lunedì 27 marzo 2017

Il favoloso mondo di Repubblica, tra rivoluzione degli ombrelli, vecchietti bielorussi da Nobel, prigioni sovietiche in cui ti lasciano il cellulare per twittare con Ezio Mauro











Corriere della Sera · 15 ore fa

“Ma Vladimir non è Hitler La strada del dialogo è nell’interesse di tutti” 
Kissinger agli europei: il Cremlino non ha una politica di conquista Ed esorta alla cautela con Trump: guardare alla sostanza 

Paolo Mastrolilli Stampa 27 3 2017
«Putin non è Hitler. Negoziare con lui, a condizioni precise, è nell’interesse di tutti». È il consiglio che Henry Kissinger lancia con il suo intervento all’incontro annuale della Trilateral Commission, avvenuto a Washington durante il fine settimana. L’ex segretario di Stato aggiunge di essere contrario ad un intervento unilaterale americano in Corea del Nord, dove la soluzione è un accordo complessivo con la Cina per la sicurezza dell’intera regione, mentre agli europei offre questo suggerimento per gestire il rapporto con l’amministrazione Trump: «Non date troppo peso alle dichiarazioni estemporanee, ma concentratevi sulla sostanza, perché il totale fallimento di un Presidente americano non conviene neppure a voi».
Kissinger ha un lungo rapporto di amicizia con Donald Trump, e nelle settimane scorse ha lavorato per facilitare il dialogo tra Washington e Mosca, dove tra pochi giorni andrà in visita il segretario di Stato Tillerson, per valutare le possibilità di negoziare e presumibilmente sondare il terreno per un vertice tra il capo della Casa Bianca e quello del Cremlino. È da questo punto, quindi, che lo stratega dell’apertura alla Cina durante l’amministrazione Nixon comincia la sua riflessione: «Sulla Russia credo ci sia una certa incomprensione. Putin non è la replica di Hitler, e non intende lanciare una politica di conquista. Il suo obiettivo è ripristinare la dignità del proprio Paese, da San Pietroburgo a Vladivostok, come è sempre stato. Ciò risponde ad un antico nazionalismo, ma anche ad una storia diversa dalla nostra. Considerare Mosca come un potenziale membro della Nato è sbagliato». Quindi «dipingere Putin come il super cattivo globale è un errore di prospettiva e di sostanza». 
L’ex segretario di Stato ritiene anche che ci sia una dose di esagerazione nella minaccia posta dal Cremlino: «Sul piano militare, la Russia non è in grado di batterci. Ha un’economia più piccola di quelle di tutti i Paesi europei del G7 presi singolarmente, e il suo peso non è paragonabile a quello della nostra rivalità strategica con la Cina». Nello stesso tempo, anche se l’Occidente fosse in condizione di provocare la disintegrazione della Russia, «questo non dovrebbe essere il nostro obiettivo», perché creerebbe una situazione di instabilità che non giova a nessuno. 
Tutto ciò spinge Kissinger a favorire il dialogo, perché «l’alternativa sarebbe uno scontro dannoso per tutti, anche se Mosca non è in grado di sconfiggerci sul piano militare». La ripresa della mediazione diplomatica, però, va ancorata ad alcune condizioni ben precise: «L’Ucraina deve restare indipendente, ma senza entrare nella Nato», mentre il destino della Crimea può fare parte del negoziato. Quanto alla Siria - dove Putin si è preoccupato di puntellare Assad più che combattere l’Isis - e all’intera regione, bisogna stabilire con chiarezza che «la Russia non ha diritto a stare in Medio Oriente». Partendo da questi punti, sarebbe possibile avviare un dialogo finalizzato a neutralizzare la minaccia di Mosca, in cambio della sua reintegrazione dignitosa nella comunità internazionale responsabile.
Kissinger suggerisce un simile approccio realista anche al problema della Corea del Nord, e quindi della Cina: «Sono contrario - dice con fermezza - ad un intervento militare unilaterale americano contro le strutture nucleari di Pyongyang». La soluzione, secondo lui, sta invece in «un negoziato diretto tra Washington e Pechino, per raggiungere un accordo complessivo sulla sicurezza dell’intera regione. In altre parole, non possiamo discutere delle atomiche della Corea del Nord, senza accennare a quelle esistenti nel Sud e alla presenza militare americana». Il suggerimento implicito è che gli Usa potrebbero rinunciare ad alcune posizioni in Estremo Oriente, se la Repubblica popolare si impegnasse non solo a neutralizzare il programma nucleare di Pyongyang, ma anche a dare garanzie di sicurezza agli altri alleati come Tokyo, Seul, e tutti i Paesi coinvolti nella disputa sulle isole del Mar Cinese Meridionale.
Quanto all’Europa, Kissinger la esorta ad avere pazienza: «Il fallimento totale di un Presidente americano non conviene neppure a voi. Quindi non guardate troppo alle dichiarazioni estemporanee, ma concentratevi sulla sostanza del rapporto transatlantico». Alcune prese di posizione di Trump hanno messo in discussione proprio le due colonne storiche di tale rapporto, cioè la Nato e la Ue, ma secondo il suo consigliere anche questo potrebbe essere trasformato in uno spunto per migliorare le relazioni: «Io ero contrario alla Brexit, ma ora che è avvenuta penso possa diventare un’occasione per ridiscutere il futuro dell’Unione, che non può avere solo una dimensione burocratica». Come quello della Nato, che «resta essenziale, ma è anche giusto rivedere i suoi strumenti e i suoi obiettivi nel corso del tempo».  BY NC ND ALCUNI DIRITTI RISERVATI

Inutili le cannoniere di Trump: il declino Usa è troppo strutturale 
Dopo il G20. La furbizia al tavolo delle trattative, insieme ai tweet minacciosi, può senz’altro essere utile ma certo non risolverà problemi di fondo che risalgono agli anni Settanta 

Fabrizio Tonello Manifesto 22.3.2017, 23:58 
Il G20 di Baden Baden, in Germania, si è chiuso con uno stringato comunicato conclusivo senza alcun impegno sul protezionismo e i cambiamenti climatici. L’incontro dei 20 ministri delle finanze e dei governatori delle banche centrali è terminato senza parlare di free trade, il che è un po’ come se un documento del Vaticano dimenticasse di citare lo Spirito Santo. 
È l’effetto Trump, ma è presto per dire se davvero le promesse del nuovo presidente di scatenare una guerra commerciale con la Cina saranno mantenute: probabilmente qualcuno dei suoi collaboratori gli sta spiegando che la Borsa di Wall Street andrebbe a picco se davvero Washington imponesse dazi del 35% sulle merci importate dalla Cina. 
In realtà Donald Trump si trova a fronteggiare gli stessi problemi che aveva di fronte Barack Obama e sta cercando, a tentoni, una risposta diversa. Questi problemi, legati fra loro, sono: il declino manifatturiero, la stagnazione della produttività e la crescita delle disuguaglianze. Se Obama e Clinton pensavano di gestirli in un quadro di regole internazionali ispirate dagli Stati uniti (il tristemente celebre Washington Consensus), Trump pensa di affrontarli con un ritorno alla politica delle cannoniere. Quasi dicendo al mondo: «Noi siamo più grossi e più cattivi, quindi si fa come diciamo noi». 
Da questo nasce l’ostilità agli accordi sul clima, il disinteresse per le organizzazioni multilaterali, i tentativi di far prevalere gli interessi americani in trattative bilaterali. È The Art of The Deal, l’abilità nel negoziato, trasferita dai saloni pacchiani della Trump Tower alle più austere stanze dei ministeri del Commercio a Pechino, a Tokyo o a Berlino. La furbizia al tavolo delle trattative, insieme ai tweet minacciosi, può senz’altro essere utile ma certo non risolverà problemi di fondo che risalgono agli anni Settanta. 
Il declino manifatturiero degli Stati Uniti non è un problema di un mese fa né degli ultimi cinque anni: è una questione di lungo periodo che viene dal rallentamento della crescita della produttività, così come dagli incentivi delle multinazionali per produrre all’estero. Se Apple fabbrica i suoi telefonini in Cina, con margini di profitto vertiginosi, è perché può ottenere un prodotto uguale o migliore di quello che avrebbe se i suoi stabilimenti fossero in California. A un quinto del costo, naturalmente (però i salari stanno aumentando rapidamente in Cina, quindi la situazione potrebbe cambiare). 
Malgrado i nuovi gadget che il mercato dell’elettronica sforna ogni settimana, la stasi della produttività è un fatto su cui quasi tutti gli economisti sono d’accordo. L’ex segretario al tesoro Larry Summers lo ha addirittura battezzato «stagnazione secolare» mentre gli scaffali delle librerie si riempiono di volumi con titoli come The Innovation Illusion o The Complacent Class. Che si dia la colpa del fenomeno agli eccessi di regolamentazione o alla perdita di spirito imprenditoriale e pionieristico non ha molta importanza: più o meno tutti gli esperti concordano che la macchina dell’economia americana nel suo complesso va piuttosto piano. In fondo non dovrebbe essere una sorpresa: un paese dove l’80% del prodotto interno lordo viene fornito dai servizi non può crescere come uno dove l’80% del Pil viene dall’agricoltura e dall’industria. 
Nell’industria si possono produrre più automobili, o più computer, con meno operai. In agricoltura si possono coltivare più ettari di terreno con meno addetti, estrarre più riso, o più uva, dagli stessi campi migliorando le tecniche di lavorazione. Nei servizi un’ora di massaggio è un’ora di massaggio, gli aumenti di produttività semplicemente non ci sono. La finanza è un’attività parassitaria: quindi se ci sono più addetti alla vendita di junk bonds o più cittadini che investono in azioni l’economia reale non ne trae alcun beneficio. 
Se a questi fattori strutturali si aggiunge l’esplosione della disuguaglianza dovuta al totale controllo del governo da parte degli oligarchi si capisce che i problemi dei lavoratori americani non saranno risolti né dal muro al confine col Messico, né dal fare la faccia feroce con la Cina, né dalle trivellazioni di nuovi pozzi di petrolio nell’Artico. Il capitalismo di Trump è una versione nazionalista e aggressiva di un sistema economico squilibrato e in affanno per dinamiche di lungo periodo su cui i governi hanno ben poco impatto. Certo, si possono arricchire un po’ di amici, rafforzare le banche a danno delle assicurazioni, potenziare l’industria militare a danno delle fasce più deboli della popolazione, ma nessun problema di fondo può essere risolto, o anche solo mitigato, dalla gang della Casa bianca attuale. 
La domanda è: quanto tempo ci metteranno gli americani per accorgersene?

3 commenti:

Anonimo ha detto...

E' lesa maestà sostenere che Putin e Medvedev sono due autocrati col vizietto di reprimere i loro oppositori?

materialismostorico ha detto...

Per prima cosa presentatevi con nome e cognome, per seconda accendete il cervello. Non esiste la lesa maestà. Ma qui non si tratta di lesa maestà bensì' di una campagna politico-culturale basata sul doppio standard.

massimo z ha detto...

Per chiamare le cose con il loro nome: trattasi di repressione della peggior specie. Il cervello lo accenda lei, oppure compri un paio d'occhiali che la rendano meno strabico. L'essere antiamericanista e antisionista non autorizza, credo, a trattare tutte le malefatte del duo Putin/Medvedev come frutti di campagne politico ciulturali o, peggio, di congiure, così come sembra di cattivo gusto scrivere che Domenico Quirico si sia fatto rapire o che i cani de Sinai siano sono gli israeliani quando la maggioranza degli stati arabi ancora non accetta l'esistenza di Isreale. A quando l'elogio del coreano Ciccio SunSun?