venerdì 10 marzo 2017

Con Gramsci, Zagrebelsky e Nannicini la lotta di classe dei ricchi trionfa




Corriere della Sera Passigli


Corriere della Sera della Loggia


“Renzi vittima di viltà Un patto con Berlusconi non è per forza inciucio” 

Zagrebelsky: l’ex premier sfibrato e isolato mi fa simpatia Il M5S si apra alle alleanze per non perdersi nella protesta 

Giuseppe Salvaggiulo Stampa 9 3 2017
Dieci anni fa Gustavo Zagrebelsky era al Lingotto ad ascoltare Walter Veltroni. Ora, dopo la campagna per il No al referendum, il presidente emerito della Corte Costituzionale osserva da lontano mentre lavora alla quinta edizione di Biennale Democrazia, intitolata «Uscite d’emergenza». «L’emergenza è il pericolo incombente che si affronta con lo stato d’eccezione per non naufragare - dice -. Ma emergenza è anche la vita nuova che si affaccia e chiede d’essere riconosciuta. La prima è figlia della disperazione; la seconda, della speranza». 
L’Europa a quale emergenza appartiene: naufraga nel populismo o spera in una vita nuova?
«Quando il pensiero s’inaridisce, pullulano gli slogan. Oggi trionfa il populismo. Fino a qualche tempo fa, l’antipolitica di cui si parla sempre meno, perché quelli che usavano questa parola accusatrice hanno dimostrato di avere essi stessi poco a che fare con la politica».
Considera anche il populismo solo uno slogan?
«Ma chi è il populista? Populisti erano i socialisti russi della seconda metà dell’800 che si battevano per l’abolizione della servitù della gleba; Simón Bolívar che lottava per il riscatto delle plebi in America Latina; Perón e suoi descamisados; ma anche Napoleone I e III con i loro plebisciti; Hitler è stato detto populista da papa Francesco e la stessa parola è stata usata per Obama, Clinton e ora Trump. Da noi Berlusconi e Renzi non sono populisti, così come Grillo, ciascuno a modo suo? Finiamola con le etichette».
Davvero lei crede che la parola su cui ci si divide nel mondo sia in fondo vuota e ingannevole?
«Forse un significato generico ce l’ha, ma è tale da sconsigliarne l’uso. Chi si dà l’aria di anti-populista molto spesso dichiara implicitamente di parlare a nome di qualche establishment, di qualche oligarchia; populista è chi è contro. Dunque il significato è altamente politico, attiene a un aspetto dello scontro in atto nelle nostre società».
Tra le parole dell’ambiguità annovera anche il tanto evocato e temuto «sovranismo»?
«La globalizzazione ha ridotto gli Stati a gestori dell’ordine pubblico e ha privato masse di individui di tutele giuridiche e sociali. Non mi pare sbagliato rivendicare qualche parte di sovranità. Il punto è che dilaga un sovranismo aggressivo e nazionalista, a scapito di uno democratico».
Come si fa a distinguerli?
«Tutti, a cominciare dal Pd, dovrebbero chiarirsi con se stessi invece di insistere nella retorica inconcludente del “battere i pugni sul tavolo”. Il punto di partenza deve essere la Costituzione che non prevede affatto la liquidazione della sovranità nazionale. Ne consente “limitazioni” e non senza condizioni: devono servire alla costruzione della pace e della giustizia tra le Nazioni».
L’Unione Europea serve a questo?
«Mi pare che sia sempre più diffusa la risposta negativa. E allora occorre ripartire dall’interesse nazionale: non per chiuderci, ma per aprirci a una fattiva politica d’integrazione per quegli scopi. Riaffermazione della sovranità ed Europa non sono incompatibili. Se manca la prima, saremo in balia dell’Europa della finanza e della burocrazia».
Il Lingotto 2017 può affrontare questi temi?
«Come tutti quelli che hanno a cuore politica e democrazia, lo spero. Ma temo il profluvio di slogan e di parole vuote. Wittgenstein ha scritto qualcosa del genere: di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Si potrebbe aggiungere: si deve tacere anche di ciò di cui è inutile parlare. Solo delle cose che potrebbero essere diverse da ciò che diciamo merita parlare».
Che c’entra Wittgenstein con il Lingotto?
«Se sottoponessimo i discorsi pubblici a questo semplicissimo test, resterebbe molto poco. Il culmine si è toccato nell’esordio di un documento del Pd di qualche anno fa: “Noi, i democratici, amiamo l’Italia”. Perché, qualcuno sospettava il contrario?».
E l’idea dei tavoli di ascolto?
«Il rischio delle vuote parole che svaniscono nel nulla mi pare assai alto. Invece che generici giri di opinioni su temi quali “populisti e democrazia” o “il potere del sapere”, non sarebbe più congrua una discussione su proposte specifiche del partito? Un partito che dice: non ho idee, datemele voi, dichiara impotenza e superfluità».
Come vede Renzi?
«Sfibrato e sempre più isolato, vittima d’una certa viltà di coloro che gli sono stati intorno non senza adulazioni e connessi benefici e ora, nella difficoltà, lo stanno abbandonando. Soltanto per questo, merita simpatia».
Come uscirà il Pd dalle primarie?
«Corre un gran rischio. Se Renzi, malgrado ciò che sta accadendo, vince le primarie è altissimo il rischio che il partito cada nella fossa, perda definitivamente la sua identità».
Come finirà la partita sulla legge elettorale?
«Sebbene si dovesse approvare “subito!”, non se ne parla più. Sembra comunque che tutti, volenti o nolenti, siano rassegnati a ritornare alla proporzionale, la formula che fa meno paura in un sistema tripolare. Oltretutto, è quella più funzionale a una grande coalizione per poter arginare l’ascesa dei 5Stelle: il fantasma che turba i sonni di tanti».
Si ripiomberà nella prima Repubblica?
«Potrebbe essere un’uscita non voluta ma subita. Con prospettive inquietanti che spetta ai professionisti della politica scongiurare. Se la Repubblica di Weimar è in vista, spetta a loro agire per evitarla».
Anche ai Cinquestelle?
«Certo. Non mi piace l’ostracismo nei loro confronti. Al pari, pur apprezzando lo spirito di novità che portano nella vita politica, non mi piacciono i settarismi, i riti inquisitoriali che portano alle espulsioni e l’indisponibilità a cercare accordi, mediazioni».
Come vede l’evoluzione del M5S?
«In assenza di responsabilità nazionale potrà ancora gonfiarsi di voti protestatari. Ma attenzione: nella protesta possono confluire cose d’ogni genere, anche contraddittorie e pericolose. La diffidenza reciproca con coloro che potrebbero contribuire a costruire un gruppo dirigente all’altezza della situazione non è un buon viatico verso il governo».
Rifiutare alleanze è il loro Dna.
«Mettersi e mettere in gioco, qui è il problema della democrazia nel nostro Paese. La democrazia è il regime del compromesso. Non lo dico io, ma il grande giurista Hans Kelsen. Il punto è: compromessi con chi, con quali contenuti, in vista di che cosa. Non ogni compromesso è, come si dice, “inciucio”».
Nemmeno quello con Berlusconi?
«Se non è un compromesso corrotto, sugli interessi, chi l’ha detto che è inciucio per definizione? Le cose cambiano, bisogna leggere bene le carte. Se sono pulite, a costo di scandalizzare, dico che non vedo a priori lo scandalo».
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Una strategia per convincere imprese, uomini e capitali approfittando della Brexit 
Anche i piani di risparmio per chi mette soldi in imprese tricolori e gli sconti per finanziare l’innovazione vanno nella stessa direzione

MARCO RUFFOLO Rep
La rotta è quella Londra- Milano. E’ principalmente su quella direttrice che l’Italia giocherà la nuova partita europea del dopo Brexit. Ed è su quella rotta che si spera di trasferire nel nostro Paese un nutrito numero di milionari inglesi. Ma cosa c’entra la Brexit con la residenza dei super ricchi? In realtà, i governi di mezza Europa si stanno attrezzando per srotolare tappeti rossi ai piedi delle aziende britanniche che meditano di trasferirsi in paesi della Ue per non perdere i vantaggi comunitari. Ma prima Renzi e ora Gentiloni si sono convinti che per attirare imprese e relativi capitali, non bastano le misure di detassazione introdotte dalla legge di bilancio 2017, non sono sufficienti i superammortamenti ideati dal ministro Calenda. Per battere la concorrenza delle altre capitali comunitarie – Parigi e Dublino in testa – è necessario secondo il governo garantire ai manager di quelle imprese e alle loro famiglie trattamenti fiscali di favore. Appunto quel forfait da 100 mila euro, più 25 mila per ogni familiare. Dunque, il regalo ai Paperoni (non solo inglesi) che dovessero trasferire in Italia la propria residenza, dicono al Tesoro, non ha come obiettivo quello di far comprare loro qualche Ferrari in più o qualche villona di lusso, ma rientra in una strategia più generale, che coinvolge il destino di numerose industrie, banche e finanziarie, soprattutto inglesi.
E’ una strategia attrattiva che poggia su quattro pilastri. Il primo è l’insieme di incentivi a investire introdotti dal governo: dai superammortamenti ai crediti a innovazione e ricerca, dagli sgravi sui brevetti ai vantaggi per chi investe nelle star up innovative sull’esempio di Francia e Regno Unito (con detrazioni che salgono al 30%). Il secondo pilastro è la riduzione dell’Ires che grava sui profitti aziendali. Poi ci sono i piani individuali di risparmio: gli investitori privati che indirizzano i propri risparmi (fino a 30 mila euro l’anno per 5 anni), per finanziare imprese italiane o europee con stabile organizzazione in Italia, non pagheranno tasse né sui capital gain né sui rendimenti. Infine, proprio per rendere il panorama italiano ancora più attraente, arriva la tassa forfettaria per i ricchi che si trasferiscono in Italia, a cominciare proprio dai manager delle aziende interessate a stabilizzarsi e investire nel nostro Paese. Non solo britanniche. Il che rende necessario uno scambio di informazioni tra l’Italia e le nazioni di provenienza sui profili personali di quei Paperoni.
Turchia, Brasile, Venezuela: anche da questi Paesi si attende un afflusso di imprese e di manager, mossi da ragioni di instabilità politica o di crisi economica. Ma è soprattutto su Londra che si concentrano le prossime mosse del governo. A fine marzo, i ministri Padoan e Alfano, insieme al sindaco di Milano Giuseppe Sala, saranno nella City per spiegare i punti di forza di un possibile trasferimento di aziende, risorse e manager nella capitale finanziaria italiana.
Eppure, per quanto si tenti di spiegare il regalo fiscale ai super- ricchi alla luce di un piano generale assolutamente condivisibile, è difficile che quella misura si sottragga alle critiche di chi difende i principi di equità. “E’ vero, è soprattutto un problema di equità di trattamento”, commenta Alessandro Santoro, professore associato in scienza delle finanze all’Università Bicocca di Milano. «Accanto a manager italiani tassati con le aliquote Irpef, ci saranno manager stranieri che almeno sui redditi da patrimonio prodotti all’estero verseranno solo 100 mila euro. Su un reddito di un milione di euro, non infrequente tra i massimi dirigenti, significa appena 10 per cento, ossia meno della metà della aliquota Irpef più bassa». Ma non è solo un questione di impari trattamento. Viene infranto anche un altro principio, quello che impone di tassare una persona in base alle regole del suo Paese di residenza. E se poi il riccone di turno trasferisse solo la residenza conservando invece il domicilio nel Paese di origine e usufruendo così di una tassazione eventualmente più favorevole? Ci vorrebbe un ferreo controllo da parte dell’Agenzia delle entrate.
Insomma, le controindicazioni non mancano. E il tutto acquisirebbe i contorni di una beffa se poi il favore agli “high net worth individuals” – coloro che hanno elevati patrimoni – non servisse allo scopo. Se il super ricco, invece di scegliere Milano, invece di investire in una nostra start up, invece di fare un piano di risparmio per finanziare le nostre imprese, si trasferisse in un altro Paese dell’Unione europea (con condizioni magari ancora più allettanti), o decidesse di restare a Londra. Eventualità non certo da escludere, visto che Theresa May ha già annunciato sconti fiscali quasi equivalenti a quelli promessi da Donald Trump.
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PD, COSA RESTA DELL’ULTIMO LINGOTTO 

GUIDO CRAINZ Rep
VI SONO molte ragioni per riflettere ancora sul Lingotto di dieci anni fa. Per ricordare il progetto riformatore che Veltroni propose allora, in un momento di crisi del centrosinistra e mentre si diffondeva una protesta antipolitica dai contorni inediti (lo segnalava in quello stesso 2007 l’irrompere sulla scena di Grillo con il V-day).
Era stato molto contrastato sin lì il processo di fusione fra i Democratici di sinistra e la Margherita, e il precoce declinare del secondo governo Prodi illuminava contraddizioni pesanti e rissosità suicide. Stava tramontando così la speranza che aveva portato milioni di cittadini alle urne delle primarie, nell’ottobre del 2005: una speranza delusa già dal “cartello elettorale” del centrosinistra, una Unione senza anima e con troppi “corpi” reciprocamente estranei e confliggenti. Si collocava appunto in quel quadro la proposta che Veltroni avanzava al Lingotto candidandosi a segretario del nuovo partito, ed erano realmente centrali gli assi su cui si basava: in primo luogo la necessità di ripensare radicalmente il profilo della sinistra europea, rinserrata «in schemi che la fanno apparire vecchia e conservatrice, ideologica e chiusa». Incapace di una vera rifondazione del welfare, arroccata su conquiste del passato anche quando esse «finiscono con il privare di diritti fondamentali altri pezzi di società». E nel “patto fra generazioni” proposto allora la necessità di rivedere il sistema pensionistico si intrecciava alla reale attenzione per i drammi dei giovani, esposti alle traumatiche trasformazioni del lavoro («La vita non può essere saltuaria. La vita non può essere part-time»).
Correva lungo tutto il discorso inoltre la sensazione di essere «all’ultima occasione» per il riformismo italiano e per il rinnovamento dell’agire pubblico («la cattiva politica grava sull’Italia come la neve che tiene piegato un grande albero» dirà poi, dando avvio alla campagna elettorale). Di qui l’importanza di una «democrazia che decide» («un Paese può perdere la sua democrazia per “eccesso” ma anche per “difetto” di decisione») e la necessità di porre argine alla frammentazione politica («i partiti di governo sono oggi una decina, e altrettante sono le formazioni all’opposizione »). Di qui «il principio da affermare e da far vivere», consegnandolo al Paese: «agli italiani, che devono poter scegliere chi dovrà governarli per cinque anni; a chi governa, che deve avere gli strumenti necessari per attuare il programma per cui è stato eletto». Di qui, anche, l’idea del partito a vocazione maggioritaria.
Su questo slancio il Pd guidato da Veltroni riusciva ad invertire una spirale di sfiducia che sembrava inarrestabile, riportava nelle piazze il “popolo di sinistra” e conquistava un 33% che alla vigilia sembrava un miraggio. Forse proprio il clima di speranza della campagna elettorale fece vivere con delusione quel risultato, e quella delusione diede nuovo alimento ad una irresponsabile guerra interna: di qui le dimissioni cui Veltroni fu costretto e poi una crescente irrilevanza del centrosinistra, arroccato su vecchi contenuti e modalità dell’agire. Sordo alla crescente protesta contro il degradare della politica. Incapace di incalzare realmente il centrodestra, pur segnato da un declino che si manifestava già nel 2010 ed esplodeva l’anno successivo: ed allora i segnali vennero da referendum che il Pd non aveva promosso (sul nucleare e sull’acqua “bene comune”) e dalla vittoria nelle elezioni amministrative (non di rado grazie a candidati che il Pd aveva inizialmente avversato, da Milano a Cagliari). Di qui il paradossale risultato delle elezioni politiche del 2013, con il partito di maggioranza che perdeva oltre sei milioni di voti e il principale partito di opposizione che non ne conquistava neppure uno ma ne perdeva a sua volta più di tre milioni. E sprofondava dal 33% della “sconfitta” del 2008 al 25% della “non vittoria” del 2013 (è sorprendente che i responsabili di quel disastro lo abbiano presto rimosso).
Nasceva qui la stagione di Renzi e la riflessione su di essa — oggi sostanzialmente conclusa, perlomeno nella sua “spinta propulsiva” — deve di necessità comprendere molti dei nodi presenti in quel discorso al Lingotto di dieci anni fa. Talora aggravati: come immaginare e costruire il futuro, ad esempio, nella realtà messa a nudo dalla crisi internazionale? È possibile affrontare i nuovi scenari con “l’ottimismo della volontà” senza ripensare a fondo l’idea stessa di “ripresa”? Si pensi anche al nodo, tragicamente aggravatosi, del rinnovamento della politica. Una parola vuota, se non si avvia un reale processo di selezione e di formazione della classe dirigente: ma su quali saperi e culture esso dovrebbe basarsi, su quali competenze, metodi, modalità dell’agire? Su questo la riflessione non è neppure iniziata, ed è un pessimo segnale.
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