mercoledì 22 febbraio 2017

Un'intervista a Zachar Prilepin sulla Russia postsovietica e i conflitti in Est Europa



Scrittori in armi 

Popolarissimo e pluripremiato: così il controverso Zachar Prilepin incarna il nuovo nazionalismo nella Russia di Putin “Dalla Cecenia alla Crimea come Pushkin combatto non soltanto con le parole”

ROSALBA CASTELLETTI Rep
MOSCA Le immagini di Zachar Prilepin in mimetica e scarponi, sguardo fiero e posa muscolare, rimbalzano da giorni su social media e tv in Russia, da quando lo scrittore mietitore di premi in patria ha rivelato di essere al comando di un battaglione dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk nell’Est dell’Ucraina. Quarantun anni, quattro figli, Prilepin è la voce di una generazione che, cresciuta durante gli anni della stagnazione di Breznev, ha raggiunto la maggiore età vedendo dissolversi l’Urss. Non a caso le fratture della Russia postsovietica sono il tessuto
della sua vita e dei suoi libri: la guerra in Cecenia dove ha combattuto due volte narrata in Patologie (edito da Voland, come tutta la sua produzione in Italia, e che in estate pubblicherà il suo Il monastero. L’inferno delle Solovki), la militanza nel Partito nazional- bolscevico fuorilegge di Limonov a cui s’ispira San’kja. Ex pugile e guardia privata, Prilepin è del resto uomo di ossimori. Veterano dei reparti speciali Omon, è redattore della Novaja Gazeta di Anna Politkovskaja che ne denunciò gli orrori. Membro del movimento d’opposizione “L’altra Russia”, dopo l’annessione della Crimea ha smesso di criticare Putin. Combattere in Donbass è conseguenza naturale della sua visione nazionalista di una “Grande Russia” che inglobi tutti i territori russofoni e della guerra come vocazione virile.
Soprannominato l’“Hemingway russo”, Prilepin preferisce però iscriversi nella tradizione di Pushkin, Derzhavin e degli altri scrittori dell’età d’oro che racconta nel suo nuovo libro Plotone. Gli ufficiali e i militanti della letteratura russa. Scrittori che, come del resto lui, «non sapevano solo usare il calamaio, ma anche come imbracciare un’arma».
Signor Prilepin, cosa l’ha portata a scrivere il suo ultimo libro?
«Mi colpiva l’immagine fallace della letteratura russa, ora tanto diffusa negli ambienti dell’intellighentsija borghese russa. Gente pronta a giurare sui nomi di Pushkin e di Dostojevskij, che però professa idee completamente contrarie alle loro. I letterati russi erano persone coraggiose, inflessibili, sempre pronte a ribadire le proprie idee non solo con la penna».
Anche lei non ha paura di imbracciare un’arma oltre che la penna.
Che cosa la spinge a farlo?
«La stessa cosa che muoveva i miei predecessori: la consapevolezza che si sta perpetrando un’ingiustizia. La metà della popolazione ucraina è russofona. Fu la Russia a fondare e costruire la città di Odessa. La città di Kharkov (in ucraino Kharkiv, ndr) è russofona come pure le città di Donetsk e Lugansk. Ma l’Ucraina sta perseguendo una politica che io definisco di “genocidio linguistico”, escludendo la lingua e la letteratura russa dall’uso quotidiano e offrendo ai cittadini una visione anomala della storia ucraina, priva di fonti storiografiche».
Oltre diecimila morti nell’Est Ucraina dal 2014: le sembra giusto versare tanto sangue in nome della lingua russa?
«La lingua non è solo un mezzo di comunicazione. È qualcosa di più. La lingua è l’anima di un popolo».
Sono trascorsi vent’anni da quando combatté negli Omon in Cecenia.
Quali differenze vi sono tra allora e la sua attuale esperienza nel Donbass?
«Le situazioni sono ben diverse. Allora l’esercito russo doveva far fronte ai partigiani in città: le unità militari regolari russe avevano in dotazione armi pesanti, carri armati, artiglieria, mentre i “vakhabiti” non ne avevano. La situazione che si è venuta a creare oggi è proprio opposta: a fare i partigiani in città siamo noi. Le forze armate regolari ucraine nel Donbass sono tre o cinque volte superiori alle nostre e, benché disponiamo di artiglieria e carri armati, loro hanno in dotazione molti più armamenti pesanti di noi».
Vede parallelismi tra l’attuale conflitto nell’Est Ucraina e le guerre dell’Ottocento che racconta in “Plotone”?
«Ne vedo con l’insurrezione polacca del 1831, fatto che oggi viene interpretato come una ribellione per la libertà. La realtà era più complessa: i polacchi ribellandosi volevano conquistare Kiev e il territorio dell’Ucraina e della Bielorussia. E nel suo tentativo era appoggiata da Francia e Gran Bretagna. In sostanza la Polonia, allora divisa tra Russia e Paesi europei, voleva una rivincita sulla sconfitta del 1812 quando aveva schierato contro la Russia circa 70mila soldati sotto le bandiere di Napoleone. Guardando al presente, le associazioni con quei tempi a me sembrano fin troppo ovvie».
E lei in quale dei suoi illustri predecessori “scrittori soldati” si rivede?
«In nessuno di loro. Vedo me stesso solo in me stesso. Un giorno però mi sono accorto di una cosa semplicissima. Due secoli fa la situazione politica e geopolitica era più o meno la stessa di oggi e anche i protagonisti erano pressoché gli stessi: francesi, tedeschi, britannici, turchi e un po’ dopo anche gli americani. Anche i teatri di discordia erano gli stessi: il Caucaso rivendicato da Gran Bretagna e Impero Ottomano da un lato e Russia dall’altro, l’attuale territorio dell’Ucraina dov’erano attivissimi i polacchi, i Paesi del Baltico e così via... ».
Ha cambiato idea su Putin. Perché?
«La terra è sacra. E anche il desiderio di una parte del popolo russo di difendere la propria indipendenza è sacro. Oggi questi temi mi stanno a cuore più che il tema della corruzione».
Che cosa pensa dell’atteggiamento dell’Occidente verso la Russia?
«La gente si è stancata dei diktat degli Stati Uniti e di un mondo unipolare. La Russia rappresenta un contrappeso come portatrice, lo dico con convinzione, delle autentiche tradizioni europee ».

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