lunedì 6 marzo 2017

Tradotto il corso di Heidegger su Aristotele del 1924


Martin Heidegger: Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Adelphi

Risvolto
L'interesse di Heidegger per Aristotele, testimoniato da questo corso universitario che il filosofo tenne nel 1924, si colloca nel periodo cruciale dell'elaborazione dell'analitica ontologico-esistenziale di Essere e tempo. In particolare, nell'analisi della Retorica aristotelica compaiono già, in nuce, alcuni ‘concetti fondamentali della filosofia heideggeriana' – come Dasein (esserci), In-der-Welt-sein (essere nel mondo) e Befindlichkeit (il sentirsi situato, la situatività, e anche la situazione emotiva) – destinati a lasciare un segno indelebile nella filosofia del Novecento. Ma, soprattutto, Heidegger si impegna qui – come raramente in seguito – in una brillante fenomenologia dei páthe, delle «passioni», e del ruolo determinante che esse svolgono nella vita e nell'esistenza dell'uomo. La messa in questione del tradizionale privilegio accordato agli atti intellettivi superiori che questo implica suggerisce l'idea che siano costitutivi dell'uomo, allo stesso titolo della ragione, anche gli elementi ‘inferiori’, quali la sensibilità, le affezioni e le passioni. 

Heidegger lettore di Aristotele 

Filosofia. Senza emozioni non ci sarebbero parole: tradotti da Adelphi i «Concetti fondamentali della filosofia aristotelica», un corso del 1924 che evidenzia l’unità originaria di psichico e somatico 
Francesca Piazza Manifesto Alias 5.3.2017, 18:53 
Nel semestre estivo del 1924 all’Università di Marburgo, da poco lasciato il posto di assistente di Husserl a Friburgo, Heidegger tenne un corso interamente dedicato al pensiero aristotelico. Tra i banchi, già alle sette del mattino, c’erano fra gli altri Hannah Arendt, Hans-Georg Gadamer, Hans Jonas e Karl Löwit, allievi eccellenti su i quali la lettura heideggeriana di Aristotele avrebbe lasciato segni profondi. Il corso, nella sua versione integrale, è finalmente disponibile anche in traduzione italiana con il titolo Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (a cura di Mark Michalski, edizione italiana a cura di Giovanni Gurisatti, Adelphi, pp. 441, euro 60,00). 
Erano gli anni che precedevano la pubblicazione di Essere e Tempo e il pensiero aristotelico rappresentava per Heidegger – come si sa e come è stato indagato in Italia almeno a partire dal libro di Franco Volpi su Heidegger e Aristotele – un vero e proprio nutrimento intellettuale. Ma il grande elemento di novità del corso di Marburgo sta nel ruolo svolto dalla Retorica nel pensiero del filosofo tedesco, generalmente poco indagata e molto raramente messa a tema: non per caso, ma in virtù del generale pregiudizio contro la retorica, difficile da sradicare soprattutto tra i filosofi (tra le eccezioni interessanti, nel mondo anglosassone, Heidegger and Rhetoric curato da Daniel M. Gross e Ansgar Kemman nel 2005 e, per l’Italia, Ermeneutica della vita pratica. Deliberazione e persuasione attraverso Heidegger e Aristotele di Armando Canzoneri, Mimesis 2016). 
Ancora prima delle specifiche interpretazioni proposte da Heidegger, l’aspetto più interessante del modo in cui legge la Retorica di Aristotele è proprio la considerazione dell’opera come un testo filosofico: un fatto, purtroppo, tutt’altro che scontato. Lamentando quella sostanziale incomprensione che si rendeva già visibile, secondo Heidegger, nella collocazione della Retorica alla fine dell’edizione delle opere aristoteliche curata dall’Accademia di Berlino, il filosofo tedesco commentava sarcasticamente: «Non si sapeva bene che farsene, dunque in coda! È la prova della più totale insipienza. Da lungo tempo la tradizione non è stata in grado di comprendere la retorica, nella misura in cui si è ridotta ad una disciplina scolastica fin dall’ellenismo e dall’alto medioevo». Alla base della sua lettura sta la giusta convinzione che il testo aristotelico non sia un manuale per professionisti della comunicazione ma l’analisi del «discorrere assieme quotidiano»; o – come ribadirà in Essere e Tempo – «la prima ermeneutica sistematica dell’essere-assieme quotidiano». 
Ciò che meglio fa comprendere la centralità della Retorica nel corso di Marburgo è il fatto che la domanda fondamentale di Heiddegger in queste lezioni riguarda la definizione dell’uomo come quel particolare vivente che ha il logos. Né ragione, né linguaggio nel senso di un sistema autonomo astratto, il Logos è invece per Heidegger il parlare (legein) concreto che è sempre innanzitutto un parlare gli uni con gli altri (e con se stessi), un parlare che – prima ancora di un semplice asserire o trasferire informazioni – è un esortare, un ammonire, un persuadere. Nei termini di Essere e Tempo, logos è discorso (Rede) e non linguaggio (Sprache). 
Appunto di questa accezione del logos si occupa la Retorica, ed è grazie a questo specifico punto di vista che Heidegger può dire: «possedere la Retorica aristotelica è per noi assai più utile che disporre di una filosofia del linguaggio. Nella Retorica abbiamo, infatti, a che fare con qualcosa che tratta del parlare inteso come un modo fondamentale dell’essere in quanto essere l’uno con l’altro degli uomini, sicché una comprensione di tale legein offre nel contempo la costituzione ontologica dell’essere l’uno con l’altro sotto nuovi aspetti». 
Quali sono i principali aspetti dell’essere l’uno con gli altri che Heidegger mette a fuoco? Innanzitutto il ruolo dell’ascoltare, un aspetto che verrà ripreso anche in Essere e Tempo. Nella Retorica Aristotele dice esplicitamente che il fine cui tende ogni logos è colui a cui si parla. Parlare con gli altri non è solo parlare ad altri ma è anche un lasciarsi dire qualcosa da altri. Che l’uomo sia il vivente che ha il logos non allude dunque soltanto, né principalmente, alla sua capacità di parlare ma al fatto che è in grado di prestare ascolto e «non presta ascolto solo per imparare qualcosa, ma per avere una direttiva in merito al prendersi cura pratico e concreto». 
Non c’è niente di irenico in questa centralità del saper prestare ascolto. Il terreno nel quale si realizza il discorrere gli uni con gli altri è, infatti, quello della doxa (opinione), dominio specifico del discorso retorico, che dalla doxa parte e alla doxa non può che tornare. È un terreno caratterizzato dal poter essere anche diversamente, dunque dalla contingenza, dalla possibilità della revisione ma anche del conflitto. In questo dominio della contingenza essere gli uni con gli altri può significare anche essere «l’uno contro l’altro, nel senso che l’uno ha un’opinione, l’altro ne ha un’altra…». Si intravede già in questo passaggio l’analisi che in Essere e Tempo affronterà sul Si (inteso come il si dice, si fa propri del conformismo) e della chiacchiera anche se – probabilmente in ragione dell’ancoraggio ai testi di Aristotele – è meno forte il bisogno, tutto heideggeriano e ben poco aristotelico, di distinzione tra autentico e non autentico.
Centralità dell’ascolto e dominio della doxa sono anche alla base di quello che è forse il punto più alto della lettura heideggeriana della Retorica: l’interpretazione dell’analisi dei pathe (emozioni, passioni), e in particolare quella della paura (phobos) ripresa nel paragrafo di Essere e tempo dedicato all’angoscia (Angst) come situazione emotiva fondamentale. 
Proprio la considerazione della Retorica come un’opera filosofica e la sua iscrizione nel contesto più ampio del corpus aristotelico mette Heidegger in grado di fare luce sul valore filosofico dell’analisi retorica dei pathe, e questo non malgrado ma proprio in virtù della sua natura retorica. A più riprese Heidegger sottolinea che la sua analisi non parte da un punto di vista «psicologico»: i pathe non sono «stati psichici» collocati nella «coscienza» (eventualmente concomitanti con fenomeni corporei) come sono invece intesi dalla tradizionale dottrina degli affetti e da buona parte della moderna psicologia, ma sono modi d’essere del vivente e caratterizzano l’uomo intero nel suo sentirsi-situato nel mondo. È questa l’osservazione che consente a Heidegger di mettere a fuoco un aspetto cruciale dell’antropologia aristotelica: l’unità originaria tra psichico e somatico. 
Non esistono pathe puri, astratti dall’effettiva corporeità, perché essi sono comportamenti dell’uomo nella sua globalità e nel suo essere in relazione con gli altri. Non si tratta soltanto di ammettere che ogni stato emotivo è sempre realizzato in un soma (corpo), come diremmo che una linea è un concetto geometrico che non può esistere concretamente se non in un oggetto fisico come un tavolo di legno. La materialità del tavolo non è essenziale per la comprensione del concetto di linea, non fa alcuna differenza se il tavolo è bruno o graffiato. Non così per i pathe che possono essere davvero compresi solo se intesi in quanto pathe di uno specifico corpo (soma). Il riconoscimento di questa intrinseca corporeità dei pathe non implica in alcun modo una svalutazione del ruolo della componente cognitiva nelle emozioni (la doxa), ruolo ormai riconosciuto anche dalle scienze cognitive. Heidegger prende sul serio l’affermazione aristotelica del De Anima secondo la quale i pathe sono logoi enyloi, discorsi realizzati nella hyle (materia). 
Emerge così quell «intima connessione» tra logos e pathos che è forse il cuore stesso della Retorica e che consente di comprendere meglio come il parlare sia innanzitutto un parlare con (o contro) gli altri (e insieme anche un lasciarsi dire qualcosa dagli altri) proprio perché si radica nella nostra specifica tonalità emotiva. Senza emozioni non ci sarebbero parole. 
È soprattutto la paura – come tonalità emotiva fondamentale – a svolgere questo ruolo di movente primario del parlare: «in relazione al parlare l’uno con l’altro nella quotidianità, la paura si mostra come il sentirsi-situati che induce a parlare». Ogni riflessione sul logos che non tenga conto di questo suo originario essere rivolto agli altri e radicarsi nel pathos sarà sempre una riflessione monca. Ed è allora forse ancora sensato l’invito che Heidegger ad un certo punto rivolge ai filosofi affinché si decidano a riflettere non più sul logos come un semplice mostrare (deiknunai) ma «su cosa significhi, in genere, parlare ad altri».

Heidegger e lo scacco al Re della metafisica Fu nelle sue lezioni su Aristotele, ora ripubblicate, che il filosofo tedesco rottamò il pensiero occidentaleANTONIO GNOLI Rep 17 3 2017
Viviamo un’epoca di grandi demolizioni. Si progetta e si costruisce poco, mentre si passa larga parte del tempo a distruggere. Si distruggono città, idee, politiche, legami, popoli e individui. La filosofia del nostro tempo non sembra avere più la forza per arginare o, quanto meno, comprendere il tumulto epocale nel quale versiamo. Ricordo un lontano testo di Martin Heidegger in cui si parlava profeticamente del “nichilismo europeo”, un tratto peculiare dell’Occidente, sin dalle sue origini greche. E il mondo greco fu la palestra concettuale nella quale Heidegger organizzò il suo pensiero. Misurò la sua voracità teoretica, come dimostra anche questo nuovo libro
edito da Adelphi: Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, un testo per molti versi impervio e ferocemente tecnico, frutto di un seminario che Heidegger tenne nel semestre estivo del 1924 a Marburgo. Già nei primissimi anni Venti cominciò a circolare in Germania la voce di un giovane professore che di Aristotele aveva offerto un’interpretazione radicalmente diversa da tutte le altre in circolazione. Molti giovani — tra cui Hans Jonas, Leo Strauss, Hans Georg Gadamer, Hannah Arendt, Günther Anders — accorsero a Marburgo per ascoltare l’astro nascente della filosofia. L’anno prima Heidegger aveva vinto la cattedra a Marburgo grazie a un lavoro su Aristotele inviato a Paul Natorp.
Concetti fondamentali della filosofia aristotelica (edito da Adelphi) è un volume di 441 pagine, con un indice molto impegnativo, un’eccellente introduzione di Giovanni Gurisatti che ha curato l’edizione italiana e una nota finale del curatore tedesco, Mark Michalski. Il compianto Franco Volpi — che, fino alla sua tragica scomparsa nel 2009, curò magistralmente per Adelphi l’edizione delle opere di Heidegger — attribuì un’importanza strategica al rapporto Aristotele- Heidegger, al punto da scrivere un libro che rivelava, tra i tanti aspetti del suo pensiero, anche la maniera radicale del modo di procedere di Heidegger. Non è difficile registrare in questo libro la stesso sentimento estremo nei riguardi di Aristotele. Il suo compito, perciò, non è fornire l’ennesimo punto di vista che ripeta pedissequamente la lezione aristotelica. Heidegger aspira ad altro. È l’uomo leggendario che si appresta ad asfaltare larga parte della filosofia occidentale. Marburgo, lontana dalle sedi più in vista, è il posto ideale per attuare il suo programma. Ha davanti un uditorio di giovani preparatissimi, destinati a eccellere tra i pensatori tedeschi del ’900. Insegna loro ad accostarsi in modo nuovo ai filosofi antichi, a ritradurne la lingua greca. Anche a costo di forzature e con qualche arbitrarietà linguistica. Si tratta di filologia applicata alla guerra del pensiero. Con molta chiarezza Heidegger indica sei presupposti necessari per impostare la sua nuova filologia. Tre questi spiccano per importanza la consapevolezza del primato di Aristotele non solo sulla filosofia greca, ma sull’intera filosofia occidentale; la convinzione che la vita umana se la possa cavare senza fede e senza religione; infine, che il passato storico (interrogato nella sua originale radicalità) provochi un urto sul presente, lo risvegli dal suo sonnambulismo filosofico.
Aristotele è, dunque, per Heidegger la “macchina da guerra” su cui salire per demolire quanto la filosofia ha costruito fino a quel momento. C’è una frase sibillina (ma Heidegger ama spesso stupirci con l’oscurità) in cui si dice che quel corso avrà lo scopo di istillare (ai suoi uditori e non solo a loro) «l’istinto per ciò che è scontato e l’istinto per ciò che è antico». L’Aristotele, riletto da Heidegger, è la guida filosofica per un mondo antico che supponiamo di conoscere ma non conosciamo per colpa delle tante ovvietà spese intorno ad esso.
Leggendo Aristotele, Heidegger non si interessa tanto della Metafisica, quanto dell’Etica Nicomachea e della
Retorica. Cioè si interessa da un lato alle virtù e dall’altro al discorso, o meglio al linguaggio.
Se ben guidate le virtù, per Aristotele, possono condurre al loro fine supremo: la felicità. Virtù e felicità tendono a coincidere. Così come, sempre per Aristotele, coincidono il discorso, ossia il logos, e la polis. «Per i greci», scrive Heidegger, «l’uomo è autenticamente uomo solo nella misura in cui vive nella polis. Questo essere l’uno con l’altro in quanto determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo deve emergere nell’analisi precisa del logos, inteso come il modo specifico in cui l’uomo ha lì il suo mondo». Ma il linguaggio di per sé non è garanzia di autenticità. Non è affatto scontato che la parola si costituisca come la manifestazione dell’Essere. Anzi, dal momento che le nostre esistenze umane, gettate nel mondo, calate nella polis, comunicano quasi sempre sul piano dell’opinione, della doxa, è molto più probabile che la parola si esponga al fraintendimento e alla menzogna. L’essere “con gli altri”, che per Aristotele implica l’esercizio della virtù, ma anche della politica, in Heidegger assume una forte problematicità. È vero: viviamo insieme agli altri, ma questa diffusione comunicativa è esposta alla chiacchiera, all’equivoco. Una posizione che svilupperà con Essere e Tempo, la grande opera del 1927.
Perché mai Heidegger riformula la sentenza aristotelica secondo cui l’uomo è un essere razionale, un vivente che parla, un animale politico? Perché, sospetto, in quegli anni lo sguardo sulla società tedesca non fosse dei più rassicuranti. Non si troverà mai in questo seminario un riferimento diretto a cosa stesse accadendo nella Germania degli anni Venti. Ma non è irrilevante che, dovendo mettere al centro l’esame aristotelico delle passioni (di cui l’Etica nicomachea era la massima espressione), ne privilegiasse una in particolare: la paura. Da questo punto di vista, l’”essere con gli altri” si realizza prevalentemente sotto il segno del phobos, cioè della paura. È probabile che sia questo sentimento di forte disagio a spingerlo a ripensare l’idea aristotelica dell’uomo. Non più animale politico, ma essere che ha bisogno di una guida politica. Il Führer era dietro l’angolo. Qualche decennio dopo Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo accennò al tema della paura. Ma volle darle il valore opposto a quello che gli fornì il vecchio maestro. Heidegger non denigrò la paura, che restava una componente fondamentale dell’analitica esistenziale. Arendt vide nella paura lo strumento con cui un regime totalitario poteva assoggettare gli individui. Aveva sotto gli occhi l’esperienza nazista (e stalinista), che il maestro — come suggeriscono i Quaderni neri — visse in totale ambiguità; mentre l’allieva, come tanti ebrei, riparò negli Stati Uniti. È incredibile, se ci si pensa, cosa produsse un seminario di pochi mesi sulla coscienza di chi vi prese parte. ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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