domenica 2 aprile 2017

Spacciatori di populismo reattivo

LA DEMOCRAZIA AI TEMPI DI BREXIT E IL DIRITTO DI CAMBIARE IDEA 
TIMOTHY GARTON ASH Rep 1 4 2017
QUESTA settimana si è aperto il terzo dei cinque atti dell’opera teatrale intitolata Brexit. Lo spettacolo durerà come minimo cinque anni, più probabilmente dieci, e solo al quinto atto sapremo se si tratta di una tragedia, di una farsa o di una tipica improvvisazione teatrale britannica. Tutti noi che a milioni in Gran Bretagna ci sentiamo europei non dobbiamo arrenderci ora, come se lo spettacolo fosse finito, perché così non è, e perché noi non siamo solo spettatori. Siamo attori in palcoscenico, con il compito primario di convincere gli altri interpreti.
Il primo atto è stato il referendum, il secondo il processo di attivazione dell’Articolo 50. Il terzo atto è il negoziato di due anni che in base al trattato di Lisbona deve concludersi nella primavera 2019. Si tratta ovviamente di un momento importante, ma non è la fine della pièce. Nella lettera a Donald Tusk, Theresa May auspica che l’accordo commerciale tra Regno Unito e Unione Europea «superi per portata e ambizione ogni altro accordo precedente». È molto poco probabile che si riesca a negoziare in due anni un accordo così grandioso, anche se il negoziato dovesse avviarsi realmente in contemporanea con quello per l’uscita dall’Ue, che a detta dei 27 Paesi dell’Unione deve avere la precedenza.
Quindi quasi sicuramente ci sarà il quarto atto, in cui il Regno Unito chiuderà un accordo transitorio con la Ue, mentre “lo schema dei futuri rapporti con l’Unione” secondo la vaga definizione dell’Articolo 50, si trasformerà in un accordo omnicomprensivo vero e proprio. Le esperienze pregresse nell’ambito degli accordi di libero scambio, soprattutto quelli negoziati con questa unione multinazionale, fanno pensare che ci vorranno anni, si arriverà forse al 2021 o 2022. Solo allora entreremo nel quinto atto, in cui gradualmente emergeranno le conseguenze dell’accordo finale, ben oltre il 2020.
Questo calendario tiene comunque in scarsa considerazione i fattori di incertezza. Il divorzio tra un uomo e una donna è già abbastanza complicato, ma in questo caso avviene tra due entità complesse, ciascuna delle quali attraversa una crisi esistenziale: l’unione britannica, in primo luogo per colpa della Brexit, e l’Unione europea, per cui la Brexit è solo una crisi tra le tante.
Tutte le ipotesi attuali potrebbero essere stravolte tra sole cinque settimane se i francesi eleggeranno Marine Le Pen a presidente il 7 maggio. Se però un Emmanuel Macron presidente potesse unire le forze con un Martin Schulz cancelliere, dopo le elezioni tedesche in settembre, si avrebbe un nuovo stimolo ad approfondire l’integrazione di un nucleo europeo. Certo è che la maggior parte dei leader europei oggi punta a salvare l’Ue e si concentra sui problemi urgenti, non pensa ad aiutare la Gran Bretagna. Dato che l’accordo necessita dell’approvazione di tutti i Paesi (anche se in sostanza può essere approvato con voto a maggioranza qualificata) e il termine massimo è fissato rigidamente in due anni, la Gran Bretagna si trova in una posizione negoziale molto debole.
Sul versante britannico tra le “cose che sappiamo di non sapere” ci sono la Scozia, l’Irlanda e l’impatto economico che la Brexit, per come emergerà dal terzo atto, avrà sulla Gran Bretagna. Dipenderà dal clima di fiducia dei mercati, ma anche da come milioni di britannici giudicheranno la loro situazione individuale. È qui che entriamo in gioco noi, l’altra metà della società britannica, e anche “la gente” che ha votato per la Brexit.
La Gran Bretagna è una democrazia e la democrazia non significa “una persona, un voto, una volta”. Né significa “un popolo, un voto, una volta”. «Nelle nazioni democratiche», ha detto qualche anno fa David Davis, oggi ministro per la Brexit, intervenendo sul rapporto della Gran Bretagna con l’Ue, «si tengono elezioni serie e regolari in cui gli elettori possono conservare l’esistente o fare piazza pulita. È regola essenziale ai fini del principio del potere popolare che un governo non può vincolare quelli successivi». E ha aggiunto saggiamente, «se una democrazia non può cambiare idea, non è più una democrazia». Esatto.
Ma per farlo devono cambiare idea le persone che eleggono i politici e non è probabile che ciò avvenga in tempi brevi. È umano essere riluttanti ad ammettere i propri errori. Anche se l’umore dei mercati può cambiare in fretta, pare improbabile che le conseguenze economiche negative della Brexit si facciano palesi e innegabili agli occhi degli elettori comuni prima di un anno o due. E bisogna fare i conti con la stampa euroscettica che, avendo guidato la carica per la Brexit, ora sta sfornando una straordinaria propaganda trionfalistica. “Libertà!” esultava il Daily Mail mercoledì, titolando il giorno dopo “Applausi al grande futuro britannico”. “La Ue deve milioni alla Gran Bretagna» era il titolo fuorviante del Daily Express. Il populismo di oggi ci insegna che queste narrazioni semplicistiche, nazionaliste, che fanno perno sull’emotività, spesso hanno la meglio sulle tesi ragionate e basate su riscontri oggettivi. O, in termini più ottimistici, che serve tempo per far scoppiare la bolla populista.
È in questo contesto che si inseriscono i cinque atti. Il voto parlamentare sull’esito provvisorio dei negoziati, che avrà luogo nell’autunno 2018, sarà un momento importante, ma oggi pare improbabile che l’opinione pubblica abbia nel frattempo un’oscillazione tale da far sì che la maggioranza parlamentare, inclusi i deputati laburisti dall’elettorato fortemente favorevole alla Brexit, voti realmente per rimandare Theresa May a Bruxelles con una pulce nell’orecchio che la invita a ottenere un accordo migliore. Ed è ancor più improbabile che voti per il secondo referendum proposto dai liberaldemocratici.
Ma se non mi sbaglio e si andrà al quarto atto, le cose cambiano. In quegli anni fondamentali le conseguenze economiche saranno più evidenti, probabilmente la Scozia terrà un secondo referendum sull’indipendenza (probabile data di compromesso l’autunno 2019), saranno più palesi i problemi derivanti da una frontiera esterna dell’Ue che taglia l’Irlanda e, soprattutto, si deve andare al voto politico nel 2020. Con un leader migliore a capo del partito laburista e la sinergia dei liberaldemocratici e di altri partiti minori potrebbe emergere un diverso mandato popolare per un nuovo governo, che negozi le condizioni definitive per la Brexit. E, come ha giustamente osservato il ministro Davis, alla base della democrazia parlamentare britannica vige il principio che nessun governo può vincolare il successivo.
Non dico che sia un’ipotesi probabile, ma è possibile. Per realizzarla noi europei britannici dobbiamo trovare il modo di arrivare a una parte degli elettori che hanno votato la Brexit, riconoscendo che non sono propensi a sorbirsi prediche da parte di liberali metropolitani (per esempio giornalisti del Guardian). Dobbiamo entrare nelle stanze dell’eco del populismo con chiari dati di fatto e il caro buonsenso britannico alla mano.
Invece di ripetere il ritornello “blocchiamo la Brexit”, che ci fa mettere alla gogna come remoaner piagnucolosi, dovremmo indicare il nuovo obiettivo in termini positivi. Ovviamente voglio che la Gran Bretagna resti nell’Ue, esattamente come un fautore della Brexit avrebbe continuato a desiderare che ne uscisse, se l’esito del referendum fosse stato opposto — e mai dire mai. Ma, come ho scritto una settimana dopo il voto referendario, il nostro obiettivo strategico dovrebbe essere “mantenere il massimo coinvolgimento possibile del nostro regno disunito negli affari del nostro continente”. Si fa un gran parlare del “rapporto stretto e speciale con la Ue”, che sia davvero molto stretto e privilegiato. E chissà quali opportunità potrebbero portare gli anni a venire? Siamo solo all’inizio del terzo atto, c’è ancora molto spazio per l’azione.
( Traduzione di Emilia Benghi) ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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