domenica 2 aprile 2017

Johann Ludwig Burckhardt e l'Oriente


Silvana Lattmann: Vita e viaggi di J.L. Burckhardt, Interlinea, pagg. 108, euro 14

Risvolto
Il 18 ottobre 1817 muore al Cairo Johann Ludwig Burckhardt, cittadino svizzero, nato nel 1784. Assistono al rito funebre europei, arabi, turchi, cristiani e musulmani. Con il nome di Sheik Ibrahim, vestito da arabo e con perfetta conoscenza della lingua del paese, egli ha esplorato Siria, Giordania, Egitto, Nubia, Arabia, portando alla luce antichità millenarie, fra cui la città di Petra e il tempio di Abu Simbel. Il volume, basandosi su lettere e scritti di Burckhardt, e con immagini d'epoca, ripercorre la vita, le difficoltà e i successi di questo giovane, mettendo sotto i nostri occhi un mondo di duecento anni fa ancora ricco di fascino. La ricostruzione di Silvana Lattmann ha il sapore dei racconti d’avventura, resa con precisione storica e vivacità narrativa. 


La doppia vita dell’altro Burckhardt 

Tra Petra e l’Islam inganni e fortune di un esploratore gentiluomo

SIEGMUND GINZBERG Rep 1 4 2017
Il Pascià è convinto di avere a che fare con una spia inglese, incaricata di preparare l’invasione dell’Egitto. E da uomo di mondo qual è lo protegge per non incorrere nell’ira britannica. Lui passa per musulmano, si fa chiamare Sheikh Ibrahim. Ma quando gli fa comodo non esita ad aggiungere a questo nome
islamicissimo il soprannome di “Al-inglisi”, l’inglese. «Perché solo i cittadini inglesi o francesi godono da queste parti di una certa sicurezza», spiega.
In Nubia, i fratelli predoni che la governano sospettano invece che sia una spia del loro nemico, il Pascià d’Egitto Mohamed Alì, e minacciano di tagliargli la testa. A Suakin, il porto del Mar Rosso cui fa capo la tratta degli schiavi, è lui a fingersi spia di Mohamed Alì a danno dei Mamelucchi. Sul vascello schiavista su cui compie la traversata per l’Arabia lo prendono per siriano. A Gedda, sulla strada per la Mecca, è lui invece a spacciarsi per mamelucco.
Non manca d’inventiva. Nella traversata da Malta ad Aleppo, via Cipro e coste dell’Anatolia, si fa passare per commerciante indiano. Se gli chiedono di parlare hindi, risponde nel dialetto più brutto della Svizzera, lo schwiizertüütsch, coi gutturali simili all’arabo. Se deve parlare arabo se la cava fingendosi turco, o proveniente da una regione diversa da quella dell’interlocutore. Col Pascià Mohamed Alì, che è turco nato in Albania, ha una lunga conversazione, parte in arabo (lingua mal parlata da entrambi) e parte in italiano, aiutato in qualità di interprete dal medico personale del Pascià, il levantino Borsari. Il Pascià è curiosissimo. Vuol sapere dei suoi viaggi nelle regioni ancora controllate dai nemici musulmani di cui vuole sbarazzarsi, i Mamelucchi e i Wahabiti. Vuole sapere per filo e per segno dove butta la politica in Europa (siamo alla fine delle guerre napoleoniche). E soprattutto se l’Inghilterra ha intenzione di occupare l’Egitto. Gli chiede dove vorrebbe recarsi ancora. Quello gli risponde che dopo il pellegrinaggio alla Mecca vorrebbe andare in Persia. Il Pascià: «Che Allah ti spiani la strada. Ma io credo che viaggiare così a lungo sia follia e stravaganza». Al che Ibrahim/ Burckhardt, probabilmente altrettanto sincero: «Ognuno ha il suo destino. Io godo infinitamente a percorrere paesi sconosciuti e conoscere uomini diversi ».
Johann Ludwig Burckhardt era in realtà svizzero, un discendente della stessa famiglia del celebre studioso del Rinascimento italiano Jacob Burckhardt. In odio alla Rivoluzione francese si era trasferito a Londra, aveva studiato arabo a Cambridge ed era stato ingaggiato dall’Associazione per la promozione della Scoperta dell’interno dell’Africa. Faceva base prima in Siria e poi al Cairo, travestito da turco e da musulmano.
Un agente, uno 007 britannico quindi? Forse. Tutti i grandi esploratori dell’Ottocento più o meno lo erano. Compresi quelli che criticavano le mire espansionistiche del loro governo, come Henry Stanley, Lord e convertito all’Islam. I committenti di Burckhardt erano a Londra. Da loro veniva finanziato e a loro riferiva. Ma lo faceva con vera passione da studioso, da etnografo sul campo, e soprattutto con grande accuratezza, ineguagliata dai suoi predecessori e da molti dei suoi successori.
Silvana Lattman, svizzera come lui, anche se di adozione (classe di ferro 1918, è nata da padre napoletano e madre abruzzese) gli ha dedicato, in occasione del duecentesimo dalla morte, un breve ma delizioso libriccino corredato da immagini d’epoca: Vita e Viaggi di J. L. Burckhardt.
Un incontro con l’islam dell’Ottocento, pubblicato da Interlinea.
Johann Ludwig (ma lui preferiva farsi chiamare Jean Louis o John Lewis) morì al Cairo il 15 ottobre 1817, all’età di appena 33 anni, per una dissenteria contratta durante i suoi viaggi di esplorazione. Fu sepolto nel cimitero musulmano. Era quanto lui stesso aveva espresso come ultimo desiderio al console britannico accorso al suo capezzale. Una scelta comunque obbligata: «So che i Turchi pretenderanno il mio corpo. Tanto vale darglielo».
Farsi musulmano era utile per potere viaggiare indisturbati in quella regioni, indispensabile per accedere alla Mecca e agli altri luoghi santi. Si sarebbe convertito all’islam (versione mistica sufi) anche il capitano Richard Burton (il secondo inglese a visitare la Mecca, se non si tiene conto di quelli che vi erano arrivati da prigionieri). Salvo che ci ripensò una volta tornato in Inghilterra. Erano viaggiatori colti oltre che avventurosi. Burton portò in Europa le Mille e una notte e il Kama sutra. Ma non sempre le imbroccava, come succede anche ai giorni nostri nelle migliori famiglie di “arabisti” e analisti per i “servizi”. Tanto per dirne una: Burton si faceva passare per persiano e sciita, e poi si meravigliava che i sunniti lo guardassero male. Burckhardt è autore di una ormai classica raccolta e traduzione commentata di proverbi arabi. Pubblicata postuma, come postume sono le sue Note di viaggi.
Burckhardt annota le proprie peripezie. Ma anche e soprattutto quello che vede e quel che riesce a cogliere sulle diverse genti con cui viene in contatto. Osserva, studia, racconta. Di come vivono, come si differenziano, di come le diverse etnie, tribù, o fazioni di una stessa tribù si odiano e si combattono gli uni con gli altri. Parla della Siria, dell’Egitto, del Sudan e dell’Arabia di due secoli fa. Ma ferocia, intrighi, odii, conflitti ricordano il Medio Oriente di oggi. Da buon etnografo Burckhardt si astiene in genere dal prendere parti, dare giudizi. Ma quando lo fa è duro come uno svizzero: «La lunga residenza tra Turchi, Siriani ed Egiziani mi consente di dichiarare che sono completamente deficienti in virtù, onore e giustizia; che di vera pietà ne hanno poca, e ancor meno carità e tolleranza, e che l’onestà tra di loro si trova solo tra i poveri o gli idioti». Non raggiunse mai Timbuctù, nel cuore di tenebra dell’Africa, che era il suo vero obiettivo. Cammin facendo fece, praticamente per caso, scoperte eccezionali: Petra e i templi di Abu Simbel, per citarne solo due. Non trafugò tesori, non era un predatore come gli altri Indiana Jones. Incideva graffiti, per segnalare che era passato di lì. Grande esploratore. Ma un po’ vandalo.
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