martedì 4 aprile 2017

La crisi del ciclo progressista in America Latina alimenta la neolingua dell'Impero. Parole sagge da Aldo Garzia



La difesa dei processi rivoluzionari diventa "controrivoluzione" e viceversa i golpe colorati sono la rivoluzione liberale. Ma poiché l'accerchiamento imperialistico era scontato è molto più proficuo cercare di capire cosa non ha funzionato e perché (e in Venezuela hanno sbagliato quasi tutto), i limiti di quelle esperienze, che lamentarsi del fatto che il lupo faccia la parte del lupo [SGA].

Controrivoluzione America Latina
L’autogolpe di Maduro e l’assalto al Parlamento in Paraguay stanno alimentando l’instabilità e le tensioni nel Continente E dopo l’illusione del boom economico anche il Brasile è in bilico 

Sttampa 2 4 2017
É un’autentica tempesta politica, la cronaca di questi ultimi giorni in America Latina. La «Revolución», che eppure è da sempre un tradizionale marchio ribaldo del subcontinente, questa volta non ha alcuna bandiera da consegnare alle proteste popolari, ai moti di piazza, ai saccheggi e ai morti ammazzati nelle strade delle città in rivolta.
E però da Nord a Sud, dal Venezuela all’Argentina, dall’Ecuador al Paraguay, dal Brasile al Messico, non c’è angolo, quasi, del Sud America che non venga investito da una ondata di proteste contro governi e Presidenti in carica.
E allora, se non è la Revolución, se non c’è di mezzo né il Che e nemmeno Fidel, se Pancho Villa non c’entra, né Bolivar e neanche San Martín, allora che cosa sta accadendo in America Latina?
A suo modo, ogni Paese dà una propria risposta. Prendiamo il Brasile, che da solo vale quasi quanto la somma di tutti gli altri. A scendere in piazza, e a protestare contro il presidente Michel Temer, sono stati in questi giorni quasi 100 milioni, per una crisi politica ed economica che sta cambiando la storia recente d’un Paese che sembrava destinato a farsi leader mondiale – già inserito a pieno titolo nel gruppo in ascesa dei Brics – e che oggi deve invece misurarsi con 13 milioni di disoccupati, con una caduta del Pil del 3 per cento, con un Presidente mal sopportato nato dall’impeachment della titolare Dilma Roussef, e con uno scandalo, il «Lava Jato», al confronto del quale il nostro «Mani Pulite» sembra un episodio da educande.
La Revolución non c’entra, e la rabbia non ha fatto ancora morti per strada. A differenza, invece, di quanto è accaduto in Paraguay, dove la protesta contro il tentativo del presidente in carica, Horacio Cortés, di modificare la Costituzione, e consentirsi una rielezione, ha spinto i manifestanti ad assaltare il Senato, metterlo a fuoco e fiamme, e a scontrarsi con la polizia, chiamata perfino a una carica di cavalleria per tentare di contenere la folla. Questi progetti di riforma costituzionale sono una tentazione ricorrente dei Presidenti sudamericani, senza poi particolari distinzioni tra destra e sinistra: una volta insediati, la voglia di «fare il bene del popolo» li sollecita ad immaginare che il potere che hanno ricevuto meriti di ottenere l’estensione di (almeno) un altro mandato, e accendono tensioni e rivolte che non sempre finiscono pacificamente.
È anche il caso di quanto sta accadendo in Venezuela, dove la deriva autoritaria del regime del presidente Maduro, improbabile successore di Hugo Chávez, aveva raggiunto il punto più basso l’altro ieri, quando la Corte suprema aveva esautorato il Parlamento – controllato dagli oppositori del regime – e di fatto aveva chiuso il ciclo della instaurazione di una dittatura, senza più distinzioni di poteri. Ma ieri, con un atto perfino impensabile, Maduro si è vestito di una grisaglia impeccabile e, serio in volto che pareva un vero democratico, si è presentato davanti alle telecamere nazionali per dire che non se ne fa niente, che lui non lo avevano nemmeno avvisato, e che non può essere, bisogna ripensarci. L’austero proclama ha sorpreso fedeli e nemici, ma il sistema resta chiuso in una spirale sempre più soffocante, con una penuria d’ogni bene di prima necessità, una inflazione ormai vicina al 1000 per cento, e una conflittualità sociale che sfiora continuamente la guerra civile.
E poi c’è l’Equador che vota oggi il nuovo Presidente, con il rischio per Julian Assange, il papà di WikiLeaks, d’esser sbattuto fuori dal comodo rifugio dell’ambasciata di Londra e finire nelle mani degli americani; e c’è l’Argentina che marcia contro il presidente Macri e i suoi decreti anti-migrazione, e c’è il Messico schiacciato dal muro di Trump e dalla prospettiva di una crisi di delocalizzazione che spingerebbe alla perdita del lavoro milioni di operai delle fabbriche «yanqui», e c’è il Nicaragua dei sandinisti ingolositi di potere, e il Salvador della vecchia guerra per bande, e tanta altra tensione, e rabbia, e proteste popolari, dovunque si guardi. Ma Revolución no, questa non c’entra.
La spiegazione sta soprattutto nella crisi diffusa di un continente che aveva vissuto speranze esaltanti grazie alla crescita dei prezzi delle materie prime e oggi ne sconta la caduta senza aver approntato riforme e interventi che modificassero le vecchie strutture sociali ereditate dalla cultura politica del tempo della colonia: in ogni frontiera, il mancato radicamento di una borghesia nazionale ha consegnato il potere all’esercizio di una lotta tra oligarchie dove il confronto si fa scontro di fazioni che puntano a perpetuare la gestione degli interessi di parte, sorda a qualsiasi progettualità pur vagamente «nazionale». La Revolución è un progetto collettivo, e per ora, invece, ognuno pensa soltanto al proprio tornaconto. 
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“Il mio Venezuela è isolato E la gente muore di fame” La denuncia dell’oppositore Ledezma: l’Onu intervenga Francesco Semprini Stamppa 4 4 2017
Antonio Ledezma, già sindaco di Caracas e icona dell’opposizione antichavista, è agli arresti domiciliari senza regolare processo. Risponde alle nostre domande attraverso la moglie, Mitzy Capriles, colei che per protestare contro l’indifferenza del mondo sul dramma del Venezuela si è incatenata in piazza di San Pietro.
Che situazione state vivendo?
«Quella di un Paese sottomesso a un regime autoritario che ha violentato i principi più sacri di una democrazia. In Venezuela i poteri pubblici sono stati sequestrati e sottomessi dal governo, e quando è stato “liberato” il Parlamento, con le elezioni del 6 dicembre 2015, Maduro ha usato il Tribunale supremo di giustizia per non riconoscere e soggiogare la volontà del popolo».
È un punto di non ritorno?
«La tenacia popolare ha impedito che si instaurasse un regime definitivamente dittatoriale. La nuova Assemblea ha permesso di elevare voci, finalmente si dibattono temi di interesse sociale economico e politico. Ma siamo isolati, la nostra gente muore di fame e di diritti. L’Europa non può far finta di nulla e l’Onu ha il dovere di parlarne a voce alta».
Poi ci sono crisi e delinquenza...
«Non ci sono più generi di prima necessità, ogni commercio è stato soppresso. I tribunali sono sottomessi a una relazione politica che ne delegittima l’autonomia. La polizia si proclama “policías socialistas”, ci sono bande paramilitari dotate di armi pesanti, a volte “colectivos” altre volte sono “pranes” che controllano le carceri o “parasindicatos”. Tutto ciò è fonte di violenze che si alimentano con le disuguaglianze sociali e c’è un incremento del narcotraffico che causa stragi». 
Cosa sta facendo per il Paese?
«Fisicamente sono costretto ma il mio spirito e la mia coscienza sono liberi e combattono. Mia moglie è la mia voce nelle piazze, tutta la mia famiglia mi fa essere presente nei posti più remoti. Il mio sacrificio è un piccolo contributo allo sforzo collettivo».
Quale ruolo hanno i militari?
«Le forze armate rispondono alla Constitución Nacional, a quello che dice l’articolo 328, e questo è quello che devono continuare a fare secondo la nostra visione. Non vogliamo che i militari diventino forza di opposizione, che i militari si prestino a colpi di mano che snaturino l’essenza democratica della nostra repubblica. La soluzione che la grande maggioranza democratica si propone è civile e pacifica. Per questo vogliamo attivare l’articolo 72 della nostra Carta che permette di sollecitare referendum revocatori per gli incarichi di elezioni popolari, tra cui quello del presidente della Repubblica. E che il tribunale supremo con un colpo di Stato ci vuole rifiutare. In Venezuela ci sono rivolte pacifiche spontanee tutti i giorni, sono le gigantesche file alle entrate dei supermercati, delle farmacie, sono le famiglie delle vittime dell’insicurezza, queste sono le nostre rivolte, lotte che vogliamo coronare col referendum».
Con la scomparsa di Fidel e l’arrivo di Trump siete più fiduciosi?
«Con Trump abbiamo maggiori aspettative, è storicamente risaputo che i governi repubblicani sono meno tolleranti con i sistemi dittatoriali. Da lui ci aspettiamo solidarietà. Dall’Italia mi aspetto l’affetto per un uomo nelle cui vene scorre sangue italiano».
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L’America latina che passa dal Venezuela Aldo Garzia Manifesto 6.4.2017, 23:59
Con uno scatto di saggezza, Nicolas Maduro ha evitato di impugnare la sentenza della Corte suprema di Caracas che gli permetteva di esautorare il parlamento dove l’opposizione è maggioritaria.
Il contesto internazionale, le possibili reazioni di Washington, i consigli di prudenza venuti da Cuba devono aver fatto riflettere il presidente del Venezuela sul pericolo di una cruenta guerra civile. E’ stata una scelta sensata.
Dal 1999 – quando Hugo Chávez vinse per la prima volta le elezioni – il chavismo ha proceduto con metodo democratico, accettando sempre l’esito delle urne, anche nel 2007 quando fu bocciata in un referendum la riforma costituzionale. Il chavismo senza Chávez, morto nel 2013, è però in crisi dopo aver accumulato successi nella redistribuzione del reddito, nella sanità pubblica, nell’istruzione, nella spinta a nuove forme di unità latinoamericana (il progetto dell’Alba, la tv Telesur).
Oggi a Caracas l’inflazione non ha freni e viaggia oltre il 500%. Mancano inoltre i generi di prima necessità a causa del basso prezzo del petrolio ma anche per le difficoltà di scelte economiche alternative. I sondaggi dicono che Maduro forse perderebbe nuove elezioni presidenziali.
Allarghiamo lo sguardo.
Novità progressiste, accanto ad altre dichiaratamente di alternativa, si erano concentrate da qualche anno in America Latina. Con poche eccezioni (Messico, Colombia), i risultati delle elezioni registravano il prevalere dello spostamento a sinistra dell’orientamento dei singoli governi. E’ stato così in Brasile, Venezuela, Cile, Argentina, Bolivia, Uruguay, Nicaragua, Ecuador.
Mentre nell’ultimo quindicennio la sinistra variamente intesa arretrava in Europa, in America latina mieteva successi come mai prima era avvenuto. L’ex metalmeccanico Lula vinceva le elezioni presidenziali in Brasile nel 2002. Poi Nestor Kirchner in Argentina, Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador, Daniel Ortega in Nicaragua (dove però poco o niente è rimasto del sandinismo), José Mujica in Uruguay. Tornava alla presidenza Michelle Bachelet in Cile e perfino il Paraguay conosceva una stagione progressista mentre si avviavano trattative di pace tra governi e guerriglie in San Salvador, Guatemala e Colombia.
Prendeva corpo di conseguenza una nuova spinta verso la cooperazione latinoamericana. A favorire questa stagione era una crisi economica meno forte che in Europa e Stati uniti, l’allentamento della tradizionale pressione politica di Washington impegnata nella lotta al terrorismo, il fallimento degli esperimenti neoliberisti, la richiesta di una alternanza nelle leadership di governo, il bisogno di pacificazione.
Il ciclo del cambiamento si sta ora esaurendo.
Prima la vittoria della destra in Argentina con Mauricio Macri, poi il golpe istituzionale in Brasile che ha portato all’impeachment contro la presidente Dilma Roussef, poi ancora le notizie che giungono dal Venezuela.
Difficoltà si registrano pure nelle esperienze di governo di Cile e Bolivia. La sinistra di Lenin Moreno ha vinto di un soffio le presidenziali dell’altro giorno in Ecuador. Destra all’attacco in Perù e Colombia. Solo Cuba sembra salda, pur alla ricerca del rinnovamento del proprio modello economico e politico.
Come si spiega l’impasse degli esperimenti progressisti?
Bisogna dirlo chiaramente: non è colpa solo dell’imperialismo – per schematizzare – quello che accadendo a Caracas ed è accaduto a Brasilia. Destra e potentati economici fanno il loro mestiere e cercano la rivincita. Sarebbe tuttavia un errore pensare che non ci siano debolezze e contraddizioni nel seno stesso delle esperienze progressiste.
Se il Venezuela è allo stremo di una crisi economica lacerante e in Brasile si è formata in parlamento una maggioranza anti-Roussef, le responsabilità non sono solo “esterne”.
Il chavismo bolivariano, dopo la scomparsa di Chávez, ha perso smalto e progetto.
In Brasile la corruzione si è insinuata nelle file del Partito dei lavoratori.
Gli esperimenti progressisti e di sinistra si sono impantanati nella difficoltà di costruire alternative al “capitalismo estrattivo” (petrolio, gas) e di inventare nuove forme di partecipazione democratica.
Nell’ultimo biennio sono nel frattempo giunti al pettine i tradizionali problemi dell’America latina: debolezza dei partiti e della democrazia, composizione sociale non strutturata, nuova classe media non rappresentata, destra sempre in agguato che gioca sulle promesse facili, economia dipendente dall’esterno e dagli Stati Uniti, populismi di destra e di sinistra.
Bisognerà ripartire da qui. Facendo tesoro di successi ed errori.

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