lunedì 27 marzo 2017

La Commedia di Dante secondo Giorgio Inglese

Commedia. Opera completa
Giorgio Inglese: Dante Alighieri, Commedia Opera completa. Revisione del testo e commento di Giorgio Inglese, Carocci pp. 1296, € 90,00

Risvolto
Novant’anni dopo l’impresa di Giuseppe Vandelli (1921-28),  la revisione testuale del poema dantesco e il suo commento  interpretativo vengono qui proposti in un insieme organico, sul fi lo  di una lettura fedele ai grandi maestri della critica novecentesca  e nondimeno attenta ai contributi più recenti. Una speciale cura  per la chiarezza e la leggibilità delle note vuole favorirne l’utilizzazione  da parte dei lettori più giovani.

Quel codice migrato nella bisaccia di Jacopo Alighieri 
Giorgio Inglese. Il testo offerto da Giorgio Inglese nell’edizione commentata del poema di Dante per Carocci, ha passato il vaglio di buona parte della tradizione manoscritta, sulla base di Petrocchi: il «ramo» fiorentino è prevalente 

Paolo Pellegrini Manifesto Alias Domenica 26.3.2017, 19:14 
La lunga traversata verso la terra promessa – il testo critico della Commedia – affonda le radici nelle intelligenze formidabili dei filologi del secondo Ottocento. Alla triennale di Lettere gli studenti imparano presto che per ricostruire il testo originale di un’opera si va in cerca degli errori significativi, cioè quelli che ci permettono di individuare famiglie di codici affini, tracciarne la genealogia e risalire al padre di tutti costoro, che si suppone sia il più vicino al codice dell’autore. Naturalmente, più lungo è il testo e più numerosi sono i testimoni, più aumenta la disperazione del filologo, al quale spesso – diceva il grande Remigio Sabbadini – non resta che «mettersi le mani nei capelli e strapparseli fino a uno».
Il primo approccio filologico al capolavoro dantesco si deve al bambino prodigio di Halle, Johann Heinrich Friedrich Karl Witte, professore universitario a poco più di vent’anni: il giovanotto era partito lancia in resta con l’idea di collazionare tutti i codici della Commedia, ma ben presto aveva dovuto alzare le mani di fronte a una tradizione testuale ingovernabile (oltre ottocento manoscritti). Ne uscì, nel 1862, un’edizione della Commedia basata su pochi testimoni, ma destinata a diventare una pietra miliare nella storia della filologia dantesca. L’eredità di Witte fu raccolta da Edward Moore, fondatore della Società Dantesca di Oxford e conoscitore sommo del pensiero e dell’opera di Dante. All’uscita dei suoi Contributions to the textual Criticism of the Divine Comedy (1889) – dedicati, non a caso, a Witte – l’arcigno reverendo aveva collazionato oltre duecento testimoni del poema: uno sforzo senza precedenti che spianò la via all’impareggiabile edizione oxoniense di tutte le opere del poeta (1904).
Il gigante Adolfo Mussafia Ma che la tradizione manoscritta della Commedia fosse ben al di là dall’essere addomesticata si era accorto, in quello stesso giro di anni, un altro gigante della filologia e della linguistica, il poliglotta dalmata Adolfo Mussafia. Cimentandosi anch’egli con il groviglio di codici e varianti, Mussafia suggerì, quale via per domare l’idra dalle cento teste, il lavoro di équipe: esaminando integralmente solo i testimoni a lui vicini, ciascuno studioso avrebbe consegnato alla res publica dei dantisti le tavole di collazione per venire a capo, in tempi relativamente brevi, dell’intera tradizione manoscritta nota. Il suggerimento, geniale e modernissimo, non fu accolto: ciascuno preferì lavorare per sé e per la propria gloria.
E finalmente venne il tempo dell’Italia. Dopo i generosi ma impacciati tentativi di Ernesto Monaci, presero in mano il timone Michele Barbi e Mario Casella in vista dell’edizione del centenario (1921). Nemmeno qui si approdò a un testo definitivo, ma Barbi individuò circa ottocento loci critici – e cioè, come si è detto, errori o luoghi dove il testo presenta un evidente problema di lettura – lungo i quali si sarebbe potuto procedere al riordino della tradizione. Il lavoro era impostato, ma per concluderlo si dovettero attendere gli anni sesanta e l’intervento di Giorgio Petrocchi. Benevolmente patrocinato dal grande Contini, Petrocchi eresse un muro a monte della tradizione testuale che faceva capo al Boccaccio: oltre quel limite i manoscritti avevano iniziato a mescolare reciprocamente i propri testi a tal punto da rendere impossibile individuarne le parentele. Restava la cosiddetta antica vulgata, ossia restavano solo i codici più antichi. Ma Petrocchi aveva introdotto un’altra novità: messi da parte i loci di Barbi, aveva adottato un canone proprio e in parte nuovo, costituito da quattrocento passi, su cui ricostruire le affinità dei codici. Ne uscì la prima vera e propria edizione critica della Commedia con tanto di stemma bipartito (1966-’67): in buona sostanza, a un ramo ‘alfa’, costituito soprattutto da testimoni di ascendenza fiorentina, si contrapponeva un ramo ‘beta’ di matrice settentrionale. Il testo risultava da un ragionevole compromesso tra queste due linee. Quella di Petrocchi fu un’impresa epocale, e parve chiudere definitivamente ogni discussione. O almeno così si pensava, perché negli anni novanta un altro filologo caparbio, Federico Sanguineti, si diede a percorre su e giù la penisola riesaminando pazientemente buona parte dei testimoni e mettendo in discussione il lavoro di Petrocchi. Ne uscì una nuova edizione (2001) fondata soprattutto sulla tradizione manoscritta settentrionale: il testo sollevò le perplessità di qualche collega ma ebbe il merito indubbio di rilanciare la questione dantesca.
L’ultimo atto della contesa vede protagonisti Paolo Trovato e Giorgio Inglese. Il primo sta ancora lavorando alla sua nuova edizione critica; il secondo, pubblicati presso Carocci Inferno (2007) e Purgatorio (2011) offre ora, per il medesimo editore, l’intero poema: Dante Alighieri, Commedia Opera completa (pp. 1296, € 90,00). Non inganni la professio modestie in calce al titolo «Revisione del testo e commento di Giorgio Inglese». Ineccepibilmente, in coda all’Introduzione l’autore dichiara di avere speso «sia pure in modo non esclusivo, circa quindici anni della mia vita» nella preparazione del testo. Chi conosce i prolegomena di Inglese sa che egli ha passato al vaglio in modo scrupoloso buona parte della tradizione manoscritta sulla base dei loci individuati da Petrocchi, e ha cercato di rendere conto a sé e ai colleghi delle proprie scelte testuali e della fisionomia del testo adottato. È netto il favore concesso al ramo fiorentino che – in disaccordo col collega Trovato, fautore deciso della radice settentrionale – deriverebbe in ultima analisi dal codice migrato prestissimo a Firenze (1322) nella bisaccia di Jacopo Alighieri. Quanto alla lingua del testo – altra croce dei filologi – Inglese si affida ancora a più antichi testimoni fiorentini e giustifica la scelta nelle Note di grammatica storica in coda a ciascun volume.
Cerbero che ingoia gli spiriti
Il commento è sobrio ma allo stesso tempo ricco e aggiornatissimo. Un paio di esempi per apprezzare le novità: a Inferno VI, Cerbero che – come abbiamo imparato a scuola grazie a Petrocchi – «iscoia ed isquatra» gli spiriti, ora invece li «ingoia e disquatra», in modo del tutto conforme alla tradizione medievale, per cui il cagnaccio è un divoratore di carni, e in armonia con la tradizione iconografica della Commedia, che lo vede sempre con qualche malcapitato tra le fauci. A Inferno XXVII, tra le fonti dantesche del «consiglio frodolente» di Guido da Montefeltro («lunga promessa con l’attender corto»), che permise a Bonifacio VIII di espugnare Palestrina, si cita il Compendium romanae historiae di Riccobaldo da Ferrara, addotto altre volte dai commentatori. Ma Inglese sa che il Compendium è troppo tardo per poter fungere da fonte dantesca e giustamente vi affianca le precedenti Historiae dello stesso Riccobaldo, perdute per questa parte, ma ricostruibili e probabile fonte dell’autore. Una precisazione per nulla scontata, indice della serietà del lavoro. Certo, la saltuaria (e parca, per vero) inserzione nelle note delle sigle dei codici (Ham, Triv, Mart) e delle relative lezioni potrebbe scoraggiare il pubblico non accademico; e tuttavia sarebbe un peccato rinunciare ai non pochi e preziosi rilievi stilistici e storico-eruditi: il filtro sapiente dei nostri insegnanti ne consentirà allora l’adozione anche nelle scuole superiori.

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