lunedì 13 marzo 2017

Essere figli di un SS nella Germania del dopoguerra

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Christoph Hein: Il figlio della fortuna, e/o

Risvolto
Cosa deve al proprio padre un figlio che la madre chiama “figlio della fortuna”? Nel nuovo romanzo di Christoph Hein, in cui l’autore dispiega tutte le sfumature della propria arte narrativa e tutta la sua capacità di analisi storica, questo padre è un’ineludibile forza motrice. Sebbene in senso tutt’altro che positivo. Il figlio, cittadino della nascente Repubblica democratica tedesca, deve infatti trascorrere l’intera sua vita, sin dalla nascita nel 1945, ad allontanarsi dal defunto padre, criminale di guerra, dal punto di vista psichico, fisico, lavorativo, geografico. Molti sono i tentativi del figlio di sottrarsi alle ombre lasciate dal padre: la scelta di prendere un altro cognome, la decisione di entrare nella Legione straniera a Marsiglia, il ritorno nella RDT poco dopo la costruzione del Muro, dove però gli viene impedito di terminare gli studi... 

Un tripudio di stereotipi per il fantasma di un SS 
Narrativa tedesca. Ultimo erede di quella «Nuova oggettività letteraria» che ha lavorato a infrangere il tabù della mimesi, Christoph Hein si cimenta nell’impresa, non nuova, di raccontare la Germania del dopoguerra attraverso la storia di un uomo: «Il figlio della fortuna», da e/o

Luca Crescenzi Manifesto Alias 12.3.2017, 20:08 
La letteratura tedesca, come si sa, non ha mai conosciuto un realismo paragonabile a quello delle altre letterature europee maggiori. Il veto alla mimesi artistica nasce, in Germania, agli albori dell’età moderna, quando gli umanisti riprendono dalla tradizione neoplatonica, e soprattutto da Boezio, l’idea che la ripetizione della realtà nella rappresentazione poetica non offre alcun conforto all’uomo afflitto, ne raddoppia le sofferenze e lo riduce a uno stato di prostrazione cui solo la filosofia può porre rimedio.
Per secoli, quindi, la «grande tradizione» letteraria ha affinato i suoi strumenti speculativi intrecciandoli ai molti modi in cui ha saputo rappresentare le forme della realtà e ha prodotto grandissime opere laddove ha potuto confrontarsi o scontrarsi con una forte cultura filosofica: è accaduto nell’età di Goethe con il pensiero illuminista ed è accaduto di nuovo a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, quando la filosofia di Nietzsche ha offerto alla letteratura nuove prospettive di indagine e rappresentazione del mondo.
Sono stati dunque rari e per lo più tardivi, in Germania, i tentativi di infrangere il tabù della mimesi e hanno preso forma soprattutto a partire dagli anni venti del Novecento, quando la «Nuova Oggettività» di scrittori come Anna Seghers, Alfred Döblin o Hans Fallada – per citare solo quelli ancora oggi più noti – ha proposto nuovi paradigmi della rappresentazione, influenzando anche le generazioni successive. 
Christoph Hein – di cui e/o pubblica con encomiabile rapidità e nella paziente traduzione di Monica Pesetti Il figlio della fortuna (pp. 432, 19,50) apparso in Germania nel 2016 – si può considerare certamente un erede significativo di questa tradizione e nel suo romanzo si cimenta con l’impresa, non nuova, di rappresentare la storia della Germania del dopoguerra attraverso la vita di un uomo, in questo caso il preside di un liceo dei dintorni di Magdeburgo.
La storia prende le mosse dal giorno in cui il protagonista, Konstantin Boggosch, riceve da un ufficio una lettera indirizzata, però, a Konstantin Müller. Nella moglie, Marianne, nasce il sospetto di non conoscere veramente la storia e l’identità del marito il quale subito dopo, in un interminabile flash back racconta a se stesso la verità sul suo passato. Naturalmente, aveva un padre nelle SS e lui stesso, come prima di lui sua madre, ha cercato di rimuoverne il ricordo cancellandone persino il nome. Poiché la cosa è resa subito chiara da Hein, il lettore confida in un dipanarsi del romanzo diverso da ciò che promette questo attacco tutt’altro che sorprendente nella letteratura sul passato tedesco. Vana speranza.
Del resto, il titolo originale, Glückskind mit Vater – che si potrebbe tradurre come Bambino fortunato con padre e fa sciaguratamente il verso al titolo di quel capolavoro della letteratura tedesca del dopoguerra che è Gruppenbild mit Dame di Heinrich Böll – avrebbe dovuto suggerire minor ottimismo.
Per tutto il romanzo il fortunato sventurato vede riapparirsi davanti il padre (mai conosciuto) sotto forma di pregiudizi e discriminazioni poiché il regime della Ddr nulla può concedere al discendente di un diretto responsabile dei crimini di guerra nazisti. Ma è lui stesso a sentire l’eredità paterna come un peso e quindi si dà inizialmente a una vita di vagabondaggi per l’Europa. 
Ha inizio da qui una trama di assoluta improbabilità che, nel 1958, fa uscire dalla blindatissima Ddr il ragazzino quattordicenne, lo conduce prima a Monaco e poi a Marsiglia, dove vorrebbe entrare nella legione straniera, ma finisce a lavorare, ben retribuito, come traduttore per quattro amici che lo accolgono come un figlio. Questi quattro sono, per di più, ex partigiani che, improbabilità nell’improbabilità, sono stati pure vittime del padre di Konstantin (o così almeno sembra). Fra vacanze in Italia – dove ovviamente viene derubato – e flirt francesi, Konstantin vive fra il 1958 e il 1961 come un giovane della generazione Erasmus, salvo sentire nostalgia della mamma e ritornare proprio mentre a Berlino stanno costruendo il muro e via di seguito. 
Ripetitivo, prolisso e infarcito di stereotipi, il romanzo è scritto in una prosa piatta come il mare, né mai lo smuove un dubbio. Si concentra sulle vicende personali del protagonista, e quando i paesi del Patto di Varsavia invadono la Cecoslovacchia, pur avendo il romanzo la pretesa di funzionare come una metafora della storia tedesca, tutto quel che riesce a dirne sta in non più di una pagina e mezzo.

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