domenica 9 aprile 2017

Andrea Tagliapietra: storia dell'idea di esperienza

Il punto opaco e intimo dell’esitazione 
STORIA DELLE IDEE. Un'intervista con Andrea Tagliapietra, filosofo e autore di «Esperienza», edito per Raffaello Cortina. «L’esperienza non è al nominativo, è sempre al dativo: "a me capita di fare esperienza". Ciò accade anche nelle storie e nel narrare. Sia chi ascolta una storia, sia chi la racconta fa esperienza al dativo» 
Marco Dotti Manifesto 1.6.2017, 0:02 
Esperienza è una parola comune nella nostra comunicazione sociale. Ma è una parola a cui chiediamo troppo, o troppo poco. In un mondo che ha fatto dell’immediatezza, della rapidità irriflessa e dell’eccitazione infinita le sue parole chiave, sembra non manchino le occasioni per fare esperienza. Chiediamoci: è proprio così? Gli esseri umani, spiega Andrea Tagliapietra, filosofo e storico delle idee, autore del recente Esperienza. Filosofia e storia di un’idea (Raffaello Cortina editore, pp. 286, euro 16), «ma in generale tutti gli animali superiori non possono vivere senza fare esperienza. Anzi, direi che l’esperienza fa già parte – parte intrinseca, costitutiva – del rapporto delle singolarità con il mondo». Un dato elementare, ma non autoevidente. L’esperienza, osserva Tagliapietra, è un «capitarci che non ci aspettiamo». «Una forma che l’esserci singolare assume quando l’automatismo del nesso fra stimolo e risposta, che rapporta l’animale con l’ambiente, si sospende ed è possibile l’esitazione, il tempo e l’evento». 
Nel suo lavoro lei parla di singolarità, non di individui o di soggetti. Che cosa intende con singolarità? 
Le singolarità vanno distinte dagli individui e dai soggetti. Ognuno di noi è un individuo in quanto ha e vive una biografia e soggetto in quanto si identifica con le forme della figura teorica con cui la filosofia moderna ha pensato il conoscere e la sua articolazione con l’esistenza e, di qui, con il diritto, la politica, la morale, ecc.. Ma le configurazioni, i ruoli, anche eccezionali, che le individualità possono assumere in una biografia dipendono in larga misura dai valori e dalle strutture simboliche e istituzionali di una società e di una cultura. Gli individui, anche quelli che credono di essere più originali, sono riconducibili ad una combinazione di stereotipi. Nella società narcisistica dei consumi questo fenomeno appare piuttosto evidente, là dove ciascuno, per così dire, acquista e consuma la propria individualità come merce. Parimenti il soggetto non è differenziato, ma è una funzione formale, una figura filosofica che connette l’attività intellettuale e cognitiva con il suo fondamento empirico. Foucault, guardando all’operazione kantiana, aveva coniato il termine di allotropo empirico-trascendentale. Invece, le singolarità sono ciò che non possiamo non essere, perché siamo viventi e siamo situati in un corpo che sente piacere e dolore, in un ciascuno che è diverso per ognuno. È “il ciò a cui accade di”, il dativo e locativo singolare e plurale che si perde nelle generalità e nell’universalità del nominativo e dell’accusativo del soggetto e dell’oggetto. Partendo da questo, possiamo capire come il senso più proprio dell’esperienza sia la connessione tra eventi che possono accadere solo in rapporto a delle singolarità. A differenza dell’io che cerca di comprendersi e a differenza dell’individuo che crede di fare ciò che fa perché lo vuole, ma poi si scopre eterodiretto, la singolarità costitutivamente non si può conoscere, ma solo sentire. E non la possono conoscere nemmeno gli altri. La singolarità è un punto opaco, un punto di resistenza. Si può rinunciare a tutto, ma non a questo punto cieco. 
Scriveva Giorgio Caproni, in un suo componimento non a caso titolato Esperienza: «tutti i luoghi che ho visto / che ho visitato, / ora so – ne sono certo: / non ci sono mai stato». Caproni, in qualche modo, ci riporta a Walter Benjamin, che parla di distruzione dell’esperienza. Nel suo lavoro lei offre una lettura particolare di “Esperienza e povertà” di Benjamin… 
Mi pare significativo, da un lato, il fatto che, come Benjamin stesso afferma, l’esperienza sia il tema della sua filosofia. Dall’altro lato, però, mi rifiuto di fare torto a Benjamin, interpretandolo come un filosofo sistematico. Nella sua opera, infatti, sono presenti varie accezioni dell’idea di esperienza e, tutto sommato, credo che quello che Benjamin costruisce alla fine sia un dispositivo complesso, in cui di fatto possono coesistere molteplici prospettive. Quella che mi sembra più interessante è la connessione tra l’esperienza e il narrare. 
Benjamin, con la sua operazione culturale, mostra infatti un tentativo – riuscito, a mio modo di vedere – di recuperare la narrazione in chiave critica. Questo non significa – cosa banale – che sussistano narrazioni, ma che esista un particolare meccanismo che, tramite la narrazione, produce un’altra esperienza, richiama l’esperienza nell’unico modo in grado di conservarla, quello di metterla in comune. Le esperienze sono sempre due: quella che tu hai fatto e quella che tu racconti, foss’anche solo a te stesso. Benjamin, non a caso, insiste molto su un certo “genere” di racconto, la storiella, la saga, il mito, la leggenda, l’epos, l’aneddoto… 
Ma non il romanzo… 
Benjamin insiste molto sull’esperienza come evento di senso che si produce nei lettori e negli ascoltatori di una storia e, quindi, insiste su un fuori delle cose, non su uno scavo all’interno dell’individualità. Insiste sulla terza persona, su quella che abbiamo chiamato singolarità. La narrazione fa cadere nell’esperienza e genera esperienza quando l’accesso non è immediato, ma laterale, obliquo. Quando il contenuto della narrazione non è posto sotto il controllo della prima persona, ma ci capita, ne siamo invischiati come la mosca nel miele. Al contrario, nella forma narrativa moderna per antonomasia, ossia il romanzo, Benjamin vede comunque, sempre, un germe di Bildungsroman, una formazione-interrogazione che accompagna gli individui, mentre nelle storie nelle novelle e nelle altre forme brevi del racconto – si pensi al magistero di Kafka – entrano in gioco le singolarità. La singolarità di chi ascolta, la singolarità di chi viene travolto dalla storia, la singolarità di chi, per primo, ha fatto esperienza. Nelle storie le singolarità risuonano e fanno esperienza. Ciò che si gioca nell’esperienza, non è un concetto fisicalista o paradossalmente “realista” di realtà. Ciò che è in gioco nell’esperienza, ciò che è reale nell’esperienza è il fatto di chiamarti in gioco. Il fatto che quel “a cui” capita di fare esperienza. Una delle cose che senza dubbio hanno a che fare con la miseria dell’esperienza e la perdita della capacità di farla, è l’intenzione, il fatto di voler fare esperienza. 
Eppure ovunque sentiamo appelli all’esperienza, a “fare esperienza”… 
L’esperienza non è al nominativo, è sempre al dativo: “a me capita di fare esperienza”. Anche nelle storie e nel narrare accade questo. Sia chi ascolta una storia, sia chi la racconta fa esperienza al dativo. Non a caso, l’inizio dell’epos è sempre «Cantami o diva…», è sempre il poeta che già riceve il racconto, che parla perché ascolta, perché viene ispirato. Oggi, se vogliamo azzardare una provocazione, potremmo dire che in certa narrativa fantasy o di genere – da Harry Potter in giù – o, vuoi anche, in quel magnifico cinema non dal vero che è il cinema d’animazione, insomma i cartoni animati, ci sia molta più esperienza e molte più possibilità per farla di quante non ve ne siano in certe narrazioni realistiche che introiettano la cronaca. La fiction no fiction che mobilita gli individui, ma che li lascia, per l’appunto, nel ruolo degli spettatori, senza coinvolgerne intimamente le singolarità. Del resto, non è forse vero che si può sempre cenare tranquilli mentre sullo schermo scorrono gli orrori del telegiornale? 
Benjamin che, però, dà un’altra lettura del fenomeno, a partire dalla Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica…
Infatti, lì parla di una fruizione distratta dei prodotti delle nuove tecnologie comunicative, come il cinema. Una fruizione distratta attraverso la quale le opere d’arte della riproducibilità tecnica contribuirebbero alla costruzione di un io depotenziato, in grado in questo modo di liberarsi dalle imposizioni della cultura borghese e del mercato. Ma nello scontro fra Eisenstein e Hollywood chi ha vinto? In che direzione è andato quel mondo che Benjamin non ha potuto vedere? L’io della percezione distratta, oggi della distrazione compulsiva degli smartphone in mano ai bambini e ai rimbambiniti di tutto il mondo, è l’io del grande consumo e della grande pastorizzazione della crisi. La distrazione, per essere mantenuta o superata, presuppone l’educazione all’istantaneità, l’essere senza indugiare, il giochetto compulsivo. L’attenzione non è la consapevolezza, ma ciò che la precede, l’affiorare dell’esitazione che la sospensione dello stimolo immediato richiama. 
L’umano come animale che esita, dunque, non come chi appena sfiorato reagisce? 
Se tu sei schiacciato sull’immediatezza, significa che c’è un rapporto tendenzialmente automatico fra stimolo e risposta, come nel modello animale. Blumenberg diceva che l’uomo è quell’essere che si pensa sempre attraverso ciò che non è. 
La lettura è una forma di questa esitazione e di questo fare esperienza... 
La lettura, la pratica dell’homo legens, è una grande forma simbolica di esitazione, perché il lettore è colui che non si fa travolgere dal mondo dell’immagine e dell’apparenza e si pone in un rapporto di continuo scavo e contemporaneamente si fa scavare dal libro. I libri infatti ci leggono e la scrittura, come dicevano gli antichi esegeti, cresce con chi la legge. I lettori della Bibliothèque Nationale di Rilke, ripresi da Wenders ne “Il cielo sopra Berlino”, sono delle splendide figure della singolarità. Il fenomeno della lettura non è immediatezza istintiva, ma mediazione. Si legge tutto, si possono leggere i fondi del caffè o, come insegnava Borges, anche le macchie della pelliccia di un giaguaro. Dobbiamo intendere la lettura come questa capacità simbolica di esitare che non è il ripiegarsi sulla parola scritta come medium specifico ma, utilizzando il modello fornitoci dal medium, il rapportarsi alla realtà in una forma di leggibilità discreta e non di sua immediatezza irriflessa. Il fatto di leggere la realtà significa sempre prenderne le distanze, porre una questione critica. 
“Dire di no” – come esempio massimo della critica – è un’altra forma di esitazione. Ne “Il dono del filosofo”(Einaudi), lei sosteneva che la filosofia è la costruzione di una figura concettuale, il filosofo appunto, la cui caratteristica consiste in questa ostinata capacità di critica. Una critica che è tutt’uno con una forma di esitazione e distanziazione… 
Pensiamo al Bartleby di Melville, uno scrivano che, come Socrate, non scrive “nulla”. «I prefer not to», preferirei di no, dice Bartleby. In quel “preferirei” c’è un’esitazione che si ritaglia una riserva che consente di non concepirsi come pura opposizione. È più intimo dire “preferirei di no” rispetto al semplice “no!”. Il “preferirei” tiene conto del tuo possibile “dire di sì” e “dire di no”. In qualche modo comprende l’altro, ma non rinuncia al segreto incondizionato della propria diversità. Una diversità di cui Bartleby stesso può non essere consapevole. Dire “preferirei di no” non significa sapere bene cosa si preferisce, in positivo. Il deuteragonista del racconto di Melville, l’avvocato datore di lavoro dello scrivano, è colto da un grande imbarazzo e il gioco sta proprio in questo “preferirei” che non si esaurisce in un rapporto autoritativo, ma si manifesta in un inizio del riconoscimento senza riconoscere. La formula “I prefer not to” è ospitale in questo, nega ma accoglie, crea uno spazio interstiziale. Allo stesso tempo, custodisce la propria intimità. 
Che cosa realmente preferisce Bartleby? 
Non lo saprà nessuno. Proprio per questo Bartleby è l’eroe della singolarità e del pudore.

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