venerdì 3 febbraio 2017

Quasi 30 anni di maggioritario e un proporzionale virtuale e senza partiti


 Quasi 30 anni di maggioritario hanno devastato i partiti politici, che già non se la passavano particolarmente bene. Adesso abbiamo un accenno di proporzionale che non solo è virtuale (la spinta alle coalizioni crescerà in relazione all'altezza degli sbarramenti), ma è soprattutto privo di quelle forme fondamentali di auto-organizzazione e partecipazione delle classi sociali che sono indispensabili al suo funzionamento.
Tutte le forze politiche rimangono sigle in franchising e comitati elettorali in perpetua competizione interna e privi di programma e autonomia. Nessuna di esse ha una proposta condivisa e sensata su ciascuna delle questioni fondamentali, dall'Europa alle migrazioni, dal rapporto capitale-lavoro all'ambiente.
E' anche a partire da questo contesto che va spiegata la natura del Movimento 5 Stelle, nel suo incrocio tra un progetto nazionale privo di storia e cultura, che cavalca la crisi della piccola borghesia per promuovere un ricambio delle élites, e una costitutiva debolezza con conseguente scalabilità strutturale nelle diverse realtà locali.
Va oltretutto detto che i suoi adepti sono mediamente così mentecatti che si infiltrano da soli.
Quanto al già famigerato ma non meno virtuale partito di D'Alema, che ha già attirato gli appetiti di chi cerca poltrona soffocando sul nascere ogni vagito di autonomia, mi sembrano assai verosimili le stime di chi prevede una cosa tra il 2 e il 4%.
In queste condizioni i riaggiustamenti tecnici non cambiano nulla: i 20 anni di lavoro di radicamento che è possibile prevedere prima che possa rinascere una sinistra in Italia sono già diventati 30. [SGA].






Corriere della Sera


Il corto circuito tra politica e istituzioni

La pronuncia della Corte costituzionale non ha sciolto i nodi politici, ma ha certamente aperto una fase nuova passando la palla alle forze in parlamento. E mentre è vero per i giuristi che la lettura di una sentenza richiede le motivazioni, così non è necessariamente per i politici. Per quel che serve, il risultato è già definito: no al ballottaggio, sì al premio con soglia e ai capilista bloccati. Dei tre elementi essenziali dell’Italicum, solo uno cade. Si discuterà molto della continuità della pronuncia sull’Italicum rispetto alla sentenza 1/2014 sul Porcellum. Ma conta che con la normativa di risulta il disegno politico-istituzionale di Renzi – concentrazione del potere sul leader e sull’esecutivo, asservimento delle assemblee elettive, riduzione degli spazi di partecipazione democratica – è intaccato ma non cancellato. La disproporzionalità possibile tra voti e seggi rimane molto – troppo – alta. E il voto bloccato sui capilista può comunque produrre l’effetto che i deputati siano in gran parte sottratti alla scelta degli elettori.

In queste ore traspaiono i calcoli di convenienza delle forze politiche. Renzi ha immediatamente assunto come obiettivo primario il 40% e il premio conseguente. Lo stesso Grillo, per M5S. Ma anche la Lega guarda con interesse al premio con soglia, come strumento di potere contrattuale verso Forza Italia. Lo stesso vale per quella parte della sinistra fuori del Pd che considera inevitabile muoversi insieme al Pd in una prospettiva di governo. E possiamo anche aggiungere quelli che nel Pd alzano i toni contro il segretario. È dubbio che – ad oggi – ci siano in parlamento i numeri per cancellare il premio, o per innalzare la soglia sopra il 40%. Quanto ai capilista bloccati, nessuno può dirlo in chiaro, ma a molti non dispiace affatto che siano sopravvissuti.

Tutto questo spiega l’accordo raggiunto alla Camera tra Pd, M5S, Lega e FdI per iniziare il 27 febbraio le danze, con l’intenzione di estendere il Consultellum camera al senato e minimi aggiustamenti. Un accordo che poi Grillo ha denunciato, avendo capito – magari un po’ in ritardo – che a M5S, per le sue peculiarità, i capilista bloccati non interessano. E che le ultime convulse ore forse hanno già superato.

Politica e istituzioni sono entrate in un corto circuito dal quale faticano a uscire. Il parlamento delegittimato una prima volta nel 2014, e nuovamente delegittimato nel 2017 perché recidivo nella volontà di forzare gli argini costituzionali, è ancora chiamato a scrivere con la legge elettorale la più alta regola della democrazia. Come può cogliere il senso del voto referendario del 4 dicembre, che è stato soprattutto il rigetto di un modo arrogante e chiuso all’ascolto di esercitare il potere, di ridurre il governo al comando? È proprio questa filosofia del governare che può alla fine trovarsi confermata se si accetta la normativa di risulta per la camera così com’è, magari estendendola al senato. A questo obiettivo punta Renzi quando chiede il voto subito, con argomenti collaterali quali lo slittamento dei referendum Cgil, e il voto prima di una legge di stabilità che quest’anno si preannuncia dura. Cresce la fronda nel Pd, e persino un ministro prende posizione contro il voto subito.

Ma il disegno in campo si contrasta davvero in altro modo: costruendo a sinistra un progetto politico alternativo rispetto a quello portato avanti, e in parte realizzato, dagli ultimi governi. Un progetto che dia una nuova centralità ai diritti e ai bisogni della persona, come la Costituzione vuole, sul quale far convergere tutta la sinistra degna di questo nome e quella parte del paese che si è riaccostata all’impegno civile con il voto del 4 dicembre. Un progetto che sia competitivo nel paese, qualunque sia la regola elettorale che alla fine si sceglierà.

Per un progetto e una sinistra di tal genere è utile una robusta correzione in chiave proporzionale della normativa di risulta. Non basta ad escluderla il trito argomento della governabilità, come ha argomentato Floridia su queste pagine. Se tale fosse l’esito della confusione di oggi, avremmo ritrovato – quale che fosse la data del voto – un paese civile che pensavamo di avere perduto.


“Sì a primarie o congresso” Ma nel Pd restano due anime 

Contatti con Berlusconi per spostare il premio dal partito alla coalizione 

Ugo Magri  Busiuarda 3 2 2017
L’obiettivo resta sempre quello, quasi ossessivo: votare il più presto possibile. Ma per raggiungere lo scopo, Renzi cambia tattica. Per la prima volta, posa il bastone e tenta con la carota. Va incontro alla minoranza del suo partito che teme una pulizia etnica in caso di elezioni a giugno. Fa intendere che la corsa verso le urne potrebbe essere accompagnata da un momento di sana democrazia interna: dalle primarie, oppure da un congresso. Intervistato al «Tg1» della sera, l’ex premier socchiude la porta che fino al giorno avanti sembrava sbarrata: «Per me va bene tutto. Semmai è importante che, comunque vadano le primarie o il congresso, chi perde rispetti poi chi ha vinto. Perché altrimenti sarebbe l’anarchia». Ma proprio questo è il punto dolente: accetteranno Bersani, Speranza e gli altri avversari interni di marciare verso le urne in cambio di un congresso (o di primarie) che di certo non vincerebbero? Le prime reazioni della minoranza Pd, guarda caso, sono poco convinte. Michele Emiliano, tra gli oppositori più fermi, scuote la testa: «Mi sembra una “gazebata”», cioè propaganda allo stato puro, «serve un congresso vero per cui a giugno non si può votare». Quella è la linea del Piave su cui si attestano i nemici del segretario. Con Bersani che insiste sull’«Ulivo 4.0», piattaforma politica dell’eventuale addio e aggiunge: «Io sono per il voto nel 2018: non tocca a me decidere ma il Pd si levi dalla testa che si possa andare alle elezioni senza aver fatto prima una discussione». Per Renzi la scissione non esiste in natura, «nessuno la capirebbe». Però intanto lancia questi segnali distensivi sul congresso e sulle primarie, timido avvio di una trattativa. Un po’ quello che accade sulla legge elettorale. Dove siamo passati dalla tentazione di fare accordi con Grillo alla ripresa dei contatti con Berlusconi.
Per chi avesse dimenticato la trama: due giorni fa sembrava che, pur di arrivare alle urne, il segretario Pd avesse dato via libera alla richiesta dei Cinquestelle, di adottare anche al Senato il sistema vi voto appena riscritto dalla Consulta (che M5S ribattezza «Legalicum»). Dunque un’accelerazione forte. Seguita dalla frenata, quando Grillo ha precisato: «Vogliamo il Legalicum ma senza i capilista bloccati», che sanno tanto di nominati dall’alto. C’è chi ipotizza una consultazione online del popolo pentastellato per metterci tanto di timbro. Ma se iniziamo a cambiare la legge, si spazientiscono i renziani, voteremo nell’«anno del mai». Ragion per cui sono riprese ieri le danze con Forza Italia. Silvio e Matteo non si parlano, ma agli abboccamenti riservati provvede l’esperto Gianni Letta. Sul tavolo c’è una proposta che fino a ieri Renzi vedeva come fumo negli occhi: assegnare il premio non già al partito che arriva primo, ma alla coalizione vincente. Cioè una mano tesa al Cav, che non sarebbe più costretto a stringersi nella stessa lista insieme a Salvini, perché gli basterebbe allearsi con la Lega ai fini del premio (dopodiché, ciascuno andrebbe per la sua strada). In cambio, naturalmente, Renzi esige che Fi la smetta di seminare chiodi sulla via delle elezioni a giugno. Il furbo Denis Verdini già fiuta l’aria di possibili intese, per cui tenta di infilarsi con una sua proposta di sistema per metà proporzionale e per l’altra metà maggioritario: «Può mettere d’accordo tutti» dice del suo «centauro». La trattativa sembra bene avviata. Prova ne sia che in Commissione affari costituzionali alla Camera si è deciso di non affrettare l’esame delle proposte di riforma elettorale, come chiedeva Brunetta, ma di attendere senza stress le motivazioni della Corte costituzionale. 
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Matteo, la tentazione delle dimissioni poi il contropiede: gazebo il 25 marzo

Assediato da ogni parte: “Sono stufo, mollo anche la segreteria” I dubbi sulla tenuta di Franceschini che reclama una legge elettorale 

Carlo Bertini Busiarda
«Stamani l’ho visto tonico, bello carico», raccontava alla Camera Giacomo Portas, dopo aver incontrato al Nazareno un Matteo Renzi di buon umore: in procinto di giocare la carta delle primarie concesse a Bersani per inchiodarlo alle sue parole e rendergli più difficile l’addio al Pd. Tentativo quasi disperato a questo punto della giostra, ma che il segretario persegue ugualmente affidando a Piero Fassino l’arduo compito di tentare una mediazione seria con l’ex segretario. Non a caso Bersani definisce spregiativamente quelle di Renzi «le gazebarie»: in queste ore viene spinto dai suoi sodali fuori dal Pd, «perché col proporzionale prendiamo 70 deputati e 30 senatori», prevedeva ieri Nico Stumpo, mentre un compagno faceva capolino, «allora domani decidiamo di andarcene?», alludendo ad un summit carbonaro convocato stasera. La linea Maginot di Bersani si è spostata, dalle «primarie subito, se no scissione» è diventata quella del «se si vota a giugno noi usciamo prima»: perché a giugno a suo dire si deve celebrare il congresso Pd e non le politiche. Neanche dopo lo spariglio del segretario i giochi si riaprono: uno spariglio che tradotto vuol dire: primarie di coalizione se si vota a giugno, se invece si va al 2018, congresso anticipato di tre mesi, a ottobre si faranno i gazebo per votare il segretario.
Dimettersi da segretario
Ma se Portas, il timoniere dei Moderati piemontesi forte del suo pacchetto di voti per le primarie si è trovato davanti un Renzi grintoso, del tutto opposto era il mood della sera prima. Quando nelle chat interne e negli sms dei renziani arrivavano gli sfoghi di un leader rabbioso, tentato di gettare la spugna, stretto dall’assedio di big e peones del partito, tutti contro di lui. «Mi sono stufato, mollo tutto», si sfogava Renzi con gli amici più stretti, che tenevano a freno il suo sconforto, rintuzzandolo uno ad uno. Qualcuno più cinico degli altri, «tanto gli passa tra un’ora», altri più preoccupati che Renzi fosse al capolinea. Provato da una sfilza di colpi, la rivolta dei deputati contro la sua uscita para-grillina sui vitalizi, Bersani pro-scissione, poi Napolitano sul voto nel 2018. Una giornata seguita da quella di ieri non meno faticosa: colazione di traverso con l’intervista al Corriere di Calenda e poi le voci su Dario Franceschini in procinto di esternare che si deve fare una legge elettorale di raccordo per uniformare le due sentenze, ma che lui non ha nulla in contrario che si voti a giugno. Linea solo in parte rincuorante, perché allo stesso tempo gli «uomini di Dario vanno dicendo che votare a giugno sarebbe una follia, che i sondaggi sono nefasti e che nessuno poi governerà», raccontano i renziani consci di non poter contare sull’alleato.
Primarie ma senza enfasi
Fatto sta che ieri mattina Renzi decide il rilancio. Primarie di coalizione il 25 marzo: con che coalizione non si sa, con quali contendenti non si sa. Ma l’importante è mettere l’avversario con le spalle al muro: pure nel «cerchio magico» nessuno scommette che queste primarie si terranno veramente. Renzi si appresta a far votare il 13 febbraio alla Direzione una road map che prevede pure una nuova legge elettorale votata in Senato (se si trovasse una maggioranza) entro fine aprile. Pure se ritiene che provare a fare una legge di raccordo tra le due sentenze non abbia sbocco: al Senato, pur mettendo insieme 5 Stelle, Lega e due terzi del gruppo Pd non ci sarebbero i voti; così come Pd e Forza Italia insieme non fanno maggioranza. 
Il piano B, sforare il 3%
E ben sapendo che c’è pochissimo tempo per poter sciogliere le Camere entro una data valida per andare a elezioni a giugno, si pensa al piano B. Alcuni ex Dc di peso ipotizzano di andare al voto nel 2018 intavolando però una trattativa tosta con l’Ue per fare a settembre una manovra per la crescita sforando il 3%. Ma con l’aria che tira, «con l’Ue che fa la faccia dura per uno 0,2 per cento» sono in pochi a crederci. E quindi torna il piano A: voto a giugno dimostrando a Mattarella di fronte all’evidenza dei numeri che non c’è volontà politica nei partiti di fare una legge elettorale nè ora e neanche tra otto mesi. E che si deve votare con le leggi della Corte. 
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Durata del governo, sfida tra ministri Il premier: lavorate e non fate politica 
L’obiettivo del 2018 indicato da Calenda spiazza i renziani come Delrio. Fuori dalla sala del Consiglio Franceschini confida: “Matteo più prudente, capisce che non può spaccare tutto”

GOFFREDO DE MARCHIS Rep
Dario Franceschini racconta a qualche ministro di aver parlato ieri mattina con Matteo Renzi. «È più prudente, è più tranquillo. Capisce che non può spaccare tutto. Perché l’importante, più del quando, è il come. Ovvero, come si va al voto in modo ordinato, con quale legge elettorale e con quale equilibrio nel Pd». Insomma, la descrizione del ministro della Cultura è quella di un segretario che frena sul voto a giugno e accetta l’ipotesi di un percorso più lungo. Questa è sicuramente la linea di Franceschini, ma non coincide del tutto con la linea renziana.
Comunque i ministri cominciano ad uscire allo scoperto. Nei loro colloqui privati, persino nei corridoi di Palazzo Chigi in attesa del consiglio, ma non durante la riunione presieduta da Paolo Gentiloni. Appena entra il premier, l’argomento diventà tabù. «Un teatro dell’assurdo - è la versione di un ministro - Si parla solo del voto anticipato prima del consiglio e dopo. Dentro la sala niente, Gentiloni mette il silenziatore ». Sono le regole d’ingaggio imposte dal premier. L’antifona si capisce al volo visto che Gentiloni pesa le parole, non fa e non accetta battute sulla durata dell’esecutivo e non si fa trascinare neanche per sbaglio nella partita. «Qui non si fa politica, qui si lavora », ha detto in una riunione l’altro giorno. Un modo per ribadire con forza il concetto.
Ma fuori dalla porta del consiglio vanno in scena le discussioni e anche le polemiche tra ministri. Ieri è stato “processato” Carlo Calenda per aver detto, al Corriere, che la caduta del governo sarebbe un disastro. Il “processo” è stato anche l’occasione per capire che Renzi non ha ancora rinunciato all’orizzonte di giugno. O meglio, i toni sono da frenata, ma il piede rimane sull’acceleratore. Il titolare dello Sviluppo economico però non si è fatto intimidire dalle contestazioni di Graziano Delrio. «Se votiamo a giugno lo spread schizza a 400 punti - è stato il ragionamento di Calenda -. L’ho detto anche a Matteo, gliel’ho spiegato. Io dico quello che penso liberamente tanto non ho problemi. Non devo candidarmi, non ho ambizioni politiche. Finito qui torno a fare il mio mestiere, il manager ».
Al capannello si avvicina Angelino Alfano, leader del partito del non voto. Scherzando, racconta di aver ricevuto tanti messaggini di sostegno alla linea Calenda. «Finirà che il capo dei centristi lo farà lui», dice autoironico. Delrio invece è piuttosto infastidito perchè vede, anche tra i colleghi, restringersi lo spazio per il voto subito, ovvero la strada che Renzi non ha abbandonato e lui ha sposato. Sa che le parole del ministro dello Sviluppo apriranno il vaso anche nella compagine di governo. Non a caso, Franceschini si espone a favore del non voto con quella frase di estrema prudenza: «Più del quando, conta il come andare alle urne».
Renzi, con in testa sempre la data dell’11 giugno, ha scelto in effetti toni diversi. L’apertura al congresso o alle primarie per tenere dentro la minoranza, l’idea del premio alla coalizione che è un “regalo” inaspettato a Forza Italia. Ma questa correzione la spiega così ai suoi fedelissimi: «Voglio applicare il modello Bearzot», riferendosi al mitologico allenatore dell’Italia Mundial. «Gioco di rimessa e faccio venire avanti gli altri. Vediamo cosa rispondono ai nostri segnali. Il Pd intanto riparte dal Paese, dai suoi problemi. Questo ci consente di aspettare le mosse degli altri in maniera attiva».
Secondo le colombe renziane, il segretario ha maturato un cambio di rotta vero. Per esempio, sulla scissione, provando in concreto a recuperare Bersani, l’unico leader della minoranza che uscendo farebbe un danno serio al Partito democratico. Il congresso, o le primarie visti i tempi stretti che immagina Renzi, rappresentanto una mano tesa anche a Michele Emiliano, candidato in grado di impensierire la riconferma a segretario dell’ex premier. Significa che Renzi, sì, si prepara a tempi più lunghi se le condizioni del voto subito non si dovessero concretizzare. Ma il pensiero è sempre lì.
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Cofferati: «Si discute tutti insieme, il congresso serve a questo»
Sinistra italiana . L'ex segretario della Cgil, oggi eurodeputato, fa parte della Commissione congressuale per le assise di Rimini: «La costruzione della nostra proposta non può dipendere da quello che faranno gli altri. Ci confronteremo partendo dalle proposte che abbiamo il dovere di mettere in campo»

«Io sabato vado al congresso territoriale di Sinistra italiana, quello di Genova. C’è un documento, discusso e approvato all’unanimità dalla commissione, di cui condivido l’impianto. E mi sembra all’altezza». Sergio Cofferati è appena arrivato da Bruxelles, e le sue prime parole confermano la presa di posizione della commissione congressuale, di cui anche l’eurodeputato fa parte, verso il j’accuse del capogruppo alla Camera, Arturo Scotto, su presunte irregolarità procedurali.
Cofferati, che è successo? Perché questa fibrillazione?
Non la capisco. Per me è auspicabile che nasca regolarmente un partito con la sua identità e la sua proposta politica. Nel documento ci sono emendamenti che lo renderanno più esplicito su alcuni temi. Io ne ho presentato uno, sull’Europa, che spero trovi un buon consenso. E credo che la priorità sia fare un congresso in cui si confrontino idee e proposte che, appunto, definiscano l’identità del partito.
Poi, su questa base, Sinistra italiana si confronterà con tutti gli altri soggetti politici della sinistra. Senza alcuna preclusione. Però partendo dalla sua proposta di merito.
Ma sono di questi giorni le notizie di sommovimenti negli altri soggetti politici della sinistra, in cui evidentemente lei include anche il Pd, che possono avere conseguenze sulla vita di Sinistra italiana.
Il passaggio che le ho riepilogato non significa che io non presti attenzione a quello che succede negli altri partiti. Ma la costruzione della nostra proposta non può dipendere da quello che faranno gli altri. Se, nel variegato campo della sinistra, nasceranno nuove organizzazioni politiche, associazioni o partiti, discuteremo con loro partendo dalle proposte di merito che noi abbiamo il dovere di mettere in campo.
Poi vedremo le loro. Noi abbiamo ipotesi precise sull’Europa, sullo sviluppo sostenibile, sul lavoro, la protezione socale e i diritti.
E gli altri?
Con tutto il rispetto per chi oggi decide sul «che fare» nella sinistra, da Pisapia a D’Alema, io non conosco le loro proposte. Sono curioso di capire quali siano. Quando poi ci saranno, e saranno messe in campo, la possibile convergenza nascerà solo dal merito. Non dall’evocazione di schieramenti, o di nuove organizzazioni.
Per questo il nostro congresso è importante, perché chiude una lunga fase di discussione interna che ha bisogno di una visibilità fin qui mancata, e che può contribuire a dare un forte impulso alla presenza di una nuova sinistra.
Insomma c’è la disponibilità a discutere con tutti. Ma solo sul merito delle questioni sul tavolo della politica e soprattutto della società.
C’è la disponibilità al confronto. Ma nessun interesse su ipotesi politiciste di schieramenti astratti e privi di proposte politiche di merito sui grandi temi che interessano le persone che vorremmo rappresentare.
Quanto alle proposte, la nostra sede di discussione è il congresso, per questo spero che partecipino tutti.
Ha detto che non capisce il perché di queste fibrillazioni. Può comunque tentare di dare una chiave di lettura di quanto sta accadendo?
Le regole di un congresso vanno definite con precisione, e la commissione congressuale lo ha fatto. Davvero non capisco cosa sia, come viene sostenuto da alcuni compagni, la ’mancanza di contendibilità’ nella costruzione dei gruppi dirigenti.
Il tema della contendibilità non mi appare fondato.
Piuttosto credo che la cosa più importante sia la proposta politica, che si discute nel congresso. E se ci sono diverse opinioni, il che è del tutto legittimo, è indispensabile che siano presentate e sostenute nel congresso. Tirarsi fuori è sbagliato. E se l’immagine che appare all’esterno è quella di un gruppo dirigente diviso e di un congresso non partecipato come dovrebbe, il danno è garantito.
Secondo me Civati ha ragione quando dice «parliamo di merito» ad esempio io sono d’accordo, da tempo, sul reddito minimo garantito. Su un sistema di diritti che garantisca la dignità del lavoro. Sul chiedere all’Ue di cancellare le regole che hanno portato alle politiche di austerità.
Quest’ultima soprattutto è un’impresa non facile.
Eppure sono dell’idea che occorra riscrivere i trattati, a partire da Maastricht, per trasferire sovranità dagli stati membri alle istituzioni europee. Una battaglia difficilissima, ma indispensabile. Al tempo stesso, a regole vigenti, mettere in discussione le scelte alla base delle politiche di austerità, come il fiscal compact.

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