venerdì 10 febbraio 2017

The winner is: Pisapia! Spezzaferro scopre le carte. Matteo non sta sereno







Rep

Corriere della Sera


LA FINE DEL PARTITO PERSONALE DI RENZI STEFANO FOLLI Rep
LA LETTERA dei quaranta senatori del Pd in cui si chiede di lasciar lavorare il governo Gentiloni e di andare a votare nel 2018, alla scadenza della legislatura, è disarmante nella sua semplicità. Lo è perché definisce in poche frasi, senza dover aggiungere molto altro, lo stato d’animo prevalente nel partito di maggioranza, esausto per le nevrosi che prima hanno accompagnato la campagna referendaria e poi il dibattito “voto Sì/voto No” tutto interno al palazzo. Fuori c’è l’Italia che ha ritrovato lo “spread” a 200 punti, che subisce le reprimende della Commissione europea e che ha urgenza di risistemare i conti pubblici. È evidente come l’incertezza politica sia uno dei fattori che inquietano i mercati. Fino al referendum del 4 dicembre era lecito pensare che il mondo finanziario auspicasse la vittoria del Sì come premessa di una maggiore stabilità politica. Ma dopo l’affer-mazione del No e la nascita del nuovo esecutivo, il sentimento è cambiato. Ed è riassumibile così: meglio la stabilità offerta da Gentiloni, con il suo lavoro sobrio, che un ulteriore periodo di ansie in vista di elezioni anticipate che non sono comunque dietro l’angolo, a meno di strappi e altre lacerazioni. È un ragionamento fin troppo ovvio nell’anno in cui l’Europa è già sottoposta alla tensione del voto in Olanda, fra poche settimane, poi in Francia e infine in Germania. Un crescendo carico di incognite, per cui nessuno a Bruxelles e nelle cancellerie auspica che alla triade si aggiunga l’Italia, il cui appuntamento con le urne è già previsto nel febbraio del 2018, ossia dopodomani. Sotto tale aspetto, i quaranta senatori danno voce, forse in modo inconsapevole, a uno stato d’animo diffuso in patria come all’estero. Se le cose stanno così, e se la questione voto anticipato è in realtà ormai risolta da una decina di giorni, dove nasce il nervosismo da cui è dominato il Pd? L’origine è probabilmente duplice. Da un lato esiste un problema di potere al vertice del partito, dopo il passo falso referendario. Dall’altro c’è da ridefinire un’identità con nuove idee e una visione del paese di cui oggi si colgono solo fragili indizi. Rispetto a questi due problemi, la legge elettorale è lo strumento intorno al quale si sta giocando una partita politica all’interno di un partito in crisi. La soluzione tecnica verrà quando sarà maturo lo sbocco politico.
Stiamo assistendo, in altre parole, alla fine del partito personale a cui Renzi aveva affidato le sue fortune. Il Pd come mera piattaforma per l’affermarsi di una “leadership” abbastanza forte da saltare il rapporto con i quadri e, se si vuole, la “nomenclatura” interna trasformata in notabilato (poltrone e ministeri, ma senza reale incidenza). Il leader entrava in relazione diretta e carismatica con la base, anzi con gli elettori di un mondo trasversale, al di là delle vecchie distinzioni fra destra e sinistra. Questo progetto aveva bisogno di continui successi di opinione per non incepparsi, ma il referendum è stato proprio l’incaglio fatale. Il riassetto di potere è cominciato da lì e proseguirà implacabile nei prossimi tempi. Il che non significa che Franceschini, Orlando e una parte dei bersaniani siano dei congiurati decisi a provocare al più presto una crisi della segreteria. Al contrario, tenderanno a stringere via via Renzi in un angolo, sottraendogli consensi e le armi del potere. E non sarà impresa facile. Perché Renzi ha ancora qualche asso nella manica, a cominciare da una capacità mediatica e comunicativa superiore a quella dei suoi avversari. Non è bastata per costruire il partito personale, ma è sufficiente forse per conservare la maggioranza nel partito. O per meglio negoziare un compromesso con Franceschini e gli altri.
In ogni caso c’è un congresso da convocare, come dice ora anche Bersani. Un congresso che richiede una lunga stagione preparatoria. All’incirca un semestre: si comincia a giugno per tenerlo ai primi di dicembre, secondo le regole dello statuto. Sei mesi in cui, appunto, Paolo Gentiloni dovrà lavorare tranquillo; in cui Minniti e Calenda, ciascuno nel proprio campo, avranno la possibilità di ottenere qualche risultato, facendo dimenticare l’era renziana; e in cui Padoan dovrà dare risposte concrete e non retoriche all’Europa. Renzi ha ancora un futuro davanti a sé, purché rinunci a credere che gli basti fingere di essere ancora quello delle “slide” e degli 80 euro. Quella stagione è finita per sempre e con essa un certo Pd. ©RIPRODUZIONE RISERVATA




Pd, 41 senatori si sfilano da Renzi 

Varato un documento pro Gentiloni. Offensiva delle correnti contro il voto anticipato. Il segretario potrebbe dimettersi lunedì in direzione per avviare subito il congresso. Bersani: urne nel 2018, in estate assise del partito
GIOVANNA CASADIO Rep
Accade tutto e il contrario di tutto. Nel caos del Pd l’ultima mossa è quella di quarantuno senatori che chiedono a Renzi di smetterla di giocare con le elezioni anticipate e di sostenere invece il governo Gentiloni fino al 2018, e di fare il congresso del partito nel quale intendono saldamente restare, senza tentazioni di scissione.
Il documento viene reso pubblico pochi minuti dopo la dichiarazione dell’ex segretario dem, Pierluigi Bersani: «Renzi dica cosa vuole fare, basta giochetti e indovinelli. Per me si vota nel 2018, entro giugno si fa la legge elettorale e a giugno si apre il congresso del Pd». Una sintonia tra i quarantuno e l’ex segretario leader della sinistra dem, che è la cartina di tornasole del malumore diffuso e della contestazione a Renzi che attraversa le diverse correnti. Dal segretario ci si aspetta la prima mossa alla direzione di lunedì. Gira anche la voce, a Montecitorio, che potrebbe dimettersi da leader del Pd. Un modo per anticipare e avviare subito il congresso del partito.
A sorpresa, a sottoscrivere la richiesta di sostegno al governo Gentiloni senza corsa al voto a giugno, non sono solo parlamentari spesso in dissenso con Renzi come Luigi Manconi, Paolo Corsini, Walter Tocci, Sergio Lo Giudice, ma anche Vannino Chiti, Laura Puppato, Monica Cirinnà, Sergio Zavoli e soprattutto senatori della corrente di Dario Franceschini (tra cui Amato, Bianco, Dalla Zuanna, De Biasi, Fissore, Mattesini, Valentini) e i cosiddetti orlandiani, vicini cioè al Guardasigilli Andrea Orlando (come Cardinali, Vaccari, Tomaselli, Fabbri, Ferrara).
Il giorno dopo le riunioni delle correnti al Senato e alla Camera, martedì sera, i big minimizzano. «Nessuna congiura, nessuna cospirazione, nessuna sfida a Renzi, tutte fandonie», precisa Orlando in Transatlantico, scherzando sui regali di compleanno ricevuti. Un altro ministro Maurizio Martina nega di avere partecipato a assemblee. I renziani al Senato però testimoniano che c’era. Franceschini aveva puntato tutto sulla richiesta di un accordo tra i dem di non belligeranza per una legge elettorale condivisa. «Senza una buona legge elettorale e in questo clima, il Pd rischia di arrivare terzo alle elezioni »: aveva detto il ministro dei Beni culturali nell’assemblea di corrente martedì sera. E sul voto a giugno? Decide il segretario sulla base delle condizioni che si creano: aveva ribadito. Ma è stato ieri preso in contropiede da quei senatori della sua corrente schierati per le urne nel 2018 e il sostegno al premier Gentiloni.
La baraonda nel Pd non risparmia nessuno. Renzi centellina le informazioni sulla proposta che farà lunedì nella Direzione, diventata una grande kermesse perché sono invitati anche i segretari provinciali e regionali, tutti i parlamentari dem: circa 500 persone tanto che è stato necessario spostarsi dal Nazareno, la sede del partito, al più grande centro congressi di via Alibert. «Tutti si devono sentire a casa nel Pd, sarà questa la rotta del segretario », è quanto sostengono i vice Lorenzo Guerini e Debora Serracchiani. Franceschini dal canto suo rassicura Renzi, che sente al telefono: non ci saranno strappi. Chiara Geloni, collaboratore di Bersani, deve spiegare che l’ex segretario non ha mai detto di volere il congresso entro giugno (che come postilla avrebbe le dimissioni immediate di Renzi), ma che a giugno inizi il percorso congressuale. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


Matteo e Paolo, prima crepa renziani contro il governo “Manovra, no a nuove tasse” 
In 35 sottoscrivono una mozione anti-accise su tabacchi e carburanti. Gli sms dell’ex premier: non possiamo vanificare i mille giorni

GOFFREDO DE MARCHIS Rep 10 2 2017
LETTERE, documenti, assemblee di corrente alimentano il caos alla vigilia della direzione del Partito democratico, lunedì. Ma una mozione parlamentare svela che lo scontro potrebbe coinvolgere direttamente il governo Gentiloni. L’ha presentata il renziano Edoardo Fanucci.
ORGANIZZATORE di un’edizione della Leopolda e vicepresidente della commissione Bilancio. Ha raccolto finora 35 firme di deputati dem, principalmente di persone vicinissime al segretario del Pd (Morani, Parrini, Ascani, Fregolent tra gli altri) con qualche nome trasversale e qualche assenza significativa di onorevoli vicini al premier.
La struttura del documento, che sarà depositato la prossima settimana e per il quale si cercano altri firmatari fino alle 13 di oggi, è inequivocabile: il lungo elenco dei successi delle misure fiscali del governo Renzi (coronato ieri anche dal recupero record dell’evasione), il richiamo all’intervento di Pier Carlo Padoan al Senato in cui il ministro del Tesoro «ha descritto», tra le misure dalla manovrina chiesta da Bruxelles, l’aumento delle accise su benzina e tabacchi per chiudere con l’impegno del governo a cambiare completamente rotta valutando «il reperimento delle risorse necessarie tagliando la spesa improduttiva» e continuando la lotta all’evasione fiscale. Il governo Renzi e il governo Gentiloni vengono dunque messi su due piani diversi e l’attacco all’esecutivo esce dal recinto delle chiacchiere tra renziani per finire in un atto parlamentare.
C’è la manina di Matteo Renzi in questa mozione? «No - dice Fanucci -. Ma io spero che sia d’accordo. È sempre stata la sua linea». Una linea che il segretario del Pd conferma nei messaggini inviati in questi giorni ai suoi fedelissimi. La contrarietà alla manovrina fatta con le accise è dichiarata a gran voce, «bisogna contestarla in ogni occasione», scrive l’ex premier invitando a fare dichiarazioni in tal senso. E amaramente Renzi aggiunge: «Se passa questo tipo di manovra è un disastro. Così si vanificano i mille giorni». Dunque, il segretario «non mette il timbro su questa o su altre iniziative», come dice, ma sicuramente lascia fare perché quella è la sua linea e il suo profondo convincimento. Occorre sganciare l’immagine del Partito democratico da interventi del genere, per non finire triturati nel consenso. E alla fine diventa un ulteriore argomento, molto politico e molto convincente per un partito che ha seguito la strada faticosa del taglio delle tasse, per dimostrare che andare alle urne subito, a giugno, sarebbe, potendo, la cosa migliore. Fanucci è un po’ dispiaciuto per una raccolta di firme che non ha scaldato il cuore del Pd: «Mi aspettavo più adesioni». Magari qualcuno ha pensato che non fosse una buonissima idea mettere alla sbarra, in aula, il governo guidato da un dirigente del Pd. «Può essere - ammette Fanucci -. Ma non è quella l’intenzione». Devono però averla interpretata così alcuni deputati vicini a Gentiloni: come Roberto Giachetti e Lorenza Bonaccorsi, la cui firma infatti non compare. O i parlamentari che sono sulle posizioni di Dario Franceschini, completamente assenti.
Non votare subito, sembra il messaggio dei renziani, comporterà un lungo cammino di simili incidenti e di incompresioni tra il vertice del partito e Palazzo Chigi. È un bene per il Pd, per il Paese, per le decisioni dell’esecutivo? L’intenzione di Renzi di dimettersi lunedì per aprire la stagione congressuale allontana il voto di giugno. Anzi, se le assise seguono il loro percorso naturale cancellano l’ipotesi. Ma è il rapporto tra il governo e la linea del leader a rendere difficile una lunga coabitazione.
Il Pd in questa fase è poi occupato a disegnare i suoi rapporti di forza. Non a caso i resoconti delle varie riunioni di corrente tenute in questi giorni, in vista della direzione, cominciano non con proposte o contenuti ma con i numeri. All’assemblea di Areadem (Franceschini) erano in 90 parlamentari. Ieri la riunione della minoranza bersaniana contava 100 partecipanti (compresi amministratori locali). La lettera dei senatori favorevoli al voto nel 2018 aveva 41 firme, più importanti di ciò che era scritto nel testo. Una lettera che a Largo del Nazareno è stata vissuta come un affronto, come una deviazione pericolosa dalla rotta prestabilita. Infatti si è dovuti correre ai ripari, su richiesta di Renzi e Orfini, con la lettera di 17, molti dei quali firmatari anche di quella di 41, per dire che votare presto è l’unico piano concreto. Il punto è che la segreteria assiste piano piano allo sgretolamento della maggioranza interna. E senza numeri, anche in direzione, si complicano tutti i disegni, sia i piani A che quelli B.
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Esplode la rivolta nel Pd Renzi userà il congresso per evitare la scissione 
Carlo Bertini Busiarda 9 2 2017
Dopo giorni di rancori soffocati e tempesta incombente, esplode la rivolta nel Pd: «Sta franando tutto», scuote la testa sconsolato uno dei renziani più fedeli al capo. Si può immaginare cosa dicano gli altri. Gli eventi precipitano e sintomo della crisi che sembra mettere una pietra tombale sulla corsa alle urne è la lettera di 41 senatori, tra cui Chiti, Manconi, Tocci, in cui si chiede di sostenere il governo e di «non concedere più nulla alle pulsioni dell’antipolitica». Una dura critica all’assenza di analisi, «le amministrative, il risultato del referendum, il cambio di leadership governativa aspettano ancora una ragione interpretativa. E serve un tempo ragionevole», per capire cosa proporre prima di andare al voto. Nella war room renziana vengono scannerizzati i nomi e si vede che dodici firmatari sono di area Franceschini, otto attribuibili a Orlando. Se ai 41 si aggiungono i 20 bersaniani, la metà del gruppo Pd del Senato è fuori controllo. Ma la vera svolta è la crisi che investe la maggioranza renziana: per due giorni con interruzioni solo per votare la fiducia, in Senato va in scena uno psicodramma impensabile fino a due mesi fa, una rivolta di franceschiniani e renziani vari della seconda ora. «Qui siamo in mezzo alle macerie», dicono i fedelissimi alla fine. Sconcertati dopo aver sentito senatori fino a ieri allineati scaricare sul luogotenente di Renzi, il toscano Andrea Marcucci, una valanga di recriminazioni, con una violenza verbale inusitata. Accusando Renzi di ogni cosa, dalla «sua assenza», alla questione dei vitalizi, al parlare solo di data di elezioni. Un conto salatissimo, messo in carico al leader anche da quelli di Franceschini. Con i renziani presenti imbarazzati al punto che l’intervento finale di Marcucci per parare i colpi riceve un’accoglienza tiepida pure dai suoi. 
Renzi è infuriato e lancia la sua cavalleria contro Bersani che gli intima di piantarla con i giochetti, ma sa che sta sfumando il suo progetto di votare a giugno. Idea che malgrado tutto ancora accarezza, cercando di convincere - tramite ambasciatori - pure Berlusconi che se si voterà a febbraio 2018 anche lui potrebbe restare invischiato nell’effetto Monti, per via delle prese in carico di responsabilità nazionale che potrebbe richiedere la manovra lacrime e sangue di autunno. Ma è il Pd il suo fronte più debole, l’ex Cavaliere lo sa e per questo lo lascia cuocere nel suo brodo. 
Il partito di governo infatti è una barca che fa acqua, al punto che il segretario sta pensando, consigliato dai suoi, di usare il congresso anticipato come arma per mettere a tacere la rivolta. Mettendo in mora la strategia dei «compagni». Che sarebbero costretti a rinunciare alla scissione. «Meglio, per me lasciare il Pd sarebbe una scelta drammatica, per altri forse no», ammette Miguel Gotor. Se fosse tolto dal tavolo il voto a giugno, sarebbero convocate le assise per la sfida della leadership come chiede Bersani. Il quale ritiene che comunque Renzi parta favorito, tanto che i «compagni» saranno costretti a puntare su un unico «cavallo» per non indebolirsi con più candidati. Oggi Roberto Speranza riunirà la corrente in ebollizione. Ma è indubbio che con il congresso tutto il cantiere della scissione guidato da D’Alema verrebbe messo in crisi, tanto che in camera caritatis anche dirigenti di Sinistra Italiana ammettono di fare il tifo per il voto a giugno, perché la forzatura di Renzi agevolerebbe loro il compito di svuotare il Pd. Insomma col congresso a giugno da chiudere con le primarie a ottobre si riaprirebbero i giochi. 
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Corriere della Ser


Proporzionale, un ritorno con molti rischi 

Giovanni Sabbatucci Busiarda 8 2 2017
I leader dei maggiori partiti italiani - da Renzi a Berlusconi, da Grillo a Salvini - non perdono occasione per esibire la loro fiducia in una vittoria nelle prossime elezioni, non importa quanto vicine. Lo fanno perché rispettano le regole di qualsiasi competizione (dichiararsi perdenti in partenza è il modo migliore per perdere davvero), o perché, più o meno consapevolmente, restano legati alle posture e alle retoriche tipiche della seconda repubblica: quando vincere la partita delle urne significava, quasi automaticamente, disporre di una maggioranza in Parlamento, formare un governo e tenerlo possibilmente in vita fino alle elezioni successive. 


Ma il gioco ora è cambiato. Una volta deciso, come sembra inevitabile, il ritorno a un meccanismo elettorale a base proporzionale, una volta scartato il ballottaggio - unico metodo sicuro per far uscire dalle urne una scelta chiara - l’attuale configurazione tripolare del sistema politico non potrà che riportare in auge la pratica combinatoria delle coalizioni post-voto.


Non in via eccezionale, ma in quanto assetto permanente del sistema stesso. In altri termini, potrà accadere che un partito molto forte, com’era il Pci nella prima Repubblica, e come è oggi il Movimento Cinque Stelle, resti escluso in permanenza dall’area di governo, per scelta propria o perché così vogliono le altre forze coalizzate. E che al contrario partiti dal seguito molto ridotto si collochino stabilmente in quell’area grazie alla loro disponibilità a coalizzarsi con l’uno o l’altro dei gruppi più forti. A decidere chi vince e chi perde davvero, chi sta al governo e chi all’opposizione non saranno dunque i numeri elettorali: sarà piuttosto la posizione occupata nell’arco delle forze politiche, sarà la capacità di inserirsi nelle pieghe del sistema, spostando quantità marginali e strategiche di consensi. Di sicuro, molto dipenderà dal livello delle soglie di sbarramento stabilite dalla futura legge elettorale. Ma è probabile che proprio il bisogno di contrarre alleanze scoraggi i partiti maggiori dal proporre soglie troppo alte.
Per trovare precedenti in materia di coalizioni obbligate, basta guardare, anche in questo caso, alla storia della prima repubblica. Partiti piccoli o piccolissimi, come i cosidetti «laici minori» (il Pli, il Psdi e soprattutto il Pri), grazie anche al prestigio di leader come Malagodi, Saragat e La Malfa, occuparono posizioni di governo, salvo brevi parentesi, per quasi mezzo secolo. Il Psi fu partner insostituibile della formula di centro-sinistra. E Bettino Craxi fu per un decennio il primo attore della scena politica italiana, potendo contare sul 10 per cento dei voti o poco più. Anche fuori d’Italia, gli esempi non mancano: in Germania i liberali (e più tardi i Verdi) hanno svolto a lungo il ruolo di ago della bilancia fra Cdu-Csu e Spd, sempre occupando ruoli-chiave nei governi; in Spagna, gruppi autonomisti locali sono risultati spesso decisivi per la formazione delle maggioranze e si sono giovati di questa posizione per i loro scopi specifici.
Attenzione, però: nei casi appena menzionati, le coalizioni rientravano nella fisiologia del sistema, in quanto riunivano forze tra loro compatibili: anche la cooptazione del Pci nelle maggioranze di solidarietà nazionale, fra il ’76 e il ’79, poggiava sul comune richiamo alla Costituzione e all’antifascismo. Nel caso italiano di oggi, le cose sono assai più complicate. I partner piccoli ci sarebbero (i centristi dell’Ncd e di Area popolare). Ma sono i grandi a non sapere o potere esprimere ipotesi plausibili di alleanze che non urtino contro insuperabili divisioni programmatiche e culturali. Lo stesso Berlusconi, apparentemente il più disponibile, non sa scegliere fra la piccola-grande coalizione col Pd (che con ogni probabilità non basterebbe a fare maggioranza) e l’unità di un centro-destra comunque minoritario, assieme a Lega e Fratelli d’Italia. Il rischio allora è che, dopo aver riesumato un metodo elettorale criticabile, ma almeno collaudato, ci si trovi nella condizione di non saperlo più utilizzare. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Renzi e il freddo a Palazzo. La maledizione di febbraio 

Democrack. Franceschiniani ieri in riunione fiume, non è mai un buon segno per il segretario 

Daniela Preziosi Manifesto ROMA 8.2.2017, 23:59 
Quando è troppo è troppo, anche per un onorevole democratico. Ieri giornata di riunioni nel Pd. L’ultimo braccio di ferro che Renzi ha ingaggiato con il suo partito ha snervato anche i più felpati mediatori. Renzi ha offerto all’asse Franceschini-Orlando-Bersani l’apertura alle coalizioni, nella prossima legge elettorale, a patto però di andare al voto l’11 giugno. Ma fra gli eletti dem l’idea di andare a votare in una situazione non favorevole dei conti pubblici e dei consensi perde fan ogni giorno. Insieme al segretario che la propone. 


Ieri l’improvvisa cancellazione della riunione dei deputati che si doveva tenere oggi proprio per discutere di legge elettorale (si terrà il 15 febbraio) è stata la classica goccia. In realtà su chi ha davvero deciso la sconvocazione dell’appuntamento c’è un rimpallo di responsabilità, ma chi ha parlato con Renzi assicura che è stata una decisione arrivata da Montecitorio, e cioè dal capogruppo Ettore Rosato. Il più renziano dei franceschiniani, e tuttavia un franceschiniano. Fatto sta che deputati e senatori della maggioranza, franceschiniani e renziani, si sono visti al senato. Nel pomeriggio si sono incontrati i ministri Orlando e Martina. A tarda sera i franceschiniani erano ancora riuniti. E una riunione del genere non è mai un buon segno per il segretario pro tempore del Pd. Stavolta non è un buon segno per Renzi. Tre anni non lo fu per Enrico Letta, che alla riunione di direzione successiva fu defenestrato. 
Anche stavolta c’è una riunione di direzione convocata, almeno finora, e il caso vuole che sia convocata in quella stessa data in cui tre anni fa il Pd «cambiò verso». L’opzione del voto a giugno ormai è data per improbabile anche dagli ultimi gappisti del segretario. 
L’obiettivo di trasformare la riunione del 13 nel suggello dell’accordo dentro il Pd sulla legge elettorale per poi andare a chiedere i voti a Forza Italia e a centristi sfuma. Ieri Renzi, che è rimasto ancora lontano da Roma, ha fatto circolare l’ipotesi di un congresso anticipato prima delle amministrative di giugno (quelle si voteranno senza dubbio). Ma la minoranza bersaniana, che ha già fatto capire che non sarà mai disponibile al voto anticipato, ha risposto rilanciando: «Per far partire il congresso nelle prossime settimane è necessario che Renzi si dimetta», spiega Dario Ginefra, statuto alla mano. Questo week end a Firenze un gruppo di ex cuperliani ha messo insieme le minoranza Pd in un unica kermesse: Speranza, Emiliano e Rossi, tre papabili. 
Ma non è dalla minoranza che viene la vera insidia per il segretario: è l’asse fra i ministri Franceschini e Orlando, e l’intenzione di fare un passo avanti di quest’ultimo. A nome degli ex Ds – Ugo Sposetti, tesoriere del patrimonio ha indicato lui come uomo di assoluta fiducia per quel mondo – e senza il veto di Franceschini. E con l’alta benedizione – se utile si vedrà – di Giorgio Napolitano. Di fronte a questo cambio di vento Renzi potrebbe rapidamente cambiare piano e puntare al voto il 24 settembre, allineandosi alle urne tedesche. Sempreché resista alla maledizione di febbraio.

Volontari e deputati Le truppe di Emiliano per sfidare Renzi 

Il governatore a caccia di 19 mila firme per il congresso 

Amedeo La Mattina Busiarda 8 2 2017
L’uomo macchina di Michele Emiliano si chiama Domenico De Santis, il giovane consigliere del governatore pugliese che si occupa dei rapporti con il governo, gli enti locali e i sindacati. Ma in queste settimane è super impegnato a coordinare la raccolta delle firme per i due referendum tra gli iscritti del Pd: uno per chiedere il congresso prima delle elezioni, il secondo per aprire una discussione sul programma elettorale tra iscritti ed elettori. Ce ne vogliono circa 19 mila (il 5% degli scritti secondo lo statuto) per costringere Renzi a convocare queste consultazioni. «E quelle che stiamo raccogliendo - spiega De Santis - sono tutte firme vere e autenticate. Chi si iscrive alla nostra piattaforma primailcongresso.it scarica il modulo e lo fa firmare. Stanno arrivando adesione da tutta l’Italia».
La rete di Emiliano comincia a prendere forma. Lui rifiuta di chiamarla componente o, peggio ancora, corrente. Rimane il fatto concreto che il governatore pugliese, che sta sfidando Renzi su una posizione politica molto a sinistra, sta organizzando le sue truppe. Indipendentemente da D’Alema, Bersani e Cuperlo e Speranza. 
Alla Camera sono schierati dalla sua parte Francesco Boccia, presidente della commissione Bilancio, Dario Ginefra e Francesco Laforgia, ex area Cuperlo di Milano. Raccolgono firme anche molti deputati che fanno capo all’ex ministro Giuseppe Fioroni come Simone Valiante. Altri starebbero arrivando alla spicciolata e senza dirlo pubblicamente aiutano a raccogliere le firme nelle loro città attraverso i volontari che si sono iscritti alla piattaforma e hanno scaricato il modulo. Sono 2500 questi volontari, fino ad oggi: se ognuno di loro riuscirà a raccogliere 10 firme autenticate, ne verranno portate sul tavolo di Renzi 25 mila, molto di più di quelle necessarie per indire un referendum e chiedere il congresso. 
«Ci sono consiglieri comunali, regionali, semplici cittadini, ex iscritti al Pd che vogliono ritornare ad impegnarsi nel partito», dice Emiliano che domenica sarà a Firenze insieme al presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, anche lui pronto a candidarsi alla segretaria contro Renzi. I due però stanno unendo le forze e domenica prossima saranno insieme nel capoluogo toscano dove verranno raccolte altre adesioni. Lì il punto di riferimento è la consigliere regionale Serena Spinelli, anche lei una volta vicina a Cuperlo. 
Anche in Piemonte c’è movimento tra amministratori comunali e regionali, in tutto una trentina. Tra questi una collaborazione con Emiliano l’ha iniziata il consigliere di Torino Enzo Lavolta, vicepresidente del consiglio comunale e secondo tra i più votati in città. A Reggio Emilia il consigliere comunale Dario di Lucia ha già raccolto 56 firme in due giorni. In Basilicata è attivo il consigliere regionale Pietro Lacorazza. Poi i circoli del Pd, come quello in Lombardia di Prato-Bicocca, nel Lazio di Monterotondo. 
De Santis racconta che in questo suo lavoro di coordinamento e di organizzazione in giro per l’Italia ha scoperto uno stato comatoso del partito. E questo rende difficile la raccolta delle firme, perchè in alcune realtà non ci sono iscritti. «Il Pd è commissariato in Veneto, Sardegna, Liguria. Lo stesso in molte federazioni provinciali. In alcune città non è possibile iscriversi nemmeno on line. Abbiamo ricevuto lettere di ex iscritti che vorrebbero rinnovare la tessera e non sanno come fare. A Reggio Calabria c’è un gruppo che si è avvicinato a noi che non riesce a iscriversi dal 2013». BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Il centrosinistra e quell’eterna propensione autolesionista 

Marcello Sorgi 
Dopo oltre due mesi di dibattito (chiamiamolo così) nel Pd sui risultati del referendum che hanno visto sconfitto Renzi e le riforme, e vittoriosi i suoi nemici della minoranza schierati con il No, una cosa è chiara: non serve interrogarsi su nuova legge elettorale, primarie, congresso e data delle elezioni, perché non è dalla combinazione tra questi quattro fattori, che pure ricorrono in ogni intervento dei membri del gruppo dirigente, che verrà la via d’uscita dall’impasse in cui s’è cacciato il maggior partito di governo.
Quello a cui stiamo assistendo, infatti, altro non è che un nuovo tentativo di suicidio del centrosinistra, uno schieramento che, a conti fatti, ha guidato governi dal ’94 a oggi ormai per più tempo del centrodestra berlusconiano, e ha sempre trovato il modo di abbattere i propri premier e leader per andare all’opposizione. Se c’è riuscito nel ’98 (caduta del primo governo Prodi) dopo la storica vittoria del ’96, se ce l’ha fatta nuovamente nel 2008 dopo la risicata affermazione del 2006, non c’è ragione di dubitare che ce la farà anche stavolta, come del resto fece nel 2009 costringendo alle dimissioni Veltroni, fresco fondatore del nuovo partito, e nel 2013 Bersani, dopo la figuraccia dei 101 franchi tiratori che affossarono la candidatura di Prodi al Quirinale. 
Renzi ha l’aria di essere un osso più duro dei suoi predecessori, ma dal 5 dicembre non gliene fanno passare una: se dice congresso, i suoi avversari interni gli rispondono che non è il momento, se dice elezioni, per carità, se dice Mattarellum gli contrappongono il proporzionale, se dice che va bene, obiettano che porterà all’ingovernabilità, e ogni giorno un leader della minoranza (ieri Cuperlo, che pure aveva firmato con la maggioranza renziana un’ipotesi di cambiamento dell’Italicum prima ancora del voto referendario) deposita all’archivio della Camera la sua proposta di legge elettorale, pur sapendo che non sarà mai discussa.
Fa una certa impressione vedere il Rottamatore di una volta, l’uomo che licenziava in diretta i grandi nomi del partito, adattarsi a una trattativa sui dettagli, seguire quasi lo stesso metodo usato dagli avversari per cucinarlo, offrire premio di coalizione in cambio di voto a giugno, perfino improvvisarsi capo-corrente e convocare il Caminetto di tutti gli altri boss, in un’inutile quanto malinconica parodia della vecchia Dc. Anche perché - ma questo Renzi non può saperlo - la caratteristica dei Cavalli di razza dello Scudocrociato era che quando si sedevano faccia a faccia, non si dicevano mai né di sì né di no. BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI


Pd, rivolta sull’alleanza con Alfano i gruppi contro Renzi: non c’è la linea 

L’ex premier al leader Ncd: per me non ha senso andare avanti così, dammi una mano Sul voto gli uomini di Franceschini contro i renziani. E anche i Giovani Turchi si dividono 
TOMMASO CIRIACO Rep 8 2 2017
Montagne russe Pd, ad ogni curva un fuoco di rivolta. «Matteo, fidati di noi - si propongono nel giorno più difficile Dario Franceschini e Graziano Delrio - ti portiamo un accordo sulla legge elettorale con il premio alla coalizione». «Perfetto – l’abbraccio gelido del segretario – ma non tornate se non avete garanzie sul voto a giugno». Mediazioni, certo, ma a sei giorni dalla direzione nessuno controlla davvero questo frullato di risentimenti correntizi. Anime inquiete. E in mezzo c’è sempre Matteo Renzi, infuriato per l’escalation interna, ma preoccupato dal rischio d’isolamento: «Per me non ha senso andare avanti con questa legislatura e devi aiutarmi a tornare a elezioni - la richiesta ad Angelino Alfano, lunedì notte - però non voglio mostrarmi come quello che vuole le urne a tutti i costi. Se mi costringeranno al 2018, faremo i conti al congresso quanto prima».
Tarda mattinata di ieri, riunione del mini direttorio del Pd alla Camera. Ettore Rosato annuncia lo slittamento del vertice del gruppo e un manipolo di delegati della minoranza - che sperava di affrontare Renzi - insorge: «Ettore, ma ti rendi conto che non si capisce più nulla? Non penserete davvero che accetteremo senza battere ciglio e senza discutere quanto deciderà la direzione?». Non lo pensano, ma i renziani hanno comunque l’obbligo di provarci, perché trascinarsi fino al 2018 logorerebbe ancora la leadership del capo. La verità è che il nodo resta uno e uno soltanto: quando si vota? Pierluigi Bersani ha già rimandato al mittente l’accordo sul premio di coalizione: «Io voglio costruire un nuovo Ulivo, ma non accetto una rincorsa folle alle elezioni». Gianni Cuperlo ha messo in campo una sua proposta, con premietto al 10 per cento. Matteo Orfini, vicinissimo al segretario, ha in mente invece un modello “alla greca”: «Le coalizioni? Significa che avete dimenticato i tempi dell’Unione... E poi, mica possiamo davvero allearci con un partito che si chiama Nuovo centrodestra. Io comunque penso che bisogna votare entro giugno, che senso ha andare avanti?».
In questo caos prevale soprattutto l’istinto di tracciare i confini tra correnti, più labili che mai. Al Senato, franceschiniani e renziani si ritrovano nella stessa stanza. E i primi imputano ai secondi le colpe del capo: «Matteo cambia idea ogni minuto, è scomparso, così esplodiamo!». Alla Camera va in scena il bis. In pochi sembrano disposti a votare a giugno, anche tra le nuove leve: «La maggioranza del gruppo è contraria – giura Enzo Lattuca – e il vitalizio non c’entra proprio un bel niente».
Una quindicina di senatori dei Giovani Turchi si incontrano a Palazzo Madama e lamentano un eccessivo schiacciamento sul segretario: «Non esiste, sta sbagliando tutto». L’altro leder dei “turchi”, un cauto Andrea Orlando, si muove intanto da renziano sempre meno ortodosso. Non gradisce corse a perdifiato verso le urne e sonda peones inquieti. Ostili all’allargamento ad Alfano sono naturalmente anche Giuliano Pisapia e Nichi Vendola, che avverte: «Il premio di coalizione è diabolico».
È come se un’invisibile forza di gravità schianti ogni possibile ipotesi d’intesa, mentre Renzi cambia idea sempre più di frequente. Difficile trovare un accordo interno sul futuro del Pd, ancora più complicato immaginare patti in vista di un’alleanza con Alfano. Anche se, a ben guardare, in periferia molto si muove. Per sostenere Leoluca Orlando alle comunali di Palermo, infatti, i dem vareranno un listone. Con chi? Con l’Ncd, naturalmente. ©RIPRODUZIONE RISERVATA


La mossa di Renzi: accelerare per le primarie Pd il 30 aprile 

“Se non si voterà a giugno, non ci sto a farmi cucinare” 
Carlo Bertini Busiarda 10 2 2017
Ora che il partito del voto nel 2018 si farà forte delle motivazioni della Consulta, Matteo Renzi si prepara a bruciare i tempi e a convocare un congresso anticipato da celebrare a breve. Il leader Pd vuole uscire dall’angolo se - come sembra - non riuscirà a strappare il voto a giugno: fare una legge che dia maggioranze omogenee nelle due Camere richiederà tempo. E dunque spunta una data, il 30 aprile, per la convocazione dei gazebo. Dopo un percorso che verrebbe avviato ai primi di marzo con un’assemblea nazionale: dove il leader si dimetterebbe da segretario per far partire l’iter delle assise straordinarie. 
Ma Renzi tiene aperto il doppio binario, senza rinunciare del tutto all’idea di andare alle urne, come dimostra una nota di Matteo Ricci, «election day a giugno con le comunali, altroché congresso», diffusa quando escono le motivazioni della Consulta: giudicate dai tecnici Pd più favorevoli del previsto.
«Se non si riesce a votare a giungo, non ci sto a restare fermo a farmi cucinare, a quel punto faccio il congresso», ragiona l’ex premier con i suoi deputati. Nella war room renziana la mossa di velocizzare i tempi viene spiegata anche come un contropiede quasi obbligato, «perché i bersaniani vogliono fare il congresso a giugno sperando che noi perdiamo le amministrative». Il timore infatti è di prendere una scoppola pure alle comunali: Genova in bilico, a Palermo la convinzione è che «si vince ma facendo l’accordo con Orlando», altri Comuni sono a rischio, Parma, Piacenza, Verona, La Spezia, Pistoia e Lucca. 
Insomma meglio consumare la resa dei conti prima. «Questi qui - ragiona Renzi con i suoi - mi vogliono cucire la gabbia costringendomi a non andare a elezioni e a farmi fare il congresso quando secondo loro sarei cotto a puntino...». Il leader vuole pure evitare di diventare il capro espiatorio delle mancanze, o dei limiti che potrebbero riguardare il governo. Viceversa sa che con lo scatto avanti, i vantaggi sono fulminei: costringere la minoranza a trovare un candidato unico che non c’è, a interrompere qualche mese il tiro al piccione. 
Scongiurare la scissione, perché dopo aver fatto la battaglia congressuale nessuno potrà uscire dal Pd, almeno a breve. Nel partito la guerra è aperta: al Senato esce un documento per elezioni prima possibile con premio di lista e non di coalizione, firmato da senatori dell’area più vicina a Orfini dei «giovani turchi». Dodici dei quali hanno però firmato anche il documento dei quaranta critico verso Renzi, a dare l’idea della confusione.
Lo scenario di un’accelerazione piomba nel summit dei bersaniani alla Camera. Speranza mette in guardia, «il congresso deve essere una cosa seria». Ma se Renzi lo convocherà la scissione verrà messa in soffitta. «Io prima della Direzione di lunedì non dico una parola, vorrei capirci qualcosa», dice Bersani. «Anche perché: siamo sicuri che sarà convocato il congresso?» La domanda svela una preoccupazione non da poco: perché se la rinuncia al voto a giugno da parte di Renzi in Direzione sarebbe una sorta di vittoria, è vero pure che la convocazione del congresso subito obbligherebbe a risolvere una domanda senza risposta: con quale candidato la minoranza sfiderà Renzi?. «Per ora abbiamo le idee», ammette Bersani. Eccolo squadernato il problema numero uno di tutti gli avversari del segretario: unirsi nella battaglia sotto un solo condottiero. Che non potrà essere Enrico Letta, «aspetta di capire il momento migliore per tornare in campo ma non credo sarà il congresso», dice il suo scudiero Marco Meloni. E mentre Speranza, Emiliano e Rossi si scaldano a bordo campo, gli occhi sono puntati su Andrea Orlando, anche se lui continua a dire che non si candiderà e i renziani sono convinti che «non sfiderà Matteo, sta con noi».
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La sinistra del partito a caccia di un nome per sfidare il segretario 

Domenica assemblea a Firenze, ma manca un accordo 
Amedeo La Mattina  Busiarda 20 2 2017
Se venisse confermata l’accelerazione verso il congresso, i vari pezzi della sinistra Dem dovranno cominciare a pensare seriamente a chi dovrà essere l’anti-Renzi. I tre sfidanti - Enrico Rossi, Michele Emiliano e Roberto Speranza - si incontreranno domenica prossima a Firenze, nella città dell’ex premier, in una manifestazione organizzata da alcuni amministratori, consiglieri regionali e da due deputati, Francesco Laforgia e Filippo Fossati. Un’assemblea della sinistra dal titolo significativo («Può nascere un fiore. Di nuovo, la sinistra») alla vigilia della direzione del Pd dove Renzi dovrebbe calare le carte e prendere in contropiede i suoi avversari che da tempo chiedono il congresso. Ma gli avversari non sono pronti e non hanno individuato un candidato comune alla segretaria. Ecco, domenica a Firenze potrebbe verificarsi un ulteriore avvicinamento tra Emiliano, Speranza e Rossi. Una nuova tappa per unire le forze e fare squadra.
«E’ necessario cominciare a pensare in termini di comunità e non di singoli», dice Emiliano. «L’idea è di riaprire il dibattito dentro la sinistra e il Pd - spiega il governatore pugliese - con l’obiettivo di scrivere insieme una piattaforma programmatica unitaria sulla base della quale individuare il migliore candidato unico. Io sono pronto a candidarmi, ma sono prontissimo a sostenere altri se questo fosse necessario a trovare una squadra». Squadra che però ancora non c’è. Ognuno finora va per conto suo. Emiliano si sta costruendo la sua rete con la raccolta delle firme per chiedere il congresso. Rossi sta girando l’Italia per presentare il suo manifesto e la sua candidatura con un forte richiamo agli ideali del socialismo (il 18 febbraio sarà al Teatro Vittoria di Roma). E frena un po’. «Non sono d’accordo ad una frettolosa santa alleanza anti-Renzi: senza una chiara intesa sui contenuti, rischia di scadere nel politicismo e alla fine si facilita Renzi. Io questo vantaggio non voglio darglielo», afferma il governatore toscano. Anche Roberto Speranza ha dei dubbi. «Io, Emiliano e Rossi stiamo dicendo cose simili, ma mi sembra prematuro - precisa l’ex capogruppo bersaniano - dire se si formerà una squadra con un candidato unico. Sicuramente l’appuntamento di Firenze servirà per continuare un confronto ravvicinato. De resto sia Rossi che Emiliano erano venuti alla mia iniziativa a Roma». 
Vedremo se a Firenze, dove non sono stati invitati né D’Alema né Cuperlo, nascerà veramente «un fiore», come promette il titolo dell’incontro. Forse l’accelerazione di Renzi verso il congresso potrebbe costringere i tre sfidanti a fare altrettanto: mettersi presto attorno a un tavolo e cominciare a lavorare insieme. Il problema è che hanno bisogno di tempo per attrezzarsi nel territorio, fare proseliti, creare una rete che dovrà poi trasformarsi in delegati al congresso e in votanti alle primarie. È logico che Emiliano, Rossi e Speranza dicano all’unisono che l’assise in primavera, a tamburo battente, non si può fare. «Serve un congresso vero, una discussione che parta dal basso, non un votificio», sostiene Speranza. «Un congresso in piena campagna elettorale per le amministrative mi sembra una follia», ricorda Rossi. «È necessario - aggiunge il governatore toscano - che alla direzione di lunedì Renzi non metta se stesso al centro, le sue diatribe, i suoi personalismi, le sue ambizioni. Metta al centro i problemi del Paese». Ma se Renzi si mette a correre, loro tre dovranno inseguirlo. 
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L’impotenza del riformismo 

GUIDO CRAINZ Rep 10 2 2017
DIFFICILE negarlo: non stiamo assistendo solo alla fine del “partito di Renzi” o all’agonia del Pd, segnato sin dal suo nascere da divisioni più che da processi di coesione. E spinto poi alla deriva non solo e non tanto da un “cannibalismo interno” capace di soffocare anche i sussulti positivi quanto dall’ossificarsi di culture politiche sempre più inservibili.
DALLE macerie e dai vuoti che hanno accompagnato il tramontare dei grandi partiti del Novecento basati sull’identità e sull’appartenenza. Dalle trasformazioni profonde delle classi. Dal definitivo declinare — molti decenni fa — dell’“età dell’oro” dei Paesi sviluppati e dall’incapacità della sinistra di ripensare radicalmente lo Stato sociale, base solida delle democrazie occidentali.
Stiamo assistendo a una impotenza, se non a una catastrofe, del riformismo italiano presente molto prima dell’ingresso in scena di Matteo Renzi. Impietosamente “svelata” semmai proprio da quell’ingresso, nel contrasto stridente fra il plebiscito che lo elesse segretario e le contemporanee primarie per i dirigenti locali, segnate da risse, brogli, schede comprate e vendute. E il plebiscito nasceva proprio dal fallimento delle vecchie coordinate della politica, che aveva spianato la via all’irrompere di Beppe Grillo: a questo avevano portato l’“usato sicuro” e la bersaniana “cultura della ditta”, sarà bene non dimenticarlo. La vera responsabilità di Matteo Renzi non è di aver provocato un disastro ma di non aver saputo invertire la rotta: per inadeguatezze culturali e politiche prima ancora che per vocazioni da “uomo forte”. Per l’illusione di modificare la situazione con la sola azione di governo, senza por mano a una rifondazione profonda del Partito democratico e delle più generali modalità dell’agire politico (i due impegni, cioè, che aveva preso). Per aver perseguito una “democrazia del leader” che è segnata in realtà non dallo “strapotere del capo” ma dalla sua “fragilità”, come ha scritto bene Mauro Calise: dal suo “essere esposto alla spirale delle aspettative crescenti, dei sondaggi incombenti e delle decisioni impellenti. Con un circuito di legittimazione costantemente sull’orlo di una crisi di nervi, mentre le leve istituzionali disponibili restano limitate e inadeguate”. Anche per questo oggi gli stessi risultati positivi dell’ultima stagione sembrano scomparire e tiene invece il campo la sensazione diffusa di una disfatta, di un dissolvimento senza rimedio.
Crisi radicale della sinistra e crisi radicale della forma-partito si intrecciano dunque in modo inestricabile. Ben prima della stagione di Renzi, inoltre, l’idea stessa di sinistra sembrava già “perdersi nella dimensione della memoria, affermata o rifiutata”, per dirla con Carlo Galli: e a un simulacro sembrano oggi alludere sia coloro che la brandiscono come un’arma sia coloro che la avvertono quasi come un fantasma vendicativo.
Viene davvero da molto lontano dunque la crisi attuale. Ha sullo sfondo il dissolversi di arcaici riferimenti ideologici, travolti dal crollo di un mondo industriale che aveva plasmato culture e protagonismi sociali, solidarietà collettive e progettualità politiche. Ed è stata alimentata sin dagli anni ottanta dall’irrompere di una modernità che non sembrava coniugarsi più, come era stato sin lì, con l’allargamento delle conquiste sociali ma vedeva invece dilagare individualismi senza regole, egoismi di ceto, disprezzo crescente per regole e vincoli. Modernità e valori collettivi, modernità e progresso iniziarono a non coincidere più, allora, mentre la “diversità” stessa della sinistra iniziò ad apparire un ricordo del passato e i commossi funerali di popolo di Enrico Berlinguer ci sembrano oggi anche un più generale addio ai partiti novecenteschi, minati ormai nei loro tratti ideologici e nel loro radicamento territoriale. Minati anche dall’affermarsi della “democrazia del pubblico”, cioè dalla progressiva trasformazione della comunità dei cittadini in una platea di telespettatori (di elettori-spettatori, se si vuole). Erosi dall’intrecciarsi di “partito personale” e “partito mediatico”, nell’irreversibile allentarsi dei legami fra leader, partiti e società. Nel delinearsi dunque di leader senza partiti e di partiti senza società, per dirla con Ilvo Diamanti.
Molti nodi si sono sommati e aggravati a vicenda, nel quarto di secolo che ci separa dall’esplodere di Tangentopoli, nel febbraio del 1992, e dal crollo della “prima Repubblica” (un quarto di secolo, fa impressione solo dirlo). Dalle macerie che quel crollo metteva impietosamente in luce ma anche dalle speranze di futuro che sembrò per un attimo alimentare. E in quello stesso 1992 si avviò a Maastricht un percorso europeo che appariva indubbiamente difficile ma pieno di fascino. Un vero abisso sembra separarci da allora: all’interno del Paese, con una “metamorfosi della corruzione” che l‘ha vista espandersi a dismisura e con una sfiducia nella democrazia che fa impallidire il ricordo di quegli anni. E nello scenario internazionale, segnato com’è dal trionfo di Trump e dal diffondersi ovunque delle destre populiste, nazionaliste e xenofobe. Un abisso, non c’è dubbio, ma con esso il riformismo italiano deve misurarsi e ad esso deve dare risposte: il “congresso” vero che lo attende non è misurabile dunque in mesi ma in anni, se non decenni.
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