martedì 4 aprile 2017

Le mani di Repubblica sull'Ottobre russo: la quinta puntata del reportage di Ezio Mauro



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Il destino corre sul treno di Lenin 
Cronache di una rivoluzione / 5 1917 2017
La quinta puntata del viaggio di Ezio Mauro nella storia russa
Vladimir Ilic torna dall’esilio di Zurigo attraversando l’Europa in guerra e scrive le “Tesi di aprile”
EZIO MAURO 3 4 2017
QUANDO apparve in cima ai tre gradini, Lenin aveva 47 anni, un cappotto grigio di lana, un partito di 26 mila iscritti che lo aspettava, la moglie Nadja che lo accompagnava con 28 compagni e due ragazzi, il berretto con la visiera da operaio che aveva appena sostituito il capello borghese di feltro con cui era partito da Zurigo: per attraversare sette giorni e sette notti, cinque Paesi, una guerra e ritornare in patria dopo 17 anni di esilio, ricongiungendo la rivoluzione al suo destino.
Aveva rivisto la Russia dal finestrino a Belostrov, quando aveva finalmente aperto le tendine dello scompartimento di terza classe, illuminato da una candela ma con il vecchio profumo caldo della “paskha”, la torta pasquale di ricotta fresca che i soldati mangiavano in fondo al vagone. Per tutto il viaggio attraverso la Germania — quasi mille chilometri — aveva pensato alle accuse di tradimento che quel lungo passaggio nel territorio del nemico avrebbe potuto scatenare in Russia, e nello stesso tempo aveva temuto un’imboscata del Kaiser, magari in qualche stazione notturna, col treno trasformato in trappola. Ma adesso dopo la Svezia e la Finlandia ritrovava infine la Russia, inquadrata nel vetro umido di freddo della quinta carrozza, il cielo curvo del tramonto a primavera e la terra piatta che correva di fianco ai binari. Aveva appena riabbracciato la sorella Marija, che non vedeva da quando era scoppiata la guerra, ed era venuta ad accoglierlo a Belostrov insieme con Lev Kamenev, portandogli l’ultimo numero della Pravda. La leggeva e scuoteva la testa: tutto sbagliato, avrebbe dovuto lottare per correggere la linea del partito bolscevico, per tutto il viaggio aveva scritto le sue Tesi proprio per questo, non c’era più tempo da perdere.
Aveva creduto di impazzire («non dormiva più la notte», diceva la moglie) dopo quel 15 marzo alle due del pomeriggio, quando con i tre colpi in codice alla porta Mieczyslaw Bronski si era catapultato nella stanza che i Lenin affittavano a Zurigo — 28 franchi al mese, senza stufa, uso cucina — da Herr Kammerer il calzolaio, al 14 di Spiegelgasse. Il compagno polacco ripeteva urlando che in Russia era scoppiata la rivoluzione. Nadja stava lavando i piatti. Fecero mille domande, non potevano crederci, ma poi corsero giù per l’acciottolato in discesa della vecchia città verso il lungolago, dove erano esposti i giornali svizzeri. Videro sotto la pioggia i dispacci da Mosca e da Pietrogrado nella bacheca del Neue Zurcher Zeitung e del Zuricher Post in piazza Bellevue. Era vero. Lenin che aveva detto a Inessa Armand «noi vecchi forse non vedremo le battaglie decisive», adesso si trovava davanti la rivoluzione in Russia, e doveva apprenderlo da lontano, in ritardo e da un giornale. Non si capiva che fine aveva fatto lo Zar, chi governava, ma si trattava di una rivoluzione: per il pane e la libertà.
E lui, Vladimir Ilic, era a 2500 chilometri di distanza, con una guerra in mezzo, in un esilio dove ha pensato alla rivolta della Russia notte e giorno, dove ha scisso il partito socialdemocratico separandosi dai menscevichi di Martov, dove ha dovuto difendere le rapine per il partito e gli espropri dei bolscevichi caucasici, dove mangia zuppa al latte perché lui e Nadja non hanno soldi, dove la sua rivoluzione sta chiusa ogni mercoledì sera in una saletta del caffè Zum Adler sulla Rosingasse, quando si riunisce un gruppetto di socialisti svizzeri e polacchi, mentre le conferenze bolsceviche si fanno la domenica al Club degli Orologiai.
Deve tornare, ad ogni costo, deve uscire dal “podpol”, il sottosuolo. La sua propaganda disfattista spaventa francesi e inglesi, che gli negano il transito per il timore che la predicazione in patria di Lenin contro «la guerra predatoria imperialista» faccia crescere la tentazione di una pace separata con la Germania. Allora progetta di attraversare il territorio tedesco con un falso passaporto svedese, fingendosi sordomuto, esplora l’aiuto di un contrabbandiere, pensa di camuffarsi con una parrucca in Olanda, accarezza l’idea di Martov per uno scambio russo-tedesco tra esuli e prigionieri, si informa sui costi di un aereo privato. Poi si convince che bisogna negoziare il rientro con la Germania, perché non c’è altra via. Ma i soldati russi dal 1914 stavano combattendo e morendo sul fronte tedesco, un’intesa di Lenin con Berlino avrebbe avuto il sapore del tradimento, poteva distruggerlo.
Per ragioni opposte alla diffidenza di Londra e Parigi la Germania era interessata a riportare Lenin in Russia, sperando di aumentare il disordine politico e di soffiare sul caos col disfattismo rivoluzionario.
Quando a Monaco era nata l’Iskra, i primi numeri preparati da Lenin e Martov vennero confezionati nell’abitazione di Alessandro Helphand, un giovane giornalista che si firmava “Parvus”.
Adesso, nel marzo 1917, Parvus rispuntava nella vita di Lenin sotto l’identità di un miliardario socialista che aveva fatto i soldi chissà come in Medio Oriente, ambiguo, intrigante, giocatore, capace di usare il potere politico a Berlino, o di esserne usato. I due hanno un amico comune, Jacob Furstenberg, in contatto col segretario di Stato agli Esteri Arthur Zimmermann, e con Zinovev che da Berna negozia segretamente per conto di Lenin, chiamandolo nella trattativa sempre prudentemente “zio”. Bisogna informare il Kaiser che una potenziale bomba rivoluzionaria viaggerà per una settimana su un treno tedesco attraversando da Sud a Nord tutta la Germania: il 26 marzo Guglielmo approva. Ma il rischio è tutto di Lenin. Tornerà in patria grazie alla Germania, come un collaborazionista, infiltrato in Russia dal nemico, sospettato di alto tradimento. Ilic, come lo chiama Nadja, è consapevole dell’azzardo capitale. Cerca di avere la copertura scritta dai personaggi più influenti del socialismo europeo ma raccoglie solo firme minori. Poi chiede a Berlino di viaggiare su una sorta di treno extraterritoriale, impermeabile a ogni contatto coi tedeschi durante il tragitto in Germania, senza controlli di polizia e di frontiera, senza passeggeri oltre ai rivoluzionari, senza incontri alle stazioni. È il “treno piombato” che corre nella leggenda da un secolo.
In realtà è una carrozza speciale che li aspetta nella piccola stazione tedesca di Gottmadingen, subito dopo il confine svizzero. Un solo vagone verde scuro con due toilette ai lati, cinque scompartimenti di terza classe con le panche in legno dove si sistemarono gli scapoli, e tre settori di seconda classe con i sedili imbottiti per le famiglie, le donne, i due bambini, Stepan di 9 anni e Robert di 4. Due ufficiali tedeschi, il luogotenente von Buhring e il capitano von Planetz, occuparono l’ultimo scompartimento di terza classe e il socialista svizzero Fritz Platten tracciò un semicerchio col gesso nel corridoio davanti a loro, che solo lui — il mediatore tra rivoluzionari e tedeschi — poteva attraversare. Era la “piombatura” che Lenin aveva richiesto, insieme con la chiusura a chiave delle tre porte. Ma questo non bastò per evitare i fischi e le urla contro di lui alla partenza da Zurigo, anticipo della tempesta russa prossima ventura: «Traditore», «Spia», «Venduto al Kaiser ».
A Lenin e a Nadja Krupskaja, che avevano lasciato un baule di vestiti nel bagagliaio, portando con loro una scatola di libri e una di giornali dopo aver bruciato le lettere, venne riservato uno scompartimento, in modo che Ilic potesse lavorare scrivendo chino sul suo quaderno nero. Prima, aveva distribuito delle tessere numerate per il bagno, e un secondo contrassegno per i fumatori che dovevano raggiungere la toilette, visto che Lenin non sopportava il fumo. Andò anche due volte nel corridoio a chiedere di abbassare la voce. E un’altra volta fu il capitano von Planetz che chiese a Platten di far cessare il canto della Marsigliese che saliva dalla terza classe, con insolenza rivoluzionaria. Nel piccolo treno c’erano venti uomini, dieci donne. Bolscevichi come Zinovev con la moglie Zina, socialisti che arrivavano da Losanna come Gobermann, da Clarens come Inessa Armand, che conosceva Ilic dal 1910, aveva con lui un legame speciale, politico e sentimentale e aveva vissuto praticamente accanto a lui e Nadja fino al 1915: la rivoluzionaria a cui Lenin scriveva quasi tutti i giorni, l’unica a cui dava del “tu”, mentre riservava il “voi” a tutti gli altri.
Singen, Villingen, Stoccarda, Francoforte, poi Berlino col filo spinato della guerra che si vede dal finestrino, e il treno che si ferma per venti ore alla stazione, ore riempite da leggende: qualcuno ha incontrato Lenin, a nome del governo tedesco nello spazio politico extraterritoriale del treno? Non ci sono testimoni. È certo soltanto che Vladimir Ilic proprio in quei momenti scrive sul suo quaderno le Tesi d’aprile, con cui cortocircuiterà a Pietroburgo la rivoluzione borghese in rivoluzione proletaria. Ed è certo ormai che la Germania finanziò pesantemente il partito bolscevico per la propaganda e per l’attività rivoluzionaria, con più di undici milioni di marchi tra febbraio e novembre 1917.
Si capisce che tutto il mondo guardi a quel treno che è un capolavoro diplomatico, un meccanismo drammaturgico, un paradosso politico, addirittura una sovrastruttura ideologica, e insieme un’arma di guerra sofisticata che attraversa le linee e i Paesi in conflitto, aggirando il fronte per trasportare in patria la rivoluzione sui vagoni dell’Impero nemico. Seguono la corsa gli inglesi attraverso lord Howard, ambasciatore a Stoccolma, il Kaiser dal quartier generale di Pless, il colonnello Nikitin capo del controspionaggio russo, che chiede al comandante della regione di Pietroburgo di fermare il treno piombato alla frontiera, per non far tornare Lenin nella capitale.
Ma a Piter (mentre il treno il 12 aprile del calendario europeo arriva a Sassnitz e Lenin sale coi suoi sul “Queen Victoria”, il traghetto che lo porterà a Trelleborg, da dove raggiungerà Malmoe e Stoccolma) nessuno è in grado di decidere. Il governo zarista di Golizyn si è dissolto nel buio, una notte, quand’è mancata all’improvviso la luce a palazzo Mariinskij e i ministri se ne sono andati in fretta, pochi minuti prima che la sala del Consiglio venisse assaltata e saccheggiata. Ma era da settimane un governo fantasma: quando il Consiglio aveva chiesto le dimissioni del ministro dell’Interno Protopopov, il più impopolare, lui aveva proposto di sparire suicidandosi. Poco per volta i ministri furono arrestati, e finirono nel Padiglione del governo di palazzo Tauride trasformato in carcere, con l’ex Primo Ministro zarista Goremykin che chiede un sigaro, l’ex ministro di Polizia Maklakov che vuole una pistola, proprio mentre arriva a dichiarare fedeltà alla rivoluzione la guardia cosacca dello Zar, con le coccarde rosse sui cavalli.
Nella coabitazione guardinga dei due poteri, la Duma nomina il governo provvisorio guidato dal principe Lvov, un ministero nato dalla rivoluzione ma senza rivoluzionari (a parte Kerenskij) che decide come primo atto l’amnistia per tutti i reati politici, religiosi, terroristici, la libertà di parola, di stampa, di associazione, il diritto di sindacato e di sciopero, la confisca delle terre dello Zar e annuncia che la guerra continua. Ma intanto il Soviet dallo stesso palazzo emana il “Prikaz” numero 1 che porta tutte le Forze Armate sotto il suo controllo, come già sono ferrovie, poste, telegrafi, abolisce i titoli di “Vostra Eccellenza” e “Vostra Nobiltà” con cui i soldati erano obbligati a rivolgersi agli ufficiali e vieta ai comandanti dei reparti di usare il “tu grossolano” con i loro uomini.
Sembra che si voglia spalancare la Russia al treno di Lenin che adesso, dopo il saluto del sindaco di Stoccolma e dopo che Ilic si è comprato due paia di pantaloni e delle scarpe nuove, dalla Svezia corre verso la Finlandia. A Tornio Lenin passa in slitta il fiume ghiacciato per salire sull’ultimo convoglio, attraverso la Finlandia e poi la Russia. È la domenica di Pasqua quando telegrafa alla sorella che sta per arrivare: il giorno di festa in cui il governo provvisorio decide di distribuire a Piter e Mosca razioni speciali di burro, latte, farina, formaggio, anche se nel pane nero cotto troppo in fretta si continuano a trovare fili di paglia.
La città che aspetta Vladimir Ilic comincia a veder disfarsi la sua bellezza. C’è l’ordine di tenere i portoni spalancati ma molti negozi sono sbarrati, le insegne divelte, i vetri rotti. Le auto dei Granduchi sono sequestrate, corrono per i Prospekt con i soldati sui parafanghi, il mitra in mano. Ma i rivoluzionari entrano anche al circo Ciniselli, famoso per i cani ammaestrati, requisiscono i cavalli che serviranno per la parata. Si sentono ancora spari, le case tengono le finestre chiuse. Una piccola folla attacca l’hotel Astoria, dà la caccia agli ufficiali, il tenente Kuzmin piange quando deve consegnare la sciabola. Nella base navale dell’isola di Kronstadt i marinai si rivoltano uccidendo gli ufficiali e trucidando a colpi di baionetta il comandante, l’ammiraglio Viren.
I reggimenti e i battaglioni continuano a sfilare per la città con i nastri rossi al posto delle mostrine imperiali, sotto bandiere e striscioni che inneggiano alla rivoluzione, al Soviet, alla repubblica socialista. Si parla di un milione di disertori sbandati nelle campagne e nelle città, si sa per certo che il reggimento di Jastreboij contava 1600 soldati, a fine marzo sono rimasti in 30. Protopopov prima di finire in carcere deve rivelare le 14 postazioni in cui ha piazzato i reparti di mitraglieri lealisti, nascondendoli addirittura sui tetti della Cattedrale della Trasfigurazione, nell’abbaino di Sant’Isacco: ma anche in carcere ci sono incursioni, tanto che un gruppo di soldati entra nella fortezza Pietro e Paolo e porta via cuscini e coperte agli ex ministri.
Mentre il treno sta divorando gli ultimi chilometri, nella sala Caterina di Palazzo Tauride i soldati sono riusciti a salire fino ai lampadari dorati e stanno segando ad una ad una le coroncine imperiali sopra le aquile bicefale: ancora oggi hanno la testa mozzata in alto. Dovunque in città si demoliscono le insegne dello Zar, si sfregiano le statue, se sono troppo grandi si coprono con un telo, si restituiscono le decorazioni imperiali alla Duma. E l’ex Sovrano compie l’ultimo suo atto, inutile. Alla “stavka”, il gran quartier generale di Mogilev, indirizza un messaggio di saluto alle truppe, invitandole a ubbidire al governo provvisorio. Non sarà mai reso pubblico. Arriva invece la notizia dello sfondamento tedesco sul fronte a Stokhod, con 25 mila prigionieri russi e la cattura di un gran numero di pezzi d’artiglieria. Ecco il buio profondo della Russia che il treno di Lenin taglia coi suoi fari entrando a Pietrogrado.
Scendendo finalmente sul marciapiede, dopo essersi tolto il berretto davanti al picchetto d’onore, Ilic trova Aleksandra Kollontaij che non conosceva anche se si erano scritti spesso, con un mazzo di fiori per lui e gli operai di Vyborg che gli consegnano la tessera del partito bolscevico. Cerca con gli occhi i vecchi compagni come Selgunov e Kriizanovskij. Tra le bandiere e le decorazioni lo portano nella sala d’onore dello Zar, dove l’Imperatore riceveva gli ospiti stranieri. Qui lo aspetta il presidente del Soviet, Nikolaj Chkeidze: «Bentornato, compagno Lenin. Il compito principale oggi è la difesa della rivoluzione. E questo obiettivo richiede non la divisione, ma la capacità di serrare i ranghi. Speriamo che condividerete questo obiettivo con noi».
Lenin gli volta la schiena e parla alla folla ribaltando il discorso: «Marinai, soldati, operai, voi siete l’avanguardia dell’esercito proletario mondiale. L’aurora della rivoluzione socialista mondiale è già spuntata, l’intera costruzione del capitalismo europeo può crollare da un momento all’altro. Viva la rivoluzione socialista mondiale». Sulla piazza gremita, Vladimir Ilic prova a salire sul cofano di un’auto, poi viene issato sulla torretta di un blindato e ripete le stesse parole sotto le sciabolate mai viste di un gigantesco proiettore della seconda flotta, come in un quadro iperrealista. Tra gli applausi il blindato lo porta alla sede del Comitato centrale. Nadja lo segue in auto. Sapendo che era la notte del lunedì di Pasqua — il 3 aprile nel calendario russo — in treno aveva chiesto a Lenin se avrebbero mai trovato una carrozza alla stazione: adesso vede che il mondo ha fatto un giro, la carrozza di Lenin stanotte è un carrarmato.
Appiattendo la storia il corteo si ferma sul Lungofiume degli Inglesi, dov’è la sede del Comitato Centrale bolscevico, proprio nella palazzina bianca che Nikolaj II da giovane ufficiale aveva regalato alla ballerina del Mariinskij Matilda Kshesinskaja, e dove bussava la sera presentandosi come il “conte Volkov”. Lenin deve affacciarsi al balcone del primo piano, per rispondere alla folla che lo acclama, poi cena con i dirigenti del partito nella grande sala sul giardino d’inverno. Qui per la prima volta, parlando due ore, propone che i Soviet prendano subito il potere per realizzare immediatamente la rivoluzione socialista. È una frustata per tutto il partito, un terremoto per la sua linea di cauta collaborazione col governo provvisorio e con le altre forze. Si ripete il giorno dopo, a palazzo Tauride, illustrando le sue Tesi d’aprile: fine della guerra, rottura col governo, confisca delle terre, nazionalizzazione delle banche, repubblica dei Soviet e un nuovo nome per il partito, comunista.
Pensarono che fosse pazzo, che fosse finito. Lo contestarono in aula rumoreggiando e battendo i piedi, Kamenev lo attaccò sulla Pravda con l’appoggio di Stalin e il comitato bolscevico di Pietroburgo respinse le Tesi di aprile. Appena rientrato in Russia, Lenin era in minoranza nel suo partito. E fuori, fomentato dai Cadetti, scoppiò il caso del treno piombato. Lenin dovette difendersi davanti al partito e sulle Izvestija, mentre i giornali lo attaccavano come collaborazionista e traditore e i cortei sfilavano sotto il palazzo della Kshesinskaja con cartelli che chiedevano di rimandarlo in Germania. Persino il guardiamarina Maksimov, che aveva ordinato il saluto militare al suo arrivo, rinnegò quel gesto: «Se avessimo saputo per quali vie era rientrato in Russia, invece di urlare evviva gli avremmo detto vattene, torna dai tedeschi».
Lenin rientrava scortato, la notte, al secondo piano di via Shirokaja 52, dove la sorella Anna abitava col marito Mark e il figlio adottivo Gora (che la prima sera gli aveva fatto trovare sul cuscino del letto singolo la scritta «Proletari di tutti i Paesi, unitevi») e all’altra sorella, Marija. Aveva un ufficio alla Pravda e un altro al partito, da dove si difendeva attaccando, organizzando gli operai, moltiplicando gli iscritti, creando diecimila Guardie Rosse, diffondendo le parole d’ordine bolsceviche su 41 giornali e riviste. Il Capo del partito dei Cadetti, Miljukov, che era anche ministro degli Esteri, guidava la campagna sul treno tedesco e a fine aprile portò in piazza migliaia di feriti e mutilati contro Lenin «traditore della patria in guerra». Ma negli stessi giorni il ministro inviò una nota riservata agli ambasciatori in cui diceva che la Russia manteneva gli obiettivi di guerra del governo zarista, annessioni comprese. Lenin accusò Miljukov di “imperialismo”, la protesta popolare lo costrinse a dimettersi e si formò un governo di coalizione, con sei socialisti.
Vladimir Ilic aveva resistito, e adesso poteva vincere. Stalin e Zinovev si schierarono con lui, conquistò la maggioranza del partito. Più tardi, sull’isola Vasilevskij, si riunì il primo congresso panrusso dei Soviet, con mille delegati. Quando Iraklij Zereteli, uno dei Capi menscevichi, invitò all’unità sostenendo che «oggi in Russia non esiste un partito politico che possa dire: dateci il potere, andatevene e noi prenderemo il vostro posto», si udì una voce dal fondo. Era Lenin, con un dito nel panciotto sotto le ascelle e l’altra mano tesa in avanti: «No, no. Questo partito c’è. È il partito bolscevico ».
Quel gesto col dito puntato è fissato per sempre nel bronzo del monumento di fronte alla stazione, dove oggi si danno appuntamento i ragazzi di Vyborg, davanti al chiosco dei pendolari che vende a qualunque ora i pelmeni caldi con la carne tritata. Ma il vero monumento è al primo binario, dove una teca di cristallo circonda una copia del treno piombato (in realtà di un altro treno, con cui Lenin riparò in Finlandia), fermo alla “Finljandskij vokzal” da cent’anni. Come se quell’arrivo fosse pronto a ripetersi o al contrario come se non finisse mai, con il ’900 bloccato per sempre a quel marciapiede davanti alla rotaia. Come se la rivoluzione, oggi che la storia ha completato il suo giro chiudendo il cerchio del secolo, si potesse mettere sotto vetro, quasi fosse una reliquia.
5. Continua ©RIPRODUZIONE RISERVATA
LE PUNTATE PRECEDENTI
Sono state pubblicate il 9 dicembre, il 13 gennaio, il 3 febbraio e l’ 1 marzo scorsi

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