domenica 5 febbraio 2017

Sinistra Praecox


Il PdCI resiste per ben 17 secondi al richiamo del Centrosinistra: è record di lunga durata.
Mai sinora questo partito, che da sempre e cioè dai tempi del bombardamento di Belgrado è in realtà una costola camuffata della corrente dalemiana, aveva dimostrato tanta autonomia [SGA].




Il partito propone un tavolo di confronto immediato e la costruzione di un programma partecipato: "Contrari alle primarie e a candidature civiche. Se non ci sarà dialogo col Pd siamo pronti a correre soli, o insieme alle atre forze di sinistra".
cittadellaspezia


Bersani respinge la mediazione “Nessun accordo sul voto a giugno” 
L’ipotesi del premio alle coalizioni in cambio dell’ok alle urne incassa il no della minoranza. Renzi punta su centristi e FI 

Carlo Bertini Busiarda 5 2 2017
Le grandi manovre sono già cominciate e il «palinsesto» delle trasmissioni messe in cantiere dagli strateghi renziani da qui a fine aprile è già qualcosa di più di un canovaccio: per sommi capi, si prevede un lavorio di qui a metà febbraio (quando si terrà la direzione Pd e saranno note le motivazioni della Consulta) su un testo di legge elettorale che possa avere i numeri in parlamento; e da fine mese una battaglia in aula alla Camera che possa concludersi con un sì definitivo entro i primi di aprile al Senato. Per sfruttare l’ultima «finestra» utile per il voto a giugno. Il tutto imperniato sulla mediazione che da due giorni si fa strada. Concedere il premio alle coalizioni e non ai partiti, insieme a una soglia di sbarramento al Senato del 3% come alla Camera, il tutto in cambio di un accordo tra le parti per votare a giugno.
Il niet della sinistra 
Peccato che questo palinsesto, cui stanno lavorando alacremente vari mediatori, in testa Franceschini (autore della proposta su premio di coalizione e primarie a marzo per evitare «la sciagura» della scissione), insieme a Orlando non vedrà la partecipazione della minoranza Pd che fa capo a Bersani. L’ex segretario, nei conversari con i suoi, va infatti ripetendo un concetto semplice, ovvero che «nessun accordo è possibile sul voto a giugno». Dopo aver detto urbi et orbi l’altra sera in tv che «se si va alle urne senza aver celebrato il congresso Pd la scissione è molto probabile». E che «Renzi si levi dalla testa che si possa andare alle elezioni senza aver fatto prima una discussione», cioè un congresso vero e non «una gazebata». Quella per capirsi che dovrebbe tenersi a fine marzo per legittimare la corsa alla premiership. Una linea dura, che Franceschini e Orlando ritengono di poter smussare: entrambi hanno invece fatto sapere a Renzi di esser convinti che sulla loro mediazione si può portare tutto il Pd. Ma così non pare, anche perché Bersani e compagni non credono che Renzi riesca a vincere la corsa a ostacoli verso le urne. «Si sente una puzza di freni bruciati sulla data delle elezioni», scherza Nico Stumpo. Che elenca i motivi per cui la scissione resta sempre un’arma sul tavolo. «Le prese in giro non funzionano. Se si vuole un premio di coalizione, dove si decide quale sia la coalizione? Solo al congresso. Se Renzi pensa che per andare a votare a giugno si può fare a meno della democrazia interna, allora è lui che sfascia il Pd». La sinistra Pd userà l’argomento dei capilista bloccati per mettersi di traverso. Pur traendo vantaggio dal premio di coalizione che le consente di pesare di più in caso di scissione. Renzi dopo aver aperto a tutte le ipotesi, primarie, congresso, insegue l’idea di votare a giugno ma resta cauto. Gli ultimi sondaggi lo confortano: come nota Andrea Marcucci avrebbe il 60% di voti alle primarie, Emiliano secondo con il 10%, Rossi l’8% e Speranza il 5%. Dunque è pronto, ma mette nel conto la scissione che renderebbe inutili queste primarie pre-elezioni. I suoi calcolano che l’accordo sul lodo Franceschini possa avere i numeri anche togliendo dal pallottoliere i 25 senatori bersaniani. Puntando su una maggioranza Pd con Ap di Alfano e Ala di Verdini. Quella su cui si regge il governo, corroborata dai voti di una buona parte di Forza Italia.
Zaia guida il centrodestra
Anche gli azzurri sono interessati al premio di coalizione. È rimbalzata voce nel Pd che il centrodestra stia valutando un’ipotesi di candidatura per la premiership del governatore Luca Zaia. Voci che danno l’idea di un cantiere aperto nell’ottica di votare presto. Del resto anche Berlusconi sul “Fatto” lancia un segnale. «Io credo che gli italiani, non solo Renzi, abbiano fretta di tornare alle urne, dopo quattro governi non eletti dal popolo». 
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Il partito del 2018 conta i giorni “Le elezioni a giugno già saltate” 
Un febbraio pieno di trappole: a forte rischio l’arrivo in aula il 27. Ma Renzi insiste: “Il vero motivo per votare presto è arrivare bene alla manovra d’autunno”

GOFFREDO DE MARCHIS Rep 5 2 2017
Il partito del non voto conta su un nuovo alleato: il fattore tempo. Secondo i calcoli (molto interessati) dei numerosi esponenti di questa “forza politica”, le elezioni a giugno, tecnicamente, non sono più possibili. Giugno perciò dovrebbe sparire dal calendario delle chiacchiere sulle urne. Il primo a doverne prendere atto sarebbe Matteo Renzi, che invece continua a cullare il sogno. Ma il problema c’è. Lo ammette anche chi rema nella sua stessa direzione. A prescindere dagli accordi politici. «L’obiettivo di giugno è raggiungibile, ma non è facile», confessa Emanuele Fiano, capogruppo del Pd nella commissione Affari costituzionali della Camera.
Montecitorio ha stabilito che la discussione in aula sulla legge elettorale partirà il 27 febbraio in modo da avere tempi contingentati a marzo. Significa evitare le vagonate di emendamenti e l’ostruzionismo, significa cioè approvare il testo anche in una sola settimana. Per poi spedirlo bello confezionato al Senato. Il punto è che centrare il traguardo del 27 febbraio appare un’impresa. E se si scavalla quella, la “tagliola” sui tempi di lavoro di marzo salta.
La relazione del presidente della commissione Affari costituzionali Mazziotti Di Celso è fissata giovedì prossimo. La scommessa è che martedì la Consulta renderà note le motivazioni della sentenza sull’Italicum. Scommessa con quota piuttosto alta visto che altri sono sicuri di uno slittamento. Se così fosse il dibattito in commissione parte già con il freno a mano tirato. Niente impedisce di cominciare. Dopo la relazione, ci sono le audizioni, poi l’individuazione di un testo base e di un relatore, poi gli emendamenti, poi i pareri del governo e dei relatori, poi il parere consultivo di tutte le altre commissioni (un proforma che può durare anche un paio d’ore), infine il voto sul testo. A quel punto, si può andare in aula, a patto che tutto l’iter sia stato completato, in termine regolamentare si dice: “ove concluso” il procedimento. Bastano 17 giorni (week end compresi) per questo percorso? Tanto più in un clima dove si confrontano gli sprinter di giugno e i maratoneti del febbraio 2018?
La data del 27 è figlia di un accordo tra i velocisti Pd-Lega- 5stelle. Ma nel frattempo i grillini si sono sfilati e parte del Pd, su suggerimento di Dario Franceschini e Graziano Delrio, ha virato sul premio alla coalizione di partiti, misura odiata dal Movimento, ma molto benvoluta da Forza Italia e dai centristi (che però rientrano nella categoria maratona). Insomma, una maggioranza, su un testo comune, si può ancora trovare, ma permette il voto a giugno? In commissione si possono fare delle forzature regolamentari. Andare in aula senza una legge base e senza relatore (ma sarebbe il caos). Oppure, aprire la discussione il 27 e poi tornare in commissione per sistemare le cose prima del vero approdo in aula: in tal modo il contingentamento di marzo rimane. Ma il rischio che la “tagliola” debba essere spostata ad aprile esiste e se anche si chiudesse la pratica a metà di quel mese poi mancano due tappe: le dimissioni del governo e lo scioglimento delle Camere. Si può votare tra 45 e 70 giorni da quel momento. Così, però, l’11 giugno diventa davvero una chimera. E bisognerebbe cominciare a parlare del voto a ottobre.
Ma non è questa l’opinione di Renzi. Il segretario del Pd continua a vedere le elezioni vicine. Anzi, gli appaiono una scelta obbligata perché, continua a ripetere ai suoi interlocutori, «la prossima manovra economica dev’essere scritta da un governo con un mandato forte e 5 anni di lavoro davanti». E se la partita della legge elettorale s’incarta, se l’accordo con gli altri partiti non vedesse la luce, c’è sempre l’opzione indicata dal presidente del partito Matteo Orfini, condivisa anche da Renzi: andare a votare con le leggi uscite dalla Consulta, senza altre modifiche.
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