, uno tra i capitoli più belli della storia dell’Europa dell’Est e della ex Jugoslavia. Le amnesie sono di regola negative, per questo bisogna cercare di non dimenticare.

Foibe, la dignità di un dolore corale Intervista. Polemiche tendenziose ripetute ogni anno su un crimine che in realtà ebbe inizio nel 1920 Tommaso Di Francesco Manifesto Alias 11.2.2017, 22:35
“Certo che bisogna tornare sulle foibe, ogni volta, ogni anno”. A dieci anni esatti dall’istituzione del Giorno del Ricordo, il bilancio di Predrag Matvejevic è ancora una volta critico e insiste a “ricordare tutti i ricordi”. Nel 2004 un’iniziativa revisionista storica della destra post-fascista, riciclata e diventata di governo ed elettoralmente candidabile grazie a Silvio Berlusconi, portò a buon fine la sua battaglia negazionista del passato di crimini italiani nell’ex Jugoslavia. Centrando l’obiettivo di ridurre la prospettiva all’ultimo, infausto periodo, delle responsabilità slave. A questo punto di vista tutto l’arco costituzionale s’inchinò. Favorendo negli anni processi cosiddetti culturali – fiction, cerimonie, opere teatrali – di rimozione della verità storica. Su questo abbiamo voluto ancora una volta ascoltare per i lettori del manifesto il grande scrittore dell’asilo e dell’esilio, l’autore di Breviario mediterraneo – per citare solo una delle sue opere – che ama ancora definirsi jugoslavo. “A proposito di storia, che vergogna che qui, in Croazia, la Chiesa che ha così gravi responsabilità nella connivenza con il nazifascismo e con l’ideologia ustascia, abbia praticamente disertato due settimane fa le celebrazioni del Giorno della Memoria” ci dichiara subito Predrag Marvejevic.
D. Sono passati dieci anni dall’istituzione di questa Giornata da parte delle istituzioni italiane, che ha sempre visto la protesta dei nostri storici democratici. Che bilancio va fatto?
R. Intanto che non bisogna smettere di raccontare la verità. André Gide diceva: “Bisogna ripetere…nessuno ascolta”. Ognuno, soprattutto in questa epoca sembra chiuso nella propria sordità. Il bilancio non è positivo, se a celebrare il Giorno della memoria alla Risiera di San Sabba, il lager nazista al confine tra due popoli, accorrono anche post-fascisti abili a cancellare i crimini del fascismo italiano nelle terre slave. E ogni anno abbondano fiction e rappresentazioni che invece di raccontare il pathos collettivo che riguarda almeno due popoli, riducono tutto, nella forma e nei contenuti, alla sola tragedia delle vittime italiane. Ho scritto sulle vittime delle foibe anni fa in ex Jugoslavia, quando se ne parlava poco in Italia. Ero criticato. Ho avuto modo di sostenere gli esuli italiani dell’Istria e della Dalmazia (detti “esodati”). L’ho fatto prima e dopo aver lasciato il mio paese natio e scelto, a Roma, una via “fra asilo ed esilio”. Continuo anche ora che sono ritornato a Zagabria. Condivido il cordoglio italiano, nazionale e umano, per le vittime innocenti. Credevo comunque che le polemiche su questa tragedia, spesso unilaterali e tendenziose, fossero finite. Invece si ripetono ogni anno, sempre più strumentalizzate.
D. C’è qualche episodio particolare di strumentalizzazione che ricorda?
R. Voglio ricordare il caso del 2008 dello scrittore di confine, il grande Boris Pahor. Ecco uno scrittore che ha fatto della coralità del dolore la sua materia, e infatti ha raccontato la tragedia dei crimini commessi dai fascisti in terra slava e il lascito di odio rimasto. Di fronte all’onorificenza che nel gli offriva il presidente della repubblica Giorgio Napolitano, insorse dichiarando che avrebbe detto no, l’avrebbe rifiutata, se dalla presidenza italiana non arrivava una chiara presa di posizione contro i silenzi sugli eccidi perpetrati da Mussolini.
D. Che cosa fu in realtà il crimine delle Foibe?
R. Sì, le foibe sono un crimine grave. Sì, la stragrande maggioranza di queste vittime furono proprio gli italiani. Ma per la dignità di un dolore corale bisogna dire che questo delitto è stato preparato e anticipato anche da altri, che non sono sempre meno colpevoli degli esecutori dell’ “infoibamento”.
La tragica vicenda è infatti cominciata prima, non lontano dai luoghi dove sono stati poi compiuti quei crimini atroci. Il 20 settembre 1920 Mussolini tiene un discorso a Pola (non certo casuale la scelta della località). E dichiara: “Per realizzare il sogno mediterraneo bisogna che l’Adriatico, che è un nostro golfo, sia in mani nostre; di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara”. Ecco come entra in scena il razzismo, accompagnato dalla “pulizia etnica”. Gli slavi perdono il diritto che prima, al tempo dell’Austria, avevano, di servirsi della loro lingua nella scuola e sulla stampa, il diritto della predica in chiesa e persino quello della scritta sulla lapide nei cimiteri. Si cambiano massicciamente i loro nomi, si cancellano le origini, si emigra…
Ed è appunto in un contesto del genere che si sente pronunciare, forse per la prima volta, la minaccia della “foiba”. E’ il ministro fascista dei Lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si era affibbiato da solo il nome vittorioso di “Giulio Italico”, a scrivere già nel 1927: “La musa istriana ha chiamato Foiba degno posto di sepoltura per chi nella provincia d’Istria minaccia le caratteristiche nazionali dell’Istria” (da “Gerarchia”, IX, 1927). Affermazione alla quale lo stesso ministro aggiungerà anche i versi di una canzonetta dialettale già in giro: “A Pola xe l’Arena, La Foiba xe a Pisin”, che ha fatto bene a ricordare su Il Manifesto nei giorni scorsi Giacomo Scotti nel suo saggio.
Le foibe sono dunque un’invenzione fascista. E dalla teoria si è passati alla pratica. L’ebreo Raffaello Camerini, che si trovava ai “lavori coatti” in questa zona durante la seconda guerra mondiale ha testimoniato nel giornale triestino Il Piccolo (5. XI. 2001): “Sono stati i fascisti, i primi che hanno scoperto le foibe ove far sparire i loro avversari”. La vicenda “con esito letale per tutti” che racconta questo testimone, cittadino italiano, fa venire brividi.
D. Come è vissuto il Giorno del Ricordo nell’ex Jugoslavia, quali “ricordi” reali va a risvegliare?
R. La storia (con la S maiuscola) potrebbe aggiungere alcuni altri dati poco conosciuti in Italia. Uno dei peggiori criminali dei Balcani è certamente il duce (poglavnik) degli ustascia croati Ante Pavelic. E il campo di Jasenovac è stato una Auschwitz in formato ridotto, con la differenza che lì il lavoro micidiale veniva fatto “a mano”, mentre i nazisti lo facevano in modo “industriale”. Aggiungiamo che quello stesso criminale Pavelic con la scorta dei suoi più abietti seguaci, poté godere negli anni trenta dell’ospitalità mussoliniana a Lipari, dove ricevevano aiuto e corsi di addestramento dai più rodati squadristi.
Le “camicie nere” hanno eseguito numerose fucilazioni di massa e di singoli individui. Tutta una gioventù ne rimase falciata in Dalmazia, in Slovenia, in Montenegro. A ciò bisogna aggiungere una catena di campi di concentramento, di varia dimensione, dall’isoletta di Mamula all’estremo sud dell’Adriatico, fino ad Arbe, di fronte a Fiume. Spesso si transitava in questi luoghi per raggiungere la risiera di San Sabba a Trieste e, in certi casi, si finiva anche ad Auschwitz e soprattutto a Dachau.
I partigiani non erano protetti in nessun paese dalla Convenzione di Ginevra e pertanto i prigionieri venivano immediatamente sterminati come cani. E così molti giunsero alla fine delle guerra accaniti: “infoibarono” gli innocenti, non solo d’origine italiana. Singole persone esacerbate, di quelle che avevano perduto la famiglia e la casa, i fratelli e i compagni, eseguirono i crimini in prima persona e per proprio conto. La Jugoslavia di Tito non voleva che se ne parlasse. Abbiamo comunque cercato di parlarne. Purtroppo, oggi ne parlano a loro modo soprattutto i nostri ultra-nazionalisti, una specie di “neo-missini” slavi.
Ho sempre pensato che non bisognerebbe costruire i futuri rapporti in questa zona sui cadaveri seminati dagli uni e dagli altri, bensì su altre esperienze. Ad esempio culturali…Per questo auspico la proclamazione congiunta de “Il giorno dei ricordi”. E questo mi sembra il nuovo intendimento che emerge e per i quale dobbiamo batterci.
(riproponiamo questa intervista ancora di grande attualità in questi giorni, pubblicata sul manifesto solo tre anni fa, il 9 febbraio 2014)

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