martedì 7 marzo 2017

La polemica su Don Milani e un clima reazionario e incattivito



Inediti. Don Milani figlio di papà (anche nella fede)Frugando negli archivi di famiglia, una nipote del Priore rivaluta la figura del padre Albano, rimasta in secondo piano rispetto alla madre ebrea e ne scopre i profondi interessi per il cattolicesimo
Avvenire Roberto Beretta sabato 25 marzo 2017

Lorenzo Tomasin Domenicale 26 febbraio 2017


Uscire dal donmilanismo
Grammatica e ortografia sono reazionarie? Lo diceva don Milani. O non sono forse la cosa più importante da insegnare?

Mastracola dOmenicale 26 3 2017
Le Paginette di questo mese mi sa che saranno un’unica Pagina. Ancora sulla scuola. Bene o male, che io lo voglia o no, la scuola ancora occupa i miei pensieri, sollecitati ora da due dibattiti che il «Domenicale» ospita e che potrebbero sembrare lontani tra di loro, ma a me appaiono sorprendentemente molto vicini. 
Il primo riguarda la lingua italiana, ovvero la scarsa conoscenza e capacità linguistica – ortografica e grammaticale – che sembra contraddistinguere i nostri giovani. Così denuncia la «lettera-appello dei 600», firmata da professori della Crusca e non, linguisti, insegnanti e scrittori (tra cui la sottoscritta). Mi sono stupita due volte: la prima, dell’attenzione che la lettera ha riscosso. Finalmente! È una battaglia che, personalmente, conduco da una quindicina d’anni almeno (non da sola, per fortuna: basti pensare a Segmenti e bastoncini, il formidabile libro di Lucio Russo del 1998!) e che si è sempre dissolta nelle nebbie. Ma si sa, dipende dal momento: una voce può cadere nel momento sbagliato. Evidentemente questo è giusto, e me ne rallegro.
Credo che tutti dovrebbero firmare un appello del genere. Tutti i cittadini, dico, italiani e stranieri, dovrebbero insorgere, protestare, denunciare lo stato d’ignoranza e decadimento non solo linguistico ma culturale in cui versiamo. Dovrebbero insorgere anche persone che non appartengono all’ambiente dei linguisti, accademici e insegnanti di scuola: indistintamente, tutti coloro che hanno a cuore i libri, primi fra tutti gli scrittori e i lettori, gente cui mi pare debba importare moltissimo che si continui a scrivere bene e a capire quel è scritto. E naturalmente, primi fra i primi, i professionisti dei libri: gli editor, per esempio, coloro che controllano ogni frase, ogni parola, ogni virgola, e fanno sì che un libro esca senza errori, né ortografici né grammaticali né logici, neanche uno! 
La seconda cosa che mi ha destato stupore è che non tutti siano d’accordo, cioè che per alcuni non sia affatto vero che i giovani non sanno parlare e scrivere in italiano. Secondo costoro sarebbe solo l’opinione dei soliti pessimisti-catastrofisti-nostalgici-reazionari. Quindi, dipende… C’è chi denuncia il decadimento e c’è chi lo nega. Alla fine si riduce sempre tutto a una questione di ottimismo o pessimismo. 
Mi son fatta l’idea che dipenda dalle solite questioni ideologiche. Sembra che il pessimismo sia di destra, e l’ottimismo di sinistra… (ci vorrebbe Giorgio Gaber!). Sembra, insomma, che per chi di noi si professa pro-gressista sia molto arduo ammettere, seppur in un ambito parziale e delimitato, una leggera forma di re-gresso. Detto mirabilmente da Jean-Claude Michéa: «Un militante di sinistra è sostanzialmente riconoscibile, ai nostri giorni, dal fatto che gli è psicologicamente impossibile ammettere che, in qualunque campo, le cose potessero andare meglio prima». 
Ma non dovrebbe essere, la decadenza linguistica, un fenomeno oggettivo, assodato e incontrovertibile, se in una classe di liceo i due terzi dei ragazzi prendono l’insufficienza in dettato ortografico? E non dovrebbe oggettivamente far riflettere il fatto che ci si sia ridotti a far dettato al liceo e finanche all’università, pessimisti o ottimisti che si sia? O forse si pensa che il linguaggio verbale sia solo uno dei possibili linguaggi, e come tale sia soggetto al tempo, e sia oggi in via di estinzione in attesa che nascano altri, e ben più “nuovi”, sistemi di comunicazione ed espressione?
In quanto alla questione se si debba far grammatica alle elementari, o medie, o superiori o università, non so, mi sembra talmente lapalissiano che sia meglio cominciare a sei anni che a diciotto… Aggiungo solo, per quanto vale, che dalla mia esperienza diretta di insegnante di liceo ho notato quanto sia difficile estirpare errori ortografici in ragazzi che hanno ormai quindici anni, nonché farli entrare per la prima volta a quell’età nel tempio logico-consequenziale dell’analisi del periodo, qualora non abbiamo avuto il bene di frequentarlo prima, detto tempio.
Ma, come ho ripetuto nei miei libri fino alla nausea, penso che la mia generazione espressamente non abbia voluto insegnare grammatica, né far veramente leggere i classici a scuola. E questo per questioni ideologiche. Non far grammatica è di sinistra. Il che implicherebbe che farla (e difenderla) è di destra? O esiste una grammatica democratica e una no? In effetti, ora ricordo, esiste un documento di «pedagogia linguistica democratica» del 1975, in cui si dice: «Buona parte degli errori di lettura e ortografia dipendono da scarsa maturazione della capacità di coordinamento spaziale, essi dunque vanno curati non insegnando norme ortografiche direttamente, ma insegnando a ballare, ad apparecchiare ordinatamente la tavola, ad allacciarsi le scarpe». Non vorrei sembrare banalmente deduttiva, ma mi pare che da qui emerga che l’ortografia non è democratica e, anche, che forse il nuovo metodo (indiretto e democratico) non ha funzionato benissimo: i giovani oggi sanno forse ballare, ma qualche problemino ortografico pare ce l’abbiano. A margine: da tutto ciò si spiegherebbe anche perché, in un altro grande dibattito in corso, il liceo classico sia sempre bollato di élitarismo (ovvero scarsa democraticità): in effetti, difficile fare latino e greco senza grammatica e analisi logica.
E qui veniamo al secondo, e più recente dibattito: quello su don Milani. Comincia Lorenzo Tomasin (il 26 febbraio, su questo giornale), schierandosi dalla parte della professoressa della famosa Lettera. Continuano Carlo Ossola e Franco Lorenzoni (il 5 marzo), difendendo «una scuola democratica». 
Nessuno mette in dubbio l’altissimo valore dell’operato di don Milani, e di tutti coloro che insieme a lui si batterono per aprire la scuola ai ceti meno avvantaggiati. Ed è giustissimo, come fa Ossola, collocare storicamente quell’operato, sacrosanto negli anni ’60, quando l’Italia si avviava a un processo di modificazione sociale enorme. Se poi la scuola, proprio a partire da quelle idee, è andata storta, don Milani non c’entra. «Non si possono imputare ai Padri le colpe dei figli», dice Ossola. Sono d’accordo. (In un mio libro del 2011, dedicai un intero capitolo a distinguere tra don Milani e il “donmilanismo”!). Ma i libri sono libri, e come tali vanno giudicati, anche al di là del loro tempo, visto che i libri travalicano il tempo. Quindi dovremmo tutti con pazienza rileggere oggi Lettera a una professoressa, soprattutto per questo sorprendente fenomeno: che don Milani rimane a tutt’oggi, dopo cinquant’anni, l’unica forte icona (molto sacralizzata, invero!) cui continua a ispirarsi la nostra scuola (si vedano i ministri dell’Istruzione che lo citano sempre, a ogni discorso d’insediamento, a qualsiasi parte politica appartengano. Cosa su cui dovremmo interrogarci… Cos’è, un omaggio dovuto al nostro cattolicesimo?). Dovremmo rileggere oggi quel libro, distinguendo, in don Milani, l’operato (encomiabile almeno nelle intenzioni) dall’opera (discutibile, a tratti aberrante). I libri hanno una loro vita, separata dalla vita dei loro autori. Sarebbe il colmo che giudicassimo Guerra e pace in base a come Tolstoj trattava la moglie!
Anche Tomasin, nel suo articolo davvero molto coraggioso (chi tocca don Milani muore!), parte di qui, dal fatto che ha riletto ora quel libro, e dallo sconcertato stupore che ha provato. Stupore che s’incentra su due punti: che la scuola prefigurata da don Milani “è giust’appunto quella che oggi tutti deprecano”, e che quel suo librino trasudi odio di classe, risentimento, ovvero il rancore dei poveri verso i ricchi, di Gianni figlio del contadino verso Pierino figlio del dottore. 
Condivido lo stesso stupore, e per le stesse ragioni. In effetti, la nostra scuola oggi è esattamente quella che voleva don Milani cinquant’anni fa. Infatti abbiamo emarginato sempre più la grammatica e la letteratura (dei classici, in primis) sostituendola con attività di vario intrattenimento (v. i progetti del POF). Andiamo a rileggere i passi in cui s’invita la professoressa a non fare grammatica perché la lingua è appannaggio dell’élite, e a non fare Foscolo o l’Iliade del Monti perché la difficoltà di quei testi umilia i “poveri”. Ad esempio: «Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri (…). I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro (…). Tutti i cittadini sono eguali senza distinzione di lingua, l’ha detto la Costituzione. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione». Bene. È da cinquant’anni che facciamo a scuola più Costituzione che grammatica; oggi in particolare facciamo Educazione alla cittadinanza, non certo Educazione alla grammatica. E andiamo al finale del libro, dove è espresso il sogno della nuova scuola, democratica: «A pedagogia vi chiederemo solo di Gianni. A italiano di raccontarci come avete fatto a scrivere questa bella lettera. A latino qualche parola antica che dice il vostro nonno. A geografia la vita dei contadini inglesi. A storia i motivi per cui i montanari scendono al piano. A scienze ci parlerete di sarmenti e ci direte il nome dell’albero che fa le ciliegie».
E noi questa scuola abbiamo fatto e facciamo: ha vinto l’esperienza (il saper fare, si dice così?), non certo il sapere. Non dovremmo quindi stupirci se ora i nostri ragazzi non sono capaci di scrivere, non sanno dov’è il Caucaso, non studiano più latino e hanno un lessico ristrettissimo. Ma sia chiaro, il colpevole non è don Milani, siamo noi, è la pervicacia sconsiderata con cui per cinquant’anni abbiamo continuato quella sua strada, forse giustissima allora, ma oggi? L’operazione di don Milani allora aveva un senso, perché il problema era di includere i figli dei contadini e fare una scuola per tutti. Ma oggi il mondo è cambiato… Non abbiamo a scuola i figli dei contadini, e se li abbiamo, non versano nello stato di cinquant’anni fa. Certo, abbiamo ancora, e sempre più, i deboli da proteggere: i ragazzi che arrivano dall’estero, che abitano in quartieri socialmente e culturalmente degradati. A questi dobbiamo pensare. Ma come? Che l’idea di don Milani avesse allora un senso, non implica che quel senso non fosse sbagliato già allora, e che lo sia probabilmente oggi più che mai. Voglio dire che si potrebbe avere un’idea esattamente contraria, per raggiungere lo stesso nobile fine: cioè, proprio per aiutare i figli dei contadini (tradotto i ragazzi oggi più deboli), si potrebbe rendere più difficile, e non più facile, la scuola. Tradotto, dovremmo fare proprio l’Iliade del Monti (che, tra l’altro, piace moltissimo ai ragazzi!), e non approntare ridicole traduzioncine, semplici e prosastiche, col linguaggio più piatto possibile, perché gli attuali “figli dei contadini” non facciano fatica e siano inclusi! Inclusi in cosa, poi? In un percorso di studi fittizio e ingannevole, che li lascia impreparati ad affrontare gli studi più alti e le professioni più ambite? C’è una sottile punta di razzismo, direi, in questa idea che i ceti cosiddetti ceti subalterni non possano elevarsi, emanciparsi dalle loro origini e accostarsi alla cultura alta.
Ma niente, siamo fermi a cinquant’anni fa, non vedo spiragli. La vera domanda è questa: ma noi potremo mai far serenamente grammatica e letteratura senza la colpevole sensazione di non essere democratici? Arriveremo mai a pensare che proprio insegnare ai massimi livelli la nostra lingua, facendo leggere i testi più difficili del nostro patrimonio culturale, aiuterebbe i giovani (tutti i giovani!) ad avere gli strumenti per migliorare la loro sorte, di cittadini e lavoratori, ma prima di tutto di persone? Siamo destinati ancora per quanto a trascinarci appresso vecchi fantasmi e arrugginite catene? 
Io credo che dovrebbe starci molto a cuore che i nostri ragazzi scrivano niente e non gnente, ce n’è e non cé né. E soprattutto, che sappiano capire quel che leggono, e costruire un discorso loro, dotato di senso e ben organizzato. Che sappiano cogliere i nessi logici, le sfumature e i significati più profondi di un testo, orale o scritto. Credo che dovrebbe stare a cuore a tutti questo, a pessimisti e ottimisti, gente di destra o di sinistra, cattolici e non. E credo che la strada sarebbe estremamente semplice e piana: se vogliamo che i giovani sappiano l’italiano, bisogna insegnare italiano a scuola, dal primo anno all’ultimo. Ma bisogna volerlo, volerlo veramente, tutti quanti. E decidere di farlo. Non risolveremo mai nulla, se non decideremo tutti quanti - come società, come Italia – che nella scuola sia bene tornare a insegnare a leggere, scrivere e parlare, a partire dalla prima elementare.
Ma noi vogliamo veramente che i giovani sappiano l’italiano? O una scuola dove si insegnino soltanto e umilmente le basi della nostra lingua, con rigore e serietà, ci sembra ancora una scuola troppo reazionaria, antiquata, banale, inutile, poco creativa, poco gratificante e… per niente democratica? © RIPRODUZIONE RISERVATA

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Articolo vergognoso ma c'era una bella risposta di Ossola Domenica

Anonimo ha detto...

Ops non mi ero accorta che si trattava già della risposta di Ossola.

Chiedo scusa