martedì 21 marzo 2017

Sinistra postmoderna: Marx ridotto a Foucault da Macherey

Pierre Macherey: Il soggetto e la norma, ombre corte

Risvolto
Che cosa significa essere soggetto delle norme, per le norme e all'interno delle norme? Fino a che punto la questione del soggetto e? legata a quella delle norme? Quali sono le strutture che definiscono il modo in cui si diventa soggetto?

A partire da questi interrogativi, Pierre Macherey intraprende una puntuale analisi della "società delle norme", che fa dipendere la propria organizzazione "razionale" dall'intervento di tecniche e discorsi disciplinari che invadono e colonizzano il campo della soggettivazione. In un continuo confronto con il pensiero di Michel Foucault, Macherey collega il concetto di "norma" al carattere produttivo del soggetto, individuando uno scarto fra norma e ragione, e istituisce un serrato confronto tra Marx e Foucault allo scopo di "rileggere Marx alla luce di Foucault". Intrecciando letture e riletture di Sartre, Althusser, Deligny, Fanon, Canguilhem (e Billy Wilder), Macherey costruisce ponti fra sistemi ritenuti finora incompatibili, e ci invita a una passeggiata filosofica e politica per mettere in luce i meccanismi ideologici e disciplinari della societa? delle norme di cui liberarsi.


La creatività insidiosa del dominio 
Saggi. «Il soggetto e la norma», tradotto da ombre corte l’importante saggio del filosofo francese Pierre Macherey 
Giulia Valpione Manifesto 14.3.2017, 19:08 
Come leggere le dinamiche attuali del potere? E perché è così complicato pensare una resistenza contro di esso? Perché il potere attuale non è restrittivo, non è una semplice forza negativa contro cui opporsi con una forza di senso inverso: in altri termini, non ha la legge come proprio strumento caratteristico. Al suo posto subentra la norma, su cui si concentra il bel testo del filosofo francese Pierre Macherey Il soggetto e la norma ora pubblicato per Ombre Corte (a cura di Girolamo De Michele, pp. 215, euro 18), del quale era disponibile in italiano, sempre per Ombre Corte, il capitolo «Il soggetto produttivo» (sul quale vedi la recensione di Sandro Mezzadra sul manifesto del 13/06/2013). 
Le leggi, strumenti degli Stati sovrani, sono restrizioni che si applicano a ciò che è, sono una forma indifferente all’oggetto al quale vengono applicate e ciò che non vi si sottomette viene sanzionato, seguendo una logica binaria d’esclusione stabilita una volta per tutte; allo stesso tempo, per quanto possa essere violenta la loro imposizione, lascia uno spazio di libertà nel quale è possibile decidere (anche solo nei confini della propria coscienza) se obbedire o meno. Le regole giuridiche sanzionano, ma la servitù che esigono è sempre, in un qualche modo, volontaria (seguendo i termini del testo di Étienne de La Boétie). 
LE NORME, invece, hanno un potere costituente e creano il campo in cui agiscono. In questo caso la regola prende gradualmente possesso dell’oggetto a cui si applica, trasformandolo in modo da far apparire il proprio esercizio naturale, neutrale e indipendente dalle decisioni umane. Esempi di questa creazione, che è al contempo anche controllo e sfruttamento, si ritrovano nel dialogo che Macherey instaura fra Karl Marx e Michel Foucault attorno al concetto di forza lavoro, nato parallelamente alla società delle norme – non a caso: le norme non sono le leggi dello Stato, la cui genesi è precedente.
L’invenzione cruciale del capitalismo non è la macchina a vapore che ha dato il via alla rivoluzione industriale, ma la forza produttiva, che non preesisteva al proprio sfruttamento e il cui uso (la sua trasformazione cioè da potenza ad atto) è ceduto dal lavoratore al capitalista che ne sfrutterà la capacità creatrice di valore ben oltre il valore necessario al mantenimento della forza lavoro a cui corrisponde il salario pattuito: per questa sua facoltà propulsiva, si sottolinea che l’espressione corretta da usare non è «forza produttrice», ma appunto «forza produttiva». 
Non si tratta però evidentemente di una semplice invenzione concettuale; la forza produttiva è il risultato «di una creazione tecnica collegata all’installazione di specifiche procedure di potere»: è qui che Macherey fa intervenire Foucault e il paradigma delle norme. Queste hanno una dimensione performativa che trasforma l’oggetto a cui si applicano cogliendolo per come esso «può divenire, quando se ne migliorano le potenzialità». 
METTENDO AL CENTRO dello sfruttamento capitalista la forza produttiva, unendola alla normatività, è possibile spiegare come il capitalista eviti l’ostacolo dei limiti insuperabili nell’estrazione del plusvalore assoluto, dati da un lato dall’impossibilità di allungare oltre le 24 ore la giornata lavorativa e dall’altro dalle proteste operaie che impongono una diminuzione del tempo di lavoro. 
Di fronte a questi limiti, il capitalista aumenta la produzione di plusvalore relativo sfruttando le potenzialità della forza produttiva che possono essere intensificate se viene esercitata una pressione e un controllo. Attraverso le discipline si produce la forza lavoro «in quanto disposizione soggettiva oggettivamente uniformata alle condizioni di produzione» e la si potenzia permettendo di diminuire il valore della forza lavoro a cui si accompagna (in un apparente paradosso) un aumento della «quantità di valore prodotto dall’attività produttiva». 
La creatività delle norme dà luogo anche all’assoggettamento (modo d’azione proprio delle norme) che costituisce i soggetti: i quali quindi non precedono l’azione delle norme stesse. Questo modo di interpretare il potere avvicina Foucault ad Althusser, che nell’ideologia vedeva appunto un processo di assoggettamento paragonabile perciò alle norme studiate da Foucault. 
TANTO L’IDEOLOGIA quanto la norma si distinguono dalle tecniche di dominio che intervengono a cose fatte; norme e ideologia elaborano «una configurazione globale» in cui c’è spazio solo per soggetti a cui non pre-esistono gli individui: «si è sempre-già-soggetto», riprendendo un’espressione di Althusser. Facendo giocare quest’ultimo con le critiche che Judith Butler gli rivolge (in La vita psichica del potere) e con Frantz Fanon, Macherey ricorda come l’ideologia ha perso la propria forza nell’analisi filosofica e politica per il proprio carattere di idea e di rappresentazione, al posto della quale si preferisce invece sottolineare la violenza con cui il potere attraversa e disciplina i corpi. 
In questo testo si propone comunque di prenderla nuovamente in considerazione, coniando il termine «infra-ideologia». Questo vuole indicare la «manipolazione dell’ordine simbolico» proprio di una società delle norme, che è atta a nascondere che i soggetti sono il risultato di una produzione che funziona assegnando loro un posto all’interno di un campo di possibilità in cui sono attesi e in cui c’è spazio solo e unicamente per dei soggetti delle norme. Su questo processo artificiale l’ideologia poggia una maschera che lo fa apparire necessario, indipendente da una condizione storica del potere: in una parola, lo fa sembrare naturale, consentendogli così di non dover giustificare la propria azione. 
IL POTERE DELLE NORME è particolarmente insidioso per il suo statuto non meramente negativo, ma positivo e creativo. Formando gli elementi che regolano, le norme ne determinano anche il campo di possibilità: se quindi le leggi si applicano a un reale già dato, le norme «si esercitano sul possibile», trasformando gradualmente gli oggetti cui si applicano in direzione di ciò che essi possono divenire.
L’assoggettamento non implica solo la costituzione di soggetti per le norme, ma anche che venga loro imposto un virtuale in cui essi si sviluppano dandogli realtà. Riprendendo Huber L. Dreyfus e Paul Rabinow (La ricerca di Michel Foucault, La Casa Usher), le norme sono lo strumento dell’azione di governo; il che significa «strutturare il campo d’azione possibile degli altri». 
Se il soggetto è il risultato delle norme, attraverso un assoggettamento che è «sempre già dato», è possibile pensare una resistenza? Secondo Macherey, sì. Anzi, è un compito che ci coinvolge tutti, perché i fenomeni del dominio «non sono mai a senso unico», ma contengono sempre la condizione del proprio rovesciamento. E allora bisogna mettere in conto che non si possa dare, in questa strutturazione del potere, una soluzione definitiva. Ci si deve muovere nella prospettiva di una continua lotta per il cambiamento e la trasformazione delle norme, sperimentando e inventando nuove forme per queste norme; attraverso lotte parziali, resistenze sparse da organizzare che contrastino lo sfruttamento e la povertà non chiedendo un ritorno alla sovranità – affidando le proprie speranze in uno Stato che in realtà è già messo fuori gioco dall’attuale struttura del potere. 
LE LOTTE devono dunque farsi carico di inventare piani sovranazionali – si pensi a Ni una menos, la cui forza è data proprio dall’andare ben oltre la richiesta di tutela delle donne da parte di uno Stato. In questa direzione, Macherey suggerisce di approfittare delle peculiarità del soggetto che scaturisce dall’esaurimento del cogito (decretato da Foucault in Le parole e le cose), che non ha identità sostanziale indipendente, ma una forza creatrice che gli permette di darsi le sue proprie norme (al di là della richiesta di leggi e diritti): diventando in prima persona normativo e imponendo un allentamento delle maglie del potere.

2 commenti:

Mario Galati ha detto...

Devo ringraziare Materialismo Storico perché, attraverso la rassegna delle opere di ispirazione foucaultiana, mi sta facendo scoprire il mondo della massima espansione delle banalità, della confusione, dell’errore e, infine, del revisionismo regressivo.
Qualunque disprezzato, dogmatico, giurista, anzi, qualunque studente di giurisprudenza al primo anno, eviterebbe tutte quelle contorsioni e confusioni, anche terminologiche, su leggi, norme, regole, giuridiche e non, di origine statale e non. Queste cose, in modo meno pretenzioso e più chiaro, si insegnano persino ai ragazzi di quindici anni di prima superiore. E devo constatare che il linguaggio giuridico usato è molto più preciso di quello filosofico foucaultiano, anche nel cogliere l’essenza del fenomeno normativo, le sue fonti e le sue relazioni con la realtà sociale e politica, pur se solo sul piano formale e descrittivo. Piano sul quale mi sembra ancorata l’analisi foucaultiana, senza riuscire minimamente ad oltrepassarlo.
“Le norme, invece, hanno potere costituente e creano il campo in cui agiscono”. “L’invenzione cruciale del capitalismo non è la macchina a vapore che ha dato il via alla rivoluzione industriale, ma la forza produttiva, che non preesisteva al proprio sfruttamento e il cui uso (la sua trasformazione cioè da potenza in atto) è ceduto dal lavoratore al capitalista che ne sfrutterà …ecc. “. “La forza produttiva è “il risultato di una creazione tecnica collegata all’installazione di specifiche procedure di potere” “. Anche se sotto si attenua la portata di questa benedetta “normatività”, quando si afferma di metter al centro la forza produttiva unendola alla normatività (quindi, la forza produttiva preesiste alla normatività, ma solo in potenza, per carità).
Le norme determinerebbero il passaggio all’atto di questa potenzialità produttiva.
Tradotto in linguaggio profano (ma che tralascia tutte le contraddizioni e le insufficienze del linguaggio sacro usato e, per questo, lo migliora e lo rende coerente, come non meriterebbe), il proletariato latente formatosi nella dissoluzione della società feudale, viene sfruttato, divenendo propriamente proletariato, in un sistema normativo atto al suo sfruttamento. Sistema normativo che non è solo costituito da norme eteronome coercitive, ma anche da norme autonome, in quanto interiorizzate.
Un approdo veramente impensabile.
Anche se ad esso sono pervenuti persino gli odierni studi di cosiddetta “economia giuridica”, quando affermano che il mercato coincide con le sue regole (anche se ciò contiene un’ambiguità, se ci si riferisce soltanto alle sole regole ufficiali).
E in effetti, credo che a nessuno sia mai accaduto di imbattersi in una sostanza senza forma, tanto per scomodare Aristotele.
Così come credo che a nessuno sia mai capitato di imbattersi nel concetto di egemonia, consenso, coercizione.
Tralasciamo l’analisi storica, non formalistica, di Marx sulla genesi del proletariato (altro che il risultato di una tecnica di disciplinamento, della normativizzazione. E’ il risultato di tutto il processo storico sfociato infine nella rivoluzione “politica” borghese).
Prendiamo le considerazioni marxiane sul moderno stato borghese (separazione tra stato politico e società civile, scissione tra bourgeois e citoyen, uguagliamento giuridico formale nella sfera astratta dello stato politico come funzionale alla conclusione di liberi contratti di scambio mercantile, a cominciare dalla

Mario Galati ha detto...

“libera” vendita di forza lavoro in una società che si fonda sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, diritto uguale in contrapposizione al privilegium medioevale, ecc.).
Qui il diritto uguale è semplice ideologia – riflesso? O è sovrastruttura attiva? E’ ideologia illusoria e ingannevole? O è sovrastruttura reale?
E’ ideologia falsificante ma contemporaneamente è anche realtà ideologica e sovrastrutturale vera, operante.
Ed opera assieme all’ideologia dello stato politico dei cittadini “uguali”, nell’ambito del suo apparato del consenso. Ma senza dimenticare che lo stato borghese è anche apparato coercitivo organizzato del dominio di classe. Una considerazione molto poco raffinata per certi palati, ma senza la quale non si capisce nulla.
Mi sembra che tutto ciò si ponga su un livello superiore rispetto al semplice disciplinamento come tecnica, seppure tecnica plasmatrice, demiurgica, o, addirittura, creatrice.
Già nell’Unione Sovietica degli anni ’20 si discuteva sulla natura e sul ruolo del diritto (Pasukanis e Stucka), su strade diverse dal normativismo formale kelseniano (al quale tutta questa enfasi sul disciplinamento come tecnica sembra avvicinarsi).
Che poi si arrivi a dire che la normativizzazione dà forma e plasma le relazioni sociali in nuce, rese potenziali e imposte dal livello delle forze produttive, mi vien da pensare: cosa c’è di nuovo sotto il sole?
Il che vale ancora di più quando si è così arditi nel dire, più o meno, che il diritto viene usato come strumento coercitivo – repressivo per indurre a comportamenti compatibili con il potere di classe e lo sfruttamento capitalistico (senza scordare che anche la coercizione svolge una funzione educativa, pedagogica, come ci ricordava Gramsci).
La mia impressione è che da parte foucaultiana si scopre l’acqua calda per poi intorbidirla.
E noi dobbiamo sforzarci per tradurre in lingua corrente il limitato nucleo razionale di concetti deja vu rinvenibile in mezzo a tanta fumosa ciarlataneria.
La cui funzione, però, è chiaramente revisionistica e si rivolge a quei ceti medi “intellettuali” che hanno tanta voglia di sentirsi progressisti e alternativi al sistema e al pensiero neoliberista, pur essendone, non solo innocui, ma parte integrante.
Basta vedere come concepiscono la “liberazione”, laddove si suggerisce “di approfittare della peculiarità del soggetto che scaturisce dall’esaurimento del cogito (decretato da Foucault in Le parole e le cose), che non ha identità sostanziale indipendente, ma una forza creatrice che gli permette di darsi le sue proprie norme…” per imporre un “allentamento delle maglie del potere”.
Darsi le proprie norme in un mondo a parte, par di capire, rispetto alla totalità (che orrore questa parola!) sociale, che ne verrà sicuramente contagiata.
La liberazione come fuga dalla realtà, in una nicchia separata, che è tutt’altro dalla teoria storico – concreta del dualismo di potere che crea l’alternativa allo stato borghese, cioè, del processo rivoluzionario.