mercoledì 22 marzo 2017

Alfredo Reichlin incarnazione della parabola del "comunismo" italiano

La morte di Alfredo Reichlin. Ragazzi, partigiani, compagni felici in mezzo al popolo 
Il ricordo. Nel libro «Il midollo del leone», il lungo sodalizio con Luigi Pintor, compagno di banco e di lotta
Valentino Parlato Manifesto 23.3.2017, 9:09 
Il compagno Alfredo Reichlin ci ha lasciato: è una seria perdita. E quando scrivo “compagno” ricordo l’epoca del protagonismo politico e culturale del Pci. Alfredo ne è stato uno dei migliori interpreti: uno straordinario compagno. 
La sua vita è stata molto intrecciata a quella dei compagni che hanno fatto questo giornale. Innanzitutto a quella di Luigi Pintor. Erano compagni di banco, al liceo Tasso, ed è proprio grazie a Giaime che ambedue hanno preso la strada che poi li ha portati al Pci. 
Finirono la scuola nel ’43 ma nel grande edificio di via Sicilia tornarono assieme, armati di pistola, già universitari, per la loro prima azione temeraria: entrarono nella stanza del preside fascista, Amante, minacciandolo di rappresaglia se non avesse consentito lo sciopero degli studenti convocato per protestare per l’uccisione di Massimo Gizzio, studente antifascista in un altro liceo della capitale. Poi riuscirono a prendere contatto col Pci e furono arruolati, diciannovenni, nei Gap romani. 
È sempre con Luigi che alla Liberazione decidono di fare il passo dell’iscrizione al Pci. 
«Eravamo comunisti?» – si è chiesto Alfredo nel bel libro scritto qualche anno fa (Il midollo del Leone, Laterza 2010).Lo siamo diventati dopo. E tuttavia se si vuole capire qualcosa della storia d’Italia e del perché il ruolo del Pci è stato così grande, tanti discorsi sul mito sovietico e sullo stalinismo servono ma fino a un certo punto. 
NON SPIEGANO PERCHÉ una generazione che dell’Urss non sapeva nulla (noi compresi) si gettava nella lotta. Non era Stalin ma la patria che ci chiamava. Può sembrare retorico, ma è la pura verità. 
«Io non so se questo sentimento nazionale sarebbe scattato senza l’appello all’unità nazionale che ci arrivò da Napoli, dal capo dei comunisti, un certo Ercoli. Dario Puccini, fratello del futuro regista Gianni, ci riunì a casa sua per spiegarci che l’obiettivo di questo Ercoli era la ’democrazia progressiva’.’Progressista’, cercai di correggerlo. No, ’progressiva’, mi rispose irritato, e mi spiegò il significato fondamentale di questa parola che alludeva a un processo in atto: a come, in certe condizioni, la democrazia poteva trasformarsi in socialismo.(Non ci sono barriere cinesi tra la democrazia portata fino in fondo e il socialismo). Lo aveva detto nientemeno che Lenin». 
FU DI NUOVO ASSIEME A LUIGI che Alfredo approdò, già nel 1945, alla redazione dell’Unità. 
Togliatti, con grande coraggio, aveva capito che se voleva costruire un grande partito popolare doveva rendere protagonisti i giovani cresciuti nel paese durante il fascismo, non gli anziani, pur gloriosi compagni, tornati dall’esilio o usciti dalle carceri. 
Di quel giornale – in cui io, più giovane di sei anni, entrai come correttore di bozze appena sbarcato dalla Libia – Alfredo divenne direttore, poco più che trentenne, succedendo a Pietro Ingrao. Ed è per “ingraismo” che ne fu allontanato nel ‘ 62 e spedito in Puglia dove era nato, ma non aveva mai vissuto (mentre Luigi per le stesse ragioni veniva spedito in Sardegna). 
SEGRETARIO DEL PARTITO in quella regione allora tutta bracciantile lo seguii poco dopo, perché anche io fui mandato «a conoscere l’Italia», e fui per alcuni anni il suo vice. 
Fu una straordinaria esperienza. Reichlin, sempre in quel libro in cui dà conto della sua vita, racconta il primo impatto con la Puglia, quando parla della felicità: l’immensa felicità della politica che si fa popolo, che riscrive la storia. 
«In Puglia incontrai una umanità: i compagni. Mi trovai immerso nella vita di un partito che era anche una straordinaria comunità umana»Alfredo Reichlin 
«La profonda emozione di riscoprire gli italiani, il paese vero:le borgate, le fabbriche, i braccianti. Ricordo quando arrivai a Bari da Roma una sera tanto tempo fa (erano i primi anni ’60) per assumere la direzione dei comunisti pugliesi. Non conoscevo nessuno. Cenai in una squallida trattoria con Tommaso Sicolo, il mio vice, un operaio di Giovinazzo di straordinaria intelligenza. Stazza 110 chili. Non avevo mai visto mangiare un piatto così grande di pastasciutta. Mi comunicò che il giorno dopo dovevo fare un comizio a Corato. Era la prima volta che parlavo in piazza. Non so quello che dissi. Ricordo solo una piazza immensa e un mare di coppole. Gli zappatori. In Puglia incontrai una umanità: i compagni. Mi trovai immerso nella vita di un partito che era anche una straordinaria comunità umana». 
QUANDO IO ARRIVAI in Puglia Alfredo era riuscito ad aprire l’organizzazione anche a qualche giovane che bracciante non era. Stava crescendo un gruppo di intellettuali – Franco De Felice, Mario Santostasi, Giancarlo Aresta, Beppe Vacca, Felice Laudadio – formatisi fra l’università e la casa Editrice Laterza. 
Vito Laterza, che ne era il direttore, divenne nostro amico e ci offrì la vecchia villa dove d’estate alloggiava Benedetto Croce, autore fondamentale della casa editrice. Lì andammo a vivere con Alfredo, l’abitazione era bellissima ma ormai a pezzi, in attesa di essere demolita, gelida d’inverno. Lì si svolsero discussioni infinite sulla questione meridionale, di cosa voleva dire – non in astratto, ma a partire da quel contesto concreto – una rivoluzione in occidente che non fosse una semplice variante del riformismo socialdemocratico né del marxismo-leninismo di tipo sovietico. 
Fu una bellissima stagione. 
ANCHE DOPO – per tutti gli anni ’60 – continuammo a incontrarci molto: a Roma, a dirigere la commissione culturale, era venuta Rossana, molto amica di Alfredo, e sebbene non sia mai diventata una corrente, visse in quegli anni pre-’68 un’area ingraiana che la pensava in modo analogo. Così come Ingrao anche Alfredo non ci seguì nell’avventura de Il Manifesto. 
Le nostre strade politiche si separarono, non i rapporti umani, sebbene per un po’ di anni, i primi, le relazioni fra chi come Alfredo e Ingrao faceva parte del vertice del partito e chi come noi ne era stato radiato, furono anche tesi. 
Alfredo accettò la scelta della maggioranza del Pci anche quando si arrivò allo scioglimento del partito nel gennaio ’91 e poi le successive trasformazioni in Pds, Ds, Pd. 
Una rottura gli è sempre sembrata un arbitrio, quasi un atto di superbia. Fino all’ultimo ha continuato a riferirsi a quel che era restato come “il Partito”. Non riusciva nemmeno a immaginarsene un altro. Ma alla fine non ha più retto e ha scelto anche lui la strada del dissenso aperto: votando No al referendum e scrivendo, solo pochi giorni prima di morire, a commento del Lingotto, un feroce articolo contro il renzismo. 
LE ULTIME PAGINE de Il Midollo del Leone sono dedicate ai fratelli Pintor. 
Si parte dalla foto della loro classe di liceo e Alfredo torna a guardare quei volti di loro ragazzi. «Sopratutto – scrive- il volto di Luigi, il mio compagno di banco e fratello di Giaime, insieme al quale scoprivo i libri, facevo i grandi pensieri, e poi combattei fianco a fianco tra i partigiani, e poi ancora ci ritrovammo nella redazione dell’Unità. Era un ragazzo davvero straordinario e ne parlo perché vorrei che lo avessero conosciuto i tanti simili a lui, che certamente esistono e che ormai devono decidersi a prendere la parola. Luigi era il nostro capo…..Passò solo un anno ed egli venne a casa da me in quella sera tristissima del dicembre 1943 per dirmi che Giaime era morto, dilaniato da una mina mentre attraversava la linea sui monti dell’Alto Volturno. Noi avevamo 18 anni, Giaime 4 o 5 di più. E Giaime resta per me il simbolo di una generazione». 
«L’ultima generazione non ha avuto tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito»Alfredo Reichlin 
Rispetto agli intellettuali antifascisti delle generazioni precedenti, questa non si è fatta affascinare dall’intimismo, ha «lasciato ai vecchi intellettuali delusi la confusione dei loro propositi. L’ultima generazione non ha avuto tempo di costruirsi il dramma interiore: ha trovato un dramma esteriore perfettamente costruito». 
E poi ricorda le parole di Calvino su Giaime: «L’esempio di Pintor, una delle tempre umane più estranee al decadentismo che pure veniva da un’educazione letteraria che era quella del decadentismo europeo, ci testimonia come in ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia». 
IL SUO LIBRO, ALFREDO lo conclude con queste parole: «Di questo ’midollo del leone’ c’è un gran bisogno. Se Vittorio Foa fosse ancora vivo e mi rivolgesse di nuovo quella domanda – credevate nella rivoluzione? – io risponderei con questi pensieri». 
«In ogni poesia vera esiste un midollo di leone, un nutrimento per una morale rigorosa, per una padronanza della storia»Alfredo Reichlin 
L’addio a Reichlin 

La camera ardente sarà allestita a partire dalle ore 10 di giovedì 23 marzo presso la Camera dei deputati (sala Aldo Moro). 
Alle 14,45 ci sarà una cerimonia di saluto, sempre alla Camera, sala della Regina.

“Quella idea d’Italia appresa da Togliatti” 
Il ricordo di Emanuele Macaluso “Credeva nel partito per la Nazione”
ROMA «Non le nascondo che quando l’ho saputo ho pianto. La morte di Alfredo mi provoca un grande dolore. L’ho sempre considerato un fratello. Avevamo spesso posizioni politiche diverse ma, al fondo, c’era questo senso profondo dell’appartenenza a una comunità. La margherita ha perso un altro petalo. Siamo rimasti in pochi di quella generazione, io, Giorgio Napolitano e Aldo Tortorella». Emanuele Macaluso, 93 anni, parla al telefono con voce stanca.
Reichlin ha scritto pochi giorni fa un articolo sull’Unità. Ha parlato di rischio Weimar.
«L’ho subito segnalato a Giorgio Napolitano: “Leggilo, è il suo testamento politico”. C’era molta amarezza, molta preoccupazione per l’Italia. E io condivido in pieno. Non ci sono più partiti, o una destra democratica, o forze consistenti a sinistra».
Ne discutevate insieme?
«Avevamo anche convinzioni diverse. Io non ho aderito al Pd, Alfredo sì. Io ero convinto che l’ibrido, cui è stata data vita, non avrebbe portato rinnovamento. Vede, io, Alfredo, Amendola, Ingrao, abbiamo vissuto in un partito che aveva un asse politico-culturale comune. Se non diventa comunità, rimane un aggregato politico-elettorale».
Reichlin vedeva la fragilità di questo Paese e ha insistito molto affinché il Pd si assumesse la responsabilità di diventare “partito per la nazione”.
«Parlava di “partito per la nazione” non di “partito della nazione,” che è un’altra cosa, che mette tutti assieme, che è il partito pigliatutto. Alfredo ricordava sempre la lezione che ci diede Togliatti: l’interesse di classe deve essere sempre compatibile con l’interesse della Nazione».
( a. lo.)

Luciana e Roberta tra amore e lotte 
I legami con Castellina, Carlotto e la grande tribù di figli e nipoti
SIMONETTA FIORI
La prima volta si sfiorarono al liceo Tasso, nel febbraio del 1944. Luciana Castellina, allora quindicenne, sente un gran trambusto al piano di sopra: due ex alunni sono entrati nella stanza del preside con la pistola in mano. Uno si chiama Luigi Pintor, l’altro Alfredo Reichlin. Non hanno ancora vent’anni e nella Roma occupata dai nazisti hanno scelto di combattere con i gappisti. Per l’incontro vero tra Luciana, una delle compagne più belle e seducenti del Pci, e Alfredo già giornalista all’Unità, bisogna aspettare la fine della guerra e il comune impegno nella periferia romana, dove esplode la felicità vera, «l’immensa felicità della politica che riscrive la storia», avrebbe raccontato lui.
Al principio c’è freddezza. Ma Alfredo non si lascia scoraggiare, sempre più attratto da quella giovane donna che ha fama di pietra dello scandalo. Ne I comunisti e l’amore, Daniela Pasti ricorda il viaggio della Castellina a Praga nel 1947, l’ospitalità da lei chiesta a un compagno non per passare la notte ma per stendere la propria biancheria. E la reazione allibita di un giovane Enrico Berlinguer, che dormiva proprio in quella stanza. Personalità indipendente e anticonformista: Reichlin non smette di corteggiarla. E lei ricambia, colpita dal suo sguardo profondo e ironico. Si sposano nel 1953. Dal matrimonio nascono Lucrezia e Pietro, destinati a diventare due economisti affermati nel cuore del capitalismo. Cinque anni dopo la separazione, un lutto per entrambi.
La felicità di Reichlin negli ultimi 35 anni è legata a Roberta Carlotto, la seconda moglie elegante e colta che è stata direttrice di Radiotre. Con lei ha condiviso passioni intellettuali e politiche, nella grande tribù che includeva ex moglie, figli e nipoti. «Non mi resta che ripetere, cari nipoti: riprendetevi la vita». È la dedica di uno dei suoi ultimi lavori, poche righe che hanno il sapore del commiato.

Nessun commento: