venerdì 17 febbraio 2017

Scissione nel PD: il carabiniere buono e quello cattivo


 



«Basta pretesti e alibi Non andate, discutiamo» - Corriere.it


“Hanno gettato la maschera” Il segretario rinuncia a mediare 

I sondaggi rassicurano l’ex premier che vuole un congresso “sulle idee” ma senza rinviare all’autunno. Il timore di primarie senza rivali 
Carlo Bertini Busiarda 17 2 2017
«Questi hanno già deciso di andarsene, Speranza ha gettato la maschera». Per Matteo Renzi la prova del nove circa le reali intenzioni dei bersaniani l’ha fornita l’ex capogruppo Roberto Speranza intervistato da Lilli Gruber. Con quell’invito al segretario a non ricandidarsi al Congresso seguendo l’esempio di Veltroni e Bersani. «Una provocazione», sibila Renzi ai suoi.
Del resto la giornata aveva offerto al leader diversi spunti di pessimismo. A partire da quella lettera aperta di Bersani sull’Huffington Post, letta dai renziani come una sorta di ultimatum, prendere o lasciare. Un’impressione rafforzata dal colloquio tra Lorenzo Guerini e lo stesso Bersani, prontamente riferito al Nazareno, in cui il leader della minoranza avrebbe chiesto più tempo «perché non abbiamo ancora un candidato forte da schierare».
Con il Pd sull’orlo del precipizio, Renzi ha comunque deciso di scendere in campo per lanciare un appello all’unità del partito. Perché si capisca che fino all’ultimo lui c’ha provato. Forte anche del sondaggio di Euromedia che lo dà vincente alle primarie come leader del Pd con il 58,4% tra gli elettori dem, contro il 3,6% di Emiliano e il 4% di Speranza. La voce che oggi il segretario avrebbe fatto un tentativo solenne di stoppare la scissione si sparge tra i suoi fedelissimi verso sera. «Questo congresso facciamolo bene - è il messaggio che Renzi vuole lanciare alle minoranze - deve essere un confronto di idee, un modo per rafforzare la casa comune. Non deve essere solo una conta, trasformiamo la convenzione nazionale in un momento di dibattito programmatico serio». La prima cauta apertura che ricalca i tentativi di mediazione messi in campo in queste ore da Fassino e Martina, sulla scia di quanto proposto da Andrea Orlando in Direzione: dare spazio al confronto sulle tesi prima che alla sfida tra le persone. Il segretario non si ferma qui, ma apre all’ipotesi di allungare un poco la tempistica congressuale. «Facciamo discutere i circoli delle nostre idee», dice. Ma non è disposto ad accettare quanto chiede Bersani, cioè trascinarla fino all’autunno. 
Fin dalla mattina l’ordine di scuderia ai suoi è che il congresso deve terminare prima delle comunali di giugno. All’ora di pranzo Franceschini confessa ad un amico la sua preoccupazione per una china drammatica che non sembra poter essere evitata. Si sparge la voce che Orlando abbia parlato la sera prima con Emiliano, per provare a evitare la scissione e lanciare un’operazione per ridisegnare i contorni politici del Pd con una presenza interna forte della sinistra, anziché uscire dal partito. 
E se lo stesso Orlando non riesce a stringere un accordo con la minoranza che potrebbe costituire la sua base congressuale, sfuma di fatto pure l’ipotesi di un’eventuale sua candidatura antitetica a Renzi. Almeno questa è la considerazione che fanno i dirigenti Pd di fronte ad una geografia interna che sta per sgretolarsi e ricomporsi. Nessuno può prevedere nulla, anche se ora i seguaci di Franceschini, Orfini e Martina garantiscono che la maggioranza renziana in assemblea è blindata. «Ma ora le primarie con chi le facciamo?», è la domanda che sorge tra i renziani, preoccupati di una chiamata ai gazebo complicata dall’assenza di candidati forti e visibili. «Vedrete che Rossi non uscirà dal Pd e che Emiliano ci penserà bene», si rassicurano. Fatto sta che senza i tre sfidanti Rossi, Emiliano e Speranza e senza Orlando in campo il congresso sarà un’altra cosa. 
Nella war room del leader si analizza già la gran mole di problemi che la scissione farebbe sorgere. Sarebbe un fattore destabilizzante: il voto prima dell’autunno più probabile; il governo con il Pd diviso in due gruppi parlamentari dovrebbe affrontare una nuova fiducia. E le giunte di Toscana e Puglia, rette da Rossi ed Emiliano, potrebbero saltare.
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Pd, ecco il patto a tre: dopo l’assemblea la scissione sarà realtà 

Emiliano, Speranza e Rossi lanciano un nuovo movimento “Renzi non ci ha ascoltati”. E aprono a Pisapia e Vendola 
Amedeo La Mattina Busiarda 16 22017
La scissione di via Barberini è stata decisa al numero civico 36, nella sede romana della Regione Puglia. Al primo piano, dove c’è l’ufficio di Michele Emiliano. Non c’è ancora un nome, non c’è un logo: è ancora presto. C’è però un patto a tre tra Emiliano, Roberto Speranza ed Enrico Rossi per fondare un movimento dando vita ad una «costituente» a sinistra del Pd. Un movimento, non un partito, in cui non c’è né un leader né un candidato premier che il sistema proporzionale non richiede. È la «costituente di centrosinistra» di cui parla pure D’Alema. Aperta alla società, alle associazioni, a coloro che sono delusi da Renzi e che hanno votato 5 Stelle. «Una separazione consensuale dal Pd e non conflittuale». Dopo le elezioni non è escluso che si possano mettere insieme le forze parlamentari per formare un governo e fermare i populisti. 
È la logica del proporzionale che spinge a valorizzare l’identità rispetto alle coalizioni. E allora ognuno faccia la sua battaglia, presenti il suo programma. Il partito di Renzi potrebbe fare il pieno di voti moderati e svuotare Forza Italia; il movimento nascente raccoglierà tutti i voti a sinistra e un pezzo del bacino elettorale pentastellato, fino al centro. Un nuovo Ulivo, un nuovo centrosinistra in cui non ci saranno in prima fila Bersani e D’Alema. Loro due si impegneranno in campagna elettorale ma faranno un passo di lato rispetto all’impegno e al lavoro diretto e organizzativo. A guidare il movimento saranno il governatore pugliese, il presidente toscano e il giovane ex capogruppo del Pd. 
Rossi, Emiliano e Speranza si sono stretti la mano nel salotto di via Barberini 36. Erano emozionati, si sono detti che non ci sono più le condizioni per stare nel Pd, che la scissione l’ha voluta Renzi. «Io faccio questa cosa con voi perché vi considero delle persone perbene», ha detto Emiliano. «Non sarei qui se io non pensassi la stessa cosa», ha risposto Rossi. «A me costa moltissimo lasciare il partito, è un dolore personale indicibile, dovete credermi», ha fatto presente Speranza. «Io non ci dormo la notte», ha aggiunto il presidente della Regione Puglia. «Ma siamo costretti a fare questo passo - ha sostenuto Speranza - e nessuno può venirci a dire che lo abbiamo fatto per la data del congresso o per qualche capolista in più. Ci mettiamo la faccia e navighiamo in mare aperto». 
Così i tre si sono messi a scrivere un documento che verrà letto all’assemblea nazionale del Pd domenica prossima. Un documento nel quale si dice che la direzione del partito è stata animata da «un dibattito ricco e plurale». Purtroppo le conclusioni del segretario non l’hanno rappresentato. Il Pd si sarebbe trasformato nel Partito di Renzi, personale e leaderistico. È stato chiesto di sostenere il governo fino al 2018, un congresso senza forzature e una conferenza programmatica nel quale trovare l’unità. «Ma siamo stati inascoltati». Per questa ragione «sabato mattina saremo tutti assieme al Teatro Vittoria di Roma, con l’obiettivo di costruire un’azione politica comune».
La costituente è aperta anche a Sinistra italiana in cui confluirà Sel di Vendola che domenica a Rimini celebrerà il congresso di scioglimento (ci andrà Emiliano). È aperta soprattutto a Giuliano Pisapia che lunedì a Venezia sarà protagonista, insieme a Speranza, di un incontro. L’ex sindaco di Milano guarda con grande interesse all’iniziativa dei tre di via Barberini: potrebbe partecipare alla costituente e anche al movimento per ora senza leader. «Non c’è questa ansia di chi deve fare il leader. L’ansia del leader uccide la politica», precisa Emiliano che ieri ha fatto la sua apparizione a Montecitorio. Poi è tornato a via Barberini e ha rilasciato un’intervista al settimanale francese L’Express al quale ha detto che un movimento di sinistra può arrivare al 14-15%, che il Pd di Renzi non andrà oltre il 17-18%. Ha parlato degli esclusi, di chi non conta nulla. Poi ha citato Papa Francesco e l’enciclica Laudato si’ per spiegare la sua visione ambientalista del creato. 
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Pd impopolare ma degno di fiducia Renzi diventa “uno dei tanti leader” 

Solo un italiano su tre pensa che il partito possa vincere le elezioni I Dem pagano la potenziale diaspora e la scarsa vitalità che trasmettono 
Nicola Piepoli Busiarda
La popolarità del Pd in caduta libera, sebbene i suoi esponenti siano considerati più degni di fiducia di altri. Il ridimensionamento di Renzi, tornato a essere uno dei tanti leader del partito. E la vitalità e compattezza dei Cinquestelle, percepite come gli aspetti che potrebbero fare la differenza. Regala scenari inediti l’ultimo sondaggio del nostro istituto compiuto per La Stampa nella settimana della Direzione del Pd. 
Se guardiamo ai pronostici il partito che per ora è ancora saldamente in sella a Palazzo Chigi non gode di grande popolarità. Solo un italiano su tre è convinto che il Pd sia in grado di vincere le elezioni. La percentuale scende al 23% quando si chiede se il partito sarebbe in grado di prendere il 40% dei voti e quindi ottenere il premio di maggioranza previsto dalla legge elettorale. Il Pd viene considerato un partito poco unito (l’81% degli intervistati lo considera frammentario e composto da più correnti), prossimo a una spaccatura (per il 63% potrebbe dividersi) e poco vitale (tre italiani su quattro lo vedono così).
Quindi? Stando a questi dati il Pd sembrerebbe sconfitto già ai nastri di partenza nel caso di un confronto diretto con il suo principale antagonista, l’M5S, nel governo dell’Italia. Eppure, particolare curioso, i leader del Pd sono considerati mediamente più preparati e quindi maggiormente degni di fiducia. In un confronto diretto con i Cinquestelle non sembra esserci partita: gli esponenti del Pd hanno raccolto un punteggio medio di fiducia di 45 contro il 40 raccolto da vertici del M5S. La compagine Dem viene guidata da leader come Michele Emiliano (56), Sergio Chiamparino (53) e Giuseppe Sala (51). Troviamo un Matteo Renzi al sesto posto su otto (41) avanti solo a Gianni Cuperlo (35) e Massimo D’Alema (20). L’ex presidente del Consiglio che fino a qualche mese fa sembrava non avere rivali in un confronto interno, è dunque rientrato nel «gruppone degli inseguitori».
Sull’altro versante è Chiara Appendino, la sindaca di Torino, a raccogliere più fiducia dall’elettorato (63). Segue Alessandro Di Battista (50) mentre il «candidato premier» Luigi Di Maio raccoglie il 37, Virginia Raggi il 31 e Davide Casaleggio il 30. Interessante anche la posizione di Beppe Grillo. Il leader del Movimento ha un indice di popolarità enorme (89%), ma raccoglie la fiducia solo del 29% degli intervistati.
Tirando le somme, il Movimento 5 Stelle gode di una migliore immagine nel complesso, ma di una minore fiducia rispetto agli esponenti del Pd. I Dem perdono terreno proprio a causa delle divisioni interne. La potenziale diaspora del Partito Democratico si trasforma in una maggiore attenzione verso la vittoria elettorale del Movimento Cinque Stelle che raccoglie una probabilità positiva quasi doppia di vincere alle urne rispetto al Pd: 51% contro il 32%.
Gli italiani, se dovessero scommettere, non hanno dubbi. Ma un conto è considerare il possibile vincitore, un altro è poi come uno voterà. Le intenzioni di voto degli italiani restano infatti granitiche rispetto alle rilevazioni precedenti. Il Pd risulta ancora il primo partito con il 32% seguito dal Movimento Cinque Stelle (27%), dalla Lega Nord (11,5%) e da Forza Italia (11%). Da sottolineare che proprio la compagine berlusconiana è quella che è riuscita a rosicchiare un +0,5% rispetto al precedente sondaggio. Gli italiani, in termini di voti reali, si dimostrano quindi ancora una volta molto prudenti e piuttosto allergici a percorrere strade nuove.
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La scissione è dietro l’angolo i pontieri non frenano Bersani “Questa non è più casa mia” 

Da Franceschini a Fassino e Martina mediatori all’opera “Ma Renzi faccia dietrofront”. Sposetti: logo a Bonifazi? Finirà come l’Unità
GOFFREDO DE MARCHIS Rep 16 2 2017
È proprio Pier Luigi Bersani, dipinto come il dirigente che «non lo farà mai», a spingere per la scissione. Indifferente agli appelli all’unità, alla cura della Ditta, al fatto, traumatico, dell’addio di un ex segretario del partito. Non è questione di forma, dice Bersani, è che «non mi sento più a casa», che anche la gestione delle ultime ore, come al solito, è sbagliata. «Siamo sempre alla comunicazione spicciola, con i big che telefonano ai giornalisti per riferire degli appelli, delle mediazioni», ripete. Ma nessuno che mandi un segnale reale alla minoranza. Tanto meno Matteo Renzi che non apre, anzi chiude, come dimostra la scelta di affidare al tesoriere Francesco Bonifazi il simbolo del Pd durante il periodo di assenza del segretario. «L’hanno messo in buone mani - commenta sarcastico lo storico amministratore dei Ds Ugo Sposetti -. Gli farà fare la fine dell’Unità ».
La strada è tracciata. A meno che lo stesso segretario non usi le prossime 72 ore per una retromarcia, pressato dai suoi e dal timore di uno strappo troppo doloroso. Magari sui tempi, rinviando il congresso a giugno, rinunciando allo sprint. A quel punto tenere dentro anche i dissidenti sarebbe più semplice.
Dario Franceschini continua il suo lavoro silenzioso per evitare il peggio. Non chiama i giornali, non sbandiera contatti. Ma ai suoi fedelissimi che gli domandano se i bersaniani stiano solo tirando la corda cercando di ottenere il massimo, risponde secco: «No, non stanno alzando la posta. Stanno uscendo davvero, il rischio è concreto». Dice il ministro della Cultura che il mantra della scissione già consumata nell’elettorato e sui territori, non è proprio campato per aria. I vecchi Dc sono i più preoccupati per un Pd che perde un pezzo di sinistra. Il popolo del Partito democratico ha una fascia di età medio-alta, ovvero la generazione più attenta a certi simboli del passato. Siamo sicuri che riusciremo a tenerli dentro?
Piero Fassino viene da quel mondo e non si rassegna all’idea dello strappo. «Io lavoro per scongiurare la fine del Pd come lo conosciamo. Ma diciamo la verità: siamo alla follia. Come giustifichi la scissione per una questione di date? Non è invece necessario fare presto proprio per affrontare problemi veri come le elezioni amministrative, il referendum sui voucher, la legge di bilancio 2018? avendo una linea chiara e legittimata?». Eppoi, dice l’ex leader dei Ds, «per quanto se ne possa parlare in tv per due minuti, è difficile organizzare una scissione». Tutto giusto, ma Massimo D’Alema ha già pronte ramificazioni territoriali, strutture, programma. Ed è chiaro che una via d’uscita è stata creata.
Chi doveva dire una parola di responsabilità, secondo l’appello di Bersani, lo ha fatto ma in maniera troppo timida. Walter Veltroni, che secondo alcuni sostiene una candidatura di Andrea Orlando al congresso, ha invitato a tenere in piedi il Pd. Goffredo Bettini ha ufficializzato il suo favore per Orlando segretario. Nicola Zingaretti rilancia la sua idea di conferenza delle idee che serve a prendere tempo e allungare il percorso del congresso. Ma i bersaniani sono ormai sono mondi lontani. In caso di scissione e di legislatura che continua, la minoranza farà dei nuovi gruppi parlamentari. Ha i numeri sia alla Camera sia al Senato.
Non è detta l’ultima parola, dice Francesco Boccia alleato di Michele Emiliano. «Il voto finale del congresso ad aprile è una farsa. La conferenza programmatica come dice Orlando e poi il congresso che si conclude tra luglio e settembre invece consente a tutti di stare dentro», dice presidente della commissione Bilancio. Uno spiraglio c’è. Ma il meno fiducioso è proprio Bersani, un ex segretario del Partito democratico, sulla cui perdita Renzi, nemmeno nei momenti più critici, ha mai detto «ce ne faremo una ragione».
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