lunedì 24 aprile 2017

"Populismo" come strategia egemonica?

Più che con la lenta e faticosa costruzione dell'egemonia e con la capacità di mobilitare vaste masse che costituiscano delle maggioranze, il populismo sembra avere a che fare con l'organizzazione di minoranze un po' più compatte delle minoranze concorrenti, con buona pace di Laclau [SGA].


La resa dei partiti storici in un Paese diviso a metà 

Nelle zone rurali trionfa il Front, giovani e città con il 39enne di En Marche! 

Cesare Martinetti Staqmpa 24 4 2017
Emmanuel Macron salva l’onore della Francia: è il più votato con il 23,9 per cento al primo turno della presidenziali di ieri; Marine Le Pen arriva «solo» seconda con il 21,7, dopo l’orgia di sondaggi e tamtam che la davano da un anno al 26 per cento, primo partito e candidata da battere. E invece sarà lei a dover rincorrere il suo avversario di qui al ballottaggio del 7 maggio.
Perdono gli storici partiti francesi, socialisti ed ex gollisti. 
Ma la vera questione è ora sapere se il giovane Macron, candidato senza partito, socialdemocratico dichiarato ed europeista convinto, sarà in grado di arrivare fino in fondo, se saprà reggere l’urto dell’onda populista di cui la Le Pen si è fatta interprete e non da sola. Il tribuno dell’estrema sinistra Jean-Luc Mélenchon leader della «France insoumise» (la Francia che non si sottomette) sfiora il 20 per cento e quindi sommando i voti degli «opposti estremismi» antisistema si arriva ad oltre il 40 per cento di voti espressi. È difficile immaginare che i voti dell’estrema sinistra si sommino automaticamente a quelli del Front National in odio politico al candidato del «sistema» Emmanuel Macron; più realistico immaginare che molti di questi consensi si trasformino in astensione. Mélenchon per ora non si è schierato. Ma la dimensione politica ed emotiva del fenomeno «anti» resta impressionante. È la sfida più grande della politica europea di oggi, dopo Trump e dopo la Brexit.
Il candidato della destra repubblicana François Fillon si è quasi subito dichiarato sconfitto: sembra appena sopra Mélenchon, ma comunque sonoramente battuto. I francesi non gli hanno perdonato lo scandalo della moglie e dei figli stipendiati come assistenti parlamentari. Il candidato socialista Benoît Hamon raccoglie soltanto il 6 per cento dei voti: un risultato umiliante per rue Solférino che mette una seria ipoteca sulla sopravvivenza del partito. Ci vorrà una rifondazione, ma nessun Mitterrand (come fu nel 1971) è all’orizzonte. Sia Fillon che Hamon hanno già fatto appello a un voto «anti-Le Pen», a denti stretti - dunque - a favore di Macron, il candidato che più hanno combattuto in questa paradossale campagna elettorale.
Ma l’unica cosa che conta ora è sapere se Emmanuel Macron, questo giovanotto di 39 anni, brillante ex banchiere d’affari in Rothschild, ex vicesegretario dell’Eliseo, ex ministro dell’Economia di François Hollande, saprà convincere la maggioranza dei francesi di poter incarnare il ruolo da quasi monarca che la Costituzione della Quinta repubblica affida al presidente. Lo sapremo tra quindici giorni.
Intanto, quest’elezione è già storica sotto vari aspetti, un «sisma», come scrive Le Monde. Non vanno al ballottaggio i candidati dei due partiti tradizionali ed è la prima volta che accade. I socialisti eredi di Mitterrand sono ai minimi; i «repubblicani» eredi della mutazione gollista sono fuori dalla sfida decisiva nella vita politica francese. Per la prima volta il partito d’estrema destra, erede della Francia nera, da Vichy all’Oas che fece a suon di bombe la guerra a De Gaulle per l’indipendenza dell’Algeria, supera il 20 per cento dei voti. Per la prima volta un candidato come Macron, senza partito se non il suo movimento «En marche» (in marcia) fondato appena un anno fa, arriva al ballottaggio. Lui stesso era praticamente uno sconosciuto fino a quando Hollande non l’ha nominato ministro dell’Economia. E inoltre non era mai stato eletto, una vera eresia per la tradizione della politica francese che, fondata sul radicamento territoriale ed elettorale degli eletti («Les élus»), esprime da sempre la sua legittimazione. 
L’analisi del voto, per quanto era possibile fare nella notte, conferma che nelle zone rurali e in quelle dove più ha colpito la crisi economica e industriale, Le Pen è prima come fu nelle regionali 2015 (quando però venne poi battuta ai ballottaggi). Macron vince a Parigi e nelle grandi città. È probabile che anche nella rilevazione dei flussi per generazioni le divisioni siano altrettanto nette: più forte Le Pen tra i giovani; più Macron nell’elettorato moderato.
La posta in gioco è altissima: governo della Francia e sopravvivenza dell’Unione Europea. La risposta del 7 maggio non è scontata: sugli 11 candidati che ieri si sono presentati al voto, solo Macron si dichiarava indiscutibilmente europeista. Naturalmente affermando la necessità di riformare e di cambiare la politica economica, meno austerità e più sviluppo, ma con la difesa ad oltranza della Ue e dell’euro. Anche Fillon, candidato della destra repubblicana, ha giocato l’ambiguità ricordando di aver votato No, nel 1992, al referendum sul trattato di Maastricht e la moneta unica. 
Il ballottaggio introdurrà dunque una diversa scomposizione dell’elettorato: nel primo turno si vota col cuore e con la propria identità, nel secondo turno si sceglie con la ragione, spesso più contro il candidato che non si vuole che a favore dell’altro. Fu così nel 2002 quando a sorpresa il Presidente gollista Chirac si trovò di fronte al ballottaggio non il socialista Jospin, ma Jean-Marie Le Pen, storico duce dall’estrema destra e padre di Marine. La sinistra fu costretta a votare per il nemico: 82 per cento per Chirac. Ma molta acqua è passata sotto i ponti della Senna e gli scenari sono completamente diversi. Nessuno pensi di rivivere il replay di allora. È un’altra partita, ma - si spera - con lo stesso risultato finale. 
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Cacciari: in Italia come a Parigi affidarsi ai populisti porterebbe soltanto disordine 

“La Francia dice che con paura e rabbia non si vince” 

Fabio Martini Stampa 24 4 2017
Massimo Cacciari, mai scontato nelle analisi, a caldo estrae due dati di fondo dal voto francese: «Il primo: la probabile vittoria di Macron dimostra che oggi in Francia, ma domani in Germania e in Italia, prevale un voto di conservazione, con l’idea che affidarsi ai populisti comporterebbe ulteriori casini, disordine e paura, oltre a quella che già circola nelle nostre società. E poi c’è un secondo dato storico, colossale, sinora non sufficientemente analizzato: siamo alla fine della socialdemocrazia europea, cioè della prima forza organizzata di massa della storia moderna».
I populisti cominciano a fare troppa paura?
«Troppe paure in giro, per pensare e far dire a tanti: cambiamo con questi, con Le Pen o con Salvini».
Quindi l’ultimo attentato a Parigi non ha aiutato Le Pen?
«Assolutamente no. Più l’Isis farà quel gioco lì, più saranno favorite le forze che tendono a conservare lo status quo. E io dico: fortunatamente». 
Cinque anni fa Le Pen ottenne il 17,9%: ora certo avanza, certo va al ballottaggio ma grosso modo rappresenta un francese su cinque: il populismo non sfonda?
«È rimasta lì. Forse se si fosse votato due anni fa, quando ci fu il primo attentato dell’Isis, Marine Le Pen avrebbe potuto sperare in un risultato diverso. Ma ora è cambiato il vento e, salvo cataclismi improbabili ma sempre possibili, anche negli altri Paesi europei andrà così». 
Come interpreterà l’establishment “conservatore” questo voto?
«Guai se in Francia, Germania e Italia pensassero: continuano a votarci perché preferiscono noi. Non è così: continuano a votare loro, perché gli altri fanno ancora più paura. Naturalmente quando parlo di forze di conservazione, io le intendo in senso buono, anche perché spero che sappiano imparare la lezione. Per uscire presto dall’infelice scelta alla quale rischiamo di restare costretti: quella tra un’Europa della conservazione e un’Europa della reazione».
E Macron? Sarà un presidente “europeista alla francese”?
«Certamente sì. La sua affermazione comporta uno 0,1 per cento di novità. Ma in ogni caso penso che la sua probabilissima elezione a Capo dello Stato ci consentirà di continuare a sperare».
In Francia la “Gauche” non soltanto non va al ballottaggio, ma i socialisti tornano alle percentuali pre-Mitterrand, della piccola Sfio...
«In questo caso siamo davanti ad un evento europeo di grande rilievo, storico. In Francia, in Spagna, in Grecia non esiste più una socialdemocrazia, nel Regno Unito i laburisti sono guidati da Corbyn. In Germania la Spd resiste ma appare in una posizione subalterna. E una socialdemocrazia non esiste neppure in Italia, perché il Pd di Renzi certamente non lo è. Quella tradizione da noi è ridotta al 4 per cento di Speranza e Bersani».
Ma non è presto per sentenziare la fine del tradizionale bipolarismo?
«Certo che è presto. La socialdemocrazia sta sparendo, ma le alternative si chiamano Tsipras, Podemos...
In Italia?
«Quel che resta del vecchio bipolarismo può sopravvivere in un’ alleanza Renzi-Berlusconi...».
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Chi raccoglie il testimone del riformismo 
Massimiliano Panarari Stampa 
Fine della socialdemocrazia: game over. È capitato una sola volta, nella storia della Quinta Repubblica, che il Partito socialista non arrivasse al ballottaggio nelle elezioni presidenziali: accadde – i segni del destino – al povero Lionel Jospin, fatto fuori nel 2002 da Jean-Marie Le Pen, il padre fachò e razzista di Marine, infine «ripudiato». Ora anche la figlia sbarca al secondo turno, mentre il candidato socialista Benoît Hamon, uscito dalle primarie di partito, ha riportato un risultato disastroso, un’autentica Waterloo. Molto meglio di lui ha fatto persino l’indignato Jean-Luc Mélenchon, a capo di quella France insoumise che rappresenta una miscela, tipicamente franco-francese, di ribellismo, radicalismo e sovranismo rosso, e che puntava, più che al ballottaggio, all’egemonia nella gauche. 
E, dunque, che anche in Francia la sinistra competitiva e con chance di vittoria stia diventando sempre più post-ideologica? Siamo dalle parti di un centrosinistra – o centro-centrosinistra, come nel caso di Emmanuel Macron – inedito, che riscuote consensi e riesce quanto meno a contenere l’assalto delle armate populiste. Un riformismo originale, articolato sotto il profilo dei modelli organizzativi e delle piattaforme culturali, molto legato – come prevede l’orizzonte della personalizzazione della politica – alla personalità dei suoi nuovi leader, che si può tuttavia provare a considerare alla stregua di una tendenza unitaria perché appare proteso verso la ricerca di risposte alle metamorfosi di questi ultimi decenni. Quelle che hanno messo in buca e in mora la sinistra di tradizione novecentesca, da cui questo progressismo postmoderno ha preso congedo in via definitiva: dalla paura dell’immigrazione a quella per la deindustrializzazione e l’automazione galoppante nel mondo del lavoro, dalla «rivolta contro le élites» all’orizzonte cognitivo della post-verità e delle «camere dell’eco» dei social media. Ovvero le nuove fratture e i mutamenti che hanno fornito propellente elettorale alla vasta galassia populista e sovranista e alle forze politiche anti-establishment. Mentre l’arcipelago dei neoprogressisti, pur composto spesso da offerte partitiche innovative, si mette senza tentennamenti dalla parte «del sistema» politico (liberaldemocratico e pluralista) ed economico (il mercato capitalistico, certo da correggere laddove le differenze anziché essere fattore di dinamismo generano troppe disuguaglianze e impoveriscono quel ceto medio che, in questi anni, ha cercato riparo sempre più massicciamente tra le braccia dei nazional-populisti). E sceglie i percorsi – tutt’altro che facili, appunto – dell’accoglienza, della solidarietà e dell’integrazione tra la persone e tra gli Stati – l’altra scommessa controcorrente fatta propria dai neoprogressisti, infatti, è quella dell’europeismo senza se e senza ma, che costituisce un altro tratto comune. Al di qua – con En Marche!, i Verdi olandesi di Jesse Klaver e quelli austriaci del presidente della Repubblica Alexander Van der Bellen – e al di là dell’Atlantico, con i liberal del premier Justin Trudeau.
I partiti socialisti si trovano oggi spiazzati dal nazional-populismo e dal sovranismo di destra, oppure dal populismo di sinistra, che hanno in gran parte sottratto loro i voti delle classi lavoratrici perché il modello tradizionale di socialdemocrazia non regge le sfide del mondo liquido, postindustriale e globalizzato tra individualizzazione dei bisogni e assenza di risorse pubbliche da distribuire a causa della crisi fiscale degli Stati-nazione. Il testimone del riformismo passa così a leader e formazioni politiche liberalsocialiste o neo-ecologiste che predicano le virtù della società aperta e risultano, senza alcuna nostalgia, compiutamente postsocialdemocratiche.
@MPanarari
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