mercoledì 5 aprile 2017

Zecche, pecore e pupazzi dopolavoristi: anziani negrieri settantasettini, lottacontinuisti distruttori di una sinistra italiana che già non aspettava altro, con orgoglio nostalgico rivendicano la catastrofe ai nipotini manifestini distratti dall'aperitivo


19 febbraio 1977 alla Sapienza, come ho costruito il pupazzo di Lama 

77 Contro il presente. Il movimento del 1977, 40 anni dopo. Per la prima volta il creatore del pupazzo del segretario della Cgil, diventato un'icona del movimento, racconta le ore precedenti a quel 17 febbraio all'università Sapienza di Roma che ha cambiato la sinistra
Claudio Tosi Manifesto 5.4.2017, 10:21 
Ecco, oggi, 40 anni fa, inconsapevole attivista ho creato una delle icone del movimento del ’77. 16 febbraio 1977 la Sapienza è occupata, dormo da giorni a terra senza sapere bene perché. Si deve stare qui, è il posto giusto, è la cosa giusta da fare, vogliamo una cultura che apra alla vita, vogliamo una vita che realizzi i desideri, gli ideali, che metta tutti sullo stesso piano, che realizzi uguaglianza e senza chiedere omologazione.
SONO QUI, ISCRITTO A FISICA, ho scritto uno slogan sul pavimento dell’atrio, per leggerlo devi guardare giù dalle scale, poco efficace, ma è il mio primo slogan, e l’ho scritto con una marzocca da imbianchino: «Borghesia boia, vivi di serietà, muori di noia!», non esprime rivendicazioni, ma è una denuncia al cuore dello stato, è da li che vengono gli «square» contro i quali si scaglia la chitarra ammazzafascisti di Woody Guthrie. Ma è il 16 Febbraio e l’assemblea è infocata, domani viene Lama, il Pci lo manda a rivendicare la sua capacità di controllo dell’opposizione, i gruppi extraparlamentari devono essere ricondotti all’ovile, gli studenti «riaccompagnati» alle famiglie. Delle trattative, forze in campo, lotte di potere non so dire. Per me era uno sfregio all’estetica, alla bellezza del movimento, alla forza dell’autogestione, alla creatività sciatta e cialtrona, ma piena di entusiasmo e potenzialità che mettevamo al mondo vivendo.
QUINDI ASSEMBLEA! E dal basso della mia inconsapevolezza e della mia statura, dalla marginalità del non essere gruppo o forza costituita: Partecipazione! Lama deve essere fermato, non deve parlare, non deve entrare! Dobbiamo zittirlo, respingerlo annientarlo! Oppure… oppure sbeffeggiarlo, accoglierlo con un tappeto rosso (d’altronde non è comunista?), confonderlo con un contropalco! Contropalco, contropalco! Un sosia di Lama, un Lama non Lama a cui rivolgere tutte le nostre attenzioni, mentre lui povero si sgola cercando di convincerci! Un’idea paradossale e situazionista, assolutamente non contrappositiva e totalmente spiazzante, un’idea geniale. Che nessuno raccolse.
OGGI IMMAGINO QUESTIONI che all’epoca non mi sfiorarono: chi sarebbe salito su qual contropalco, a quale delle mille sfaccettature del movimento sarebbe toccato ergersi a «contro Lama» e come non trasformare tutto ciò in una palese e perdente contrapposizione? Ma io avevo la mia illuminazione, il contropalco ci sarebbe stato, ci avrei pensato io, potevo farlo! Era già sera e dovevo muovermi deciso. Toccava uscire dall’università, andare a casa, dove avevo una tuta blu perfetta per l’uopo. Sereno presi il 19 e poi il 37, abitavo a Talenti (!) e il più tranquillo possibile entrai in casa, cercai di evitare spiegazioni o commenti e acchiappai quanto mi serviva. Via a fare! Fuori per strada c’era un gran pezzo di polistirolo, l’ideale per le mie necessità! Altro l’avrei trovato frugando in giro, in questo la fiducia della giovinezza verso la benevolenza del mondo non mi si è ancora intaccata.
IL VIAGGIO DI RITORNO FU ANGOSCIOSO. La città era amorfa, continuava la sua pigra e stolida esistenza, sembrava non sapere che l’università fosse occupata. Sembrava non tenerne conto, la gente andava a casa dal lavoro, usciva a cena, fumava distrattamente, molti imprecavano nel traffico, sembrava non fosse successo nulla. Sembrava?! O era vero!? Forse avevano sgombrato l’università, nel tempo della mia assenza avevano smantellato tutto?! Possibile… E NO! Eccola lì, la bandiera rossa che era stata alzata su un pennone al suo posto.C’è ancora tutto, la città è disinformata, ma noi ci faremo conoscere. Sono arrivato. Un’occupazione è quanto di più vuoto esista. Non c’è controllo degli spazi interni, tutta l’attenzione è ai confini, se ti muovi con naturalezza, e io ne avevo da vendere, vai ovunque e trovi tutto. A me servivano cose piccole, insignificanti, della carta usata, per riempire il corpo, un coltello qualsiasi per tagliare il polistirolo, della tinta, un po’ di spago, due legni. 
Solo mi serviva un palco. 
VA BENE CHE è UN CONTROPALCO, ma sempre in alto deve stare, altrimenti non può catalizzare gli sguardi, gli slogan, l’attenzione. E poi non so bene dove verrà Lama, quindi dovrei poterlo spostare alla bisogna. Una scala. Una scala come quella che ho visto al primo piano, alla biblioteca, credo. Una magnifica alta e solida scala, con tanto di cestello proteggi addetto, perfetto per tenere in piedi il mio pupazzo! È fatta. 
AVETE MAI SCESO UNA SCALA alta minimo due metri e mezzo da una scala di marmo? Ecco, non passa inosservato. Ma questa è un’occupazione e tutti sono occupati a farsi le cose loro, mica a notare uno gnomo che sfida le forze della fisica cercando di non farsi trascinare dalla sua preda. La scala c’è e c’è anche lo spazio e il tempo per lavorarci intorno, non è che ogni notte sia fatta per dormire. Il corpo c’è, ma serve di farlo diventare Lama. Non è che lo frequentassi molto. Sapevo due cose, aveva i capelli corti, era asciutto e fumava la pipa. Sono tre, meglio così. La testa sarebbe stata fatta di un unico pezzo di polistirolo con i capelli a spazzola e pipa inclusa, pochi tratti per gli occhi. I piedi non servono, li copre il cestello, le mani sono carta che sporge, legate sulla balaustra dello stesso.
MA COSI’ E’ UN POVERO PUPAZZO. Ci vuole di più, deve essere Lama! E chi è Lama per me? Cosa vuole da noi, come si caratterizza, chi lo può sconfiggere. Le scelte che ho fatto quella notte caratterizzano ancora quel misto di pressappochismo, di romanticheria e di sfottò che mi porto oggi: è qui per imporre la Pace sociale, lo può sconfiggere la Lotta di Classe! È così che nascono la medaglia che porta, al «Valore di pace sociale» e la spada di Damocle che gli pende sulla testa (ho fatto il classico!): la Bomba della Lotta di Classe. È mattino, l’alba, incurante della particolarità della giornata, anche oggi si tinge di rosa. Il Contropalco inizia la sua discesa dalla scalea di lettere. Ho trovato un compagno che mi aiuta a non precipitare. Ora è sistemato vicino al viale dove i politici sanno che verrà Lama. Pian piano un drappello di «occupanti» ci si raduna intorno, mancano ancora ore a quando diventerà l’ariete con cui forzare il servizio d’ordine degli operai. 
Mancano ancora ore a capire che i padri ci hanno tradito. 
L’ALBA DELLE TRONCHESI
È l’alba, Lama sta per arrivare all’università, ieri si diceva di accoglierlo con ogni onore, ribaltando l’affronto al movimento in maniera ludica e spiazzante. La prima idea è stata quella di fare un tappeto rosso, ma nessuno si è mosso per avere il necessario. 
HO APPENA FINITO il contropalco e sono elettrico, voglio vedere se c’è qualcosa che si possa fare per dare il segno di quanto consideriamo ostile e rigida questa intrusione.
BRUNO MI HA CHIESTO come sia stato possibile aver fatto il pupazzo di Lama da solo, visto che tutto veniva fatto insieme e coralmente. Non ho risposto, ma so che bastava non essere in vista per poter passare inosservato, e io in vista non ero davvero: troppo borghese per essere arrabbiato sul serio, troppo normale per stupire, troppo poco ideologico per appartenere ad una cerchia, un cane sciolto, come si vedrà. Insomma è l’alba o poco più, voglio organizzare qualcosa per l’accoglienza e quindi mi avventuro verso l’entrata, lo sguardo cerca appigli alla creatività, ma il tappeto rosso da stendere per accogliere Lama sembra non essere a portata di mano.
SONO IN VISTA DEI CANCELLI quando vedo arrivare un camioncino, sembra un camion da cantiere, di quelli scoperti con i laterali che si abbassano per caricare meglio. E ne scendono due omoni grossi, operai coi controfiocchi. Mi sembra strano, continuo ad avvicinarmi, sono a portata di voce, e vedo che hanno attrezzi in mano, non pale o picconi, un ferro grande, una tronchese!
CAPISCO, sono venuti a forzare i cancelli, c’è un’ora per tutto e questa non è certo quella in cui la nostra guardiania è la più vigile.
LA SITUAZIONE SEMBRA PERSA, ma anche un cane sciolto ha un’etica e quindi li affronto, implume, dicendo che i lucchetti sono per i fascisti e la polizia, che se vogliono entrare troviamo un modo. L’omone mi ricorda il Gigante Grissino di Braccio di Ferro, potente ma non arguto, diciamo. Nel suo schema non c’era nessuno con cui avrebbe dovuto parlare, nessuna interruzione all’atto banale di troncare una catena e far passare il camion.
EPPURE QUI QUALCUNO C’E’, e sembra preoccupato, dice che le catene sono degli studenti, delle loro moto, che può andare a chiamarli, che certamente torna in pochi minuti per aprire. E’ un discorso appassionato, ripete che i nemici sono altri che il movimento è con i lavoratori che così non è entrare ma irrompere, che…
DALLA SAGOMA DELL’OMONE vedo staccarsi un’ombra; è un omino, piccolo, scuro, me lo ricordo con l’impermeabile e gli occhiali, certamente con un cappello, l’icona dell’intellettuale organico. Quello che accadde allora può essere paragonato solo alla scena della roulette russa ne Il Cacciatore. De Niro ha ritrovato il suo amico drogato e perso, ma gli parla risvegliandone la coscienza, c’è un barlume nei suoi occhi spenti, si! Nick ha capito chi ha davanti inizia un dialogo, ma la voce dello scommettitore vietnamita lo interrompe, l’assuefazione fa il resto, parte il colpo mortale.
IN QUELL’ALBA NON C’ERA FOLLA né eccitazione, ma la posta in gioco era altissima; l’omino parla a voce bassa, dice poche sillabe: Taglia. 
L’OMONE non ha esitazioni: La catena della mia moto è persa per sempre, con essa è perduto il rapporto tra generazioni. 
IL PCI irrompe all’Università.

1977. La comune e il desiderio di vivere insieme: «La coop Aratro in lotta occupa la terra» 
77 Contro il presente. Il movimento del 77, 40 anni dopo. Da Roma all'Umbria. Il racconto dell'occupazione e della creazione di una comune. "Non siamo stufi del movimento. No, quello ci appartiene ancora interamente. Vogliamo starci dentro. Solo vogliamo cambiare aria. Ci servono nuovi paesaggi per i nostri sogni. Dove leccare le ferite di questa primavera di fuoco. Le nostre parole tornano sulla voglia di campagna. Di vita insieme solo un po’ più a nord" Bruno Testori Manifesto 5.4.2017, 10:19
12 marzo 1977, notte. Durante tutto il giorno, in centomila, venuti da tutta l’Italia, ci siamo presi Roma. Nonostante i tentativi, decisamente molto violenti e determinati di impedircelo. Polizia , carabinieri, insomma forze dell’ordine di ogni genere, in divisa o viscidamente mescolati tra noi con travestimenti improbabili e quindi tenuti il più possibile a bada, hanno fatto veramente di tutto per fermare la nostra manifestazione nazionale contro la repressione e per riprenderci le università. Nonostante la pioggia, l’aria è acre, ancora satura di lacrimogeni, Me li sento tutti i gola e nello stomaco vuoto, insieme a tracce di limoni e benzina. Saranno quasi le undici e sto guidando “stopulmino”, un vecchio Wolkswagen targato Cartagine. Pieno di finestre e di ruggine.
Figlio dell’ultimo ferragosto passato nella borgata dello Statuario, vicino alla scuola dove insegnava Pasolini. Giorni di caldo infernale e di lurido grasso per cuscinetti mischiato con la terra dello sfascio appoggiato ai ruderi dell’acquedotto Appio Claudio e con la segatura di ferro dell’improbabile officina di Giacinto.
“Gioia e rivoluzione”. Dalla smiagolante piastra a sei volts, l’ugola esaltata di Demetrio Stratos sfoglia violentemente le pagine del calendario della rivolta.
Ho fatto il pieno di compagni e li sto riaccompagnando a casa con morbidi slalom imbarcati tra le barricate ancora fumanti, azioni recenti di autodifesa per non finire stritolati sotto le ruote dei gipponi di Kossiga. Sono accatastati alle mie spalle su quello che resta dei sedili originali e su qualche sedia da osteria assicurata con pezzi di corda. Una missione quasi impossibile. Ad ogni incrocio c’è un posto di blocco.
Con Fà e Bastio ci raccontiamo la stanchezza, non solo per gli scontri e le corse di oggi, ma quella di un periodo che dura forse da troppo. Non siamo stufi del movimento. No, quello ci appartiene ancora interamente. Vogliamo starci dentro. Solo vogliamo cambiare aria. Ci servono nuovi paesaggi per i nostri sogni. Dove leccare le ferite di questa primavera di fuoco. Le nostre parole tornano sulla voglia di campagna. Di vita insieme solo un po’ più a nord. Ma non abbiamo pazienza. Tutto e subito, come al solito. Se deve essere che sia entro domani.
Un anno dopo
24 marzo 1978, viaggiamo sull’autostrada Roma-Firenze. Sbarramento di polizia. Cercano Aldo Moro che le Br hanno rapito da pochi giorni. Noi ci scambiamo occhiate clandestine. In fissa per qualche rametto d’erba. Più avanti c’è Erwin. Il nostro compagno svizzero sta leggendo «Lotta continua» coi piedi sul cruscotto. Accenna un sorrisetto sotto il barbone. Ci costringono con le mani sul tetto della macchina. Le gambe divaricate. Spalancano il portellone e trovano due scatoloni pieni di galline. Dicono che non è quello il modo di far viaggiare gli animali, senza neanche un buco per farli respirare. Non riconosciamo l’autorità, ma hanno ragione. Erwin ci sbeffeggia.
Giorno prima dell’occupazione. Il casale d’appoggio è stracolmo. Ci siamo tutti noi della Coop Aratro coi nostri bravi certificati di residenza a Gubbio, per evitare i fogli di via. E tanti compagni arrivati da tutta Italia. Nel camino, un paiolo colmo di minestrone cuoce incustodito. Tutti trovano più interessanti le gran canne e i bottiglioni di rosso nostrale. Tra baci, chiacchere e vecchi incontri, io insisto sull’importanza di fare quello che ci pare per tutta la notte, a patto di schiodare prima dell’alba. Il 25 marzo 1978 mi sveglio prestissimo. Inizio a scuotere chi mi capita sottomano. Sacchi a pelo sigillati. L’organizzazione non ci appartiene. Roba vecchia, ricorda i gruppi. Anche per questo siamo qui. Provo con l’odore del caffè di una moka formato colonia. Una chitarra riprende a suonare. Le prime risate. C’è luce da almeno tre ore. Faremo la solita figura degli avventuristi. Ma queste cose si fanno in tanti e devo darmi pace.
Uno stralunato corteo affolla la strada bianca. Note di terra di una banda autoconvocata, spingono scatoloni sfondati, zaini e bauli scassati. Biciclette diventate carriole, stracolme di coperte. Le pentole appese al manubrio. Poche capre al guinzaglio. Le pecore le pariamo alla bisogna, cercando di anticipare le loro continue deviazioni vegetali. Ecco Monturbino. Oggi l’occupiamo! Srotoliamo lo striscione. «Coop Aratro in lotta occupa la terra». C’è anche una legge che ci fiancheggia, quella che parla di terre incolte e/o malcoltivate. Intanto Amedeo gira con la superotto. Mentre seghiamo il lucchetto della porta.
E la festa ricomincia. Si presentano anche gli ospiti non desiderati. Li annunciano fischi e accenni di slogan. C’è chi afferra due pietre per terra. Per accogliere quei tre carabinieri costretti nelle scomode divise di lana in questo tiepido fine aprile. Non somigliano a quelli che ci hanno tenuto il fiato sul collo fino a ieri. Li hanno mandati per farci desistere; ma loro sono molto più interessati a quello che c’è sotto i maglioni delle nostre compagne. E scrivono un noioso verbale umidiccio. Capita pure un nostro spiazzante cenno d’offerta. Di cacio e vino. Ma i caramba devono proseguire il giro. Una lite tra confinanti, due agnelli scomparsi. Noi li dimentichiamo in fretta, distratti dalla conta per stabilire chi stasera si prende la stanza con la vista sulla valle.
Una vita da pastori
Il nostro casale è bello, affascinante, imponente, malridotto. Con i vecchi numeri di Lc accartocciati, tamponiamo le tante fessure nei muri. I vetri rotti li ricostruiamo con brandelli di sacchi da concime. E’ primavera inoltrata ma si dorme ancora vestiti nel sacco a pelo rinforzato con ruvide coperte militari. A turno, per i più frettolosi, o per chi cede alla notte senza possibilità di trasferimento, c’è una panca da chiesa stretta e rudimentale, proprio addosso al camino.
Abbiamo dieci capre molto voraci, direi onnivore, golose perfino della sella della mia moto. Le pecore sono una trentina. In origine erano di più. Prima della sepoltura, di quelle morte in viaggio. Nel bagagliaio della cinquecento giardinetta grigio topo del nostro presidente. C’era da prevederlo. I pastori sardi di Cantiano avevano parlato chiaro: “ Se volete pagarle trentamila lire l’una, vi beccate i capi di scarto.” Quelle ancora vive, seppure male in arnese, un po’ di latte ce lo danno lo stesso. Mattina e sera. All’inizio lo buttiamo quasi tutto, ogni volta che quelle disgraziate cagano nel secchio. Poi, con l’esperienza, impariamo a mungere all’isolana, tamponando il culo con la nostra testa. Mungere le capre, invece, è come fare un rodeo. La vecchia stalla diventa la plaza. Appena entri, loro, le bestie, iniziano una rocambolesca fuga sugli zoccoli del terrore che in genere si esaurisce su in cima alle mangiatoie. A quel punto, sudato, stremato e incazzato le afferri per le corna e inizi la danza del latte. Sempre ben attento ad evitare le piccole, nere, caramelle vegetali che sfornano a decine. Seguendo i paludati consigli della Peppa, impariamo presto a fare il formaggio con il caglio naturale.
Controlliamo la temperatura con il grosso termometro di legno. Con le mani cotte e bianchicce pressiamo questa cosa calda e gommosa nei cestelli di legno. La massa ottenuta deve riposare sulle assi di legno sospese in un cantuccio tranquillo e presidiato dagli attacchi di fame. Si, perché abbiamo stabilito che si può mangiare solo la ricotta. La regola dice che la caciotta spetta solo a Mario Bruno, il cucciolo di Sandro e Giovanna, grazie ai suoi 2 anni. Tutte le forme che l’infante non ingoia per crescere saranno messe in commercio. Dopo la ricotta rimane un siero spoetizzante che, insieme ai pochi rifiuti organici che siamo in grado di produrre, diventa pastone per i maiali, altri nemici votati della nostra maremmana. E’ lei che teneramente mi tiene compagnia ogni volta che mi allontano da casa per andare a cagare in mezzo al bosco. Io infatti non ho aderito all’uso della latrina che funziona con una rete fognaria di stampo medievale. Tutti quelli che la fanno li dentro, devono rendersi disponibili, quando necessario, allo svenevole svuotamento del secchio sottostante. No grazie.
Il pane lo facciamo una volta alla settimana con il vecchio forno strappato ai rovi che, prima del nostro arrivo, avevano nascosto l’aia. E’ veramente buono e dura tanto. A parte la prima volta, quando abbiamo dimenticato il lievito e, invece del coltello, per tagliare una fetta, servivano martello e scalpello.
A parte il pane, da mangiare non c’è mai abbastanza. Chi va a Gubbio a fare la spesa, in chiusura dei mercati generali per prendere più roba possibile a poche lire, si fa sempre accompagnare da Simone, il fratello adottivo di Giovanna, arrivato quassù da Manila. Dalla sorella e dal suo compagno, ha imparato subito a lavarsi poco. Gira stracciato per i vicoli del paese raccogliendo i “bianchetti”, cicche di sigaretta che colleziona per fabbricarne delle nuove da offrire. Così conciato non è raro che riceva frequenti doni da mettere sotto i denti: panini col prosciutto, crescia e torte al formaggio. Dopo le prime “merendine”, Simone è sazio e tende a rifiutare.
Noi, con il vuoto di stomaco che non ci lascia mai, lo convinciamo, col sorriso forzato, a denti stretti, ad accettare ogni bendiddio che, appena girato l’angolo. Gli sequestriamo con la bava alla bocca. Con la fame che gira, figurarsi come potevo odiare il vecchio tacchino che, sempre all’erta, non perdeva occasione per scipparmi qualsiasi cosa commestibile avessi tra le mani, ogni volta che attraversavo l’aia. Eppure non ho avuto il cuore di partecipare alla sanguinosa battuta di caccia che, un giorno più difficile degli altri, l’ha improvvisamente fatto secco. Bastio, Lando e Adriano sono stati capaci di giustiziarlo a bruciapelo. Poco dopo, biasimandoli, li ho seguiti con lo sguardo, mentre si rincorrevano, non proprio per gioco, su e giù per le colline con la preda già scottata nella padella con le olive. Queste cose non riesco a condividerle. Al massimo la fame mi spinge a buttarmi sul pane abbrustolito condito con l’olio “Topazio”, conservato in una damigiana di almeno venti litri dove aveva deciso di tuffarsi un affamato topolino di campagna.
A scuola di agricoltura
I ripidi, sassosi trecento ettari che avvolgono Monturbino non potranno darci altro che pascolo per il nostro piccolo gregge. Una conferma che avremmo preferito tutti evitare.
Mattina presto. Il sole è ancora basso. Ha appena scavallato la collina di fronte. Come sempre, andiamo avanti senza regole precise. Chi, come me, non sta ancora armeggiando con la caffettiera o con altre pratiche agro-pastorali, casca giù dal letto per un gran tonfo secco e un acuto fuori giri da centinaia di cavalli. Dalla finestra della cucina, si vede giù verso il torrente, il vecchio Landini arancione che ci ha prestato Amedeo coricato di lato, con il muso impuntato tra le zolle. Le grandi ruote posteriori del trattore ancora girano. Corriamo tutti giù a perdifiato. Bastio è steso qualche metro più a valle. La testa è rotta. Lui ha perso i sensi. Era entrato in fissa che quel campo si poteva scassare col trattore per poi seminare l’erba medica. Avrà modo, speriamo, di raccontarlo ai dottori dell’ospedale di Perugia. Una sirena traballante ha appena lasciato l’ Eugubina per saltare tra le buche infinite della strada bianca che porta da noi. Una volta ricostruito con svariati centimetri di titanio che gli tengono insieme insieme una capoccia ancora più sballata di prima, Bastio sarà tra i primi a insistere per partecipare al corso di agricoltura biodinamica organizzato da un sindaco un po’ monaco dalle parti di Urbino.
Il nostro futuro orto se la caverà con le zappe. Niente più mezzi meccanici per far crescere le verdure la dove da decenni si è accumulato lo stabbio del nostro podere.
Arriviamo a Isola del piano alla spicciolata e con mezzi approssimativi. La mia moto, la corriera per Bastio ancora malridotto. Il resto della banda ci raggiunge con l’autostop.
Gino Girolomoni, il sindaco e l’inventore dell’iniziativa ci accoglie entusiasta e ci spiega che il corso è a pagamento. Non se ne parla nemmeno. Patti chiari. Noi ormai siamo qua. Veniamo da cento chilometri più a sud dove abbiamo occupato. Vogliamo sapere tutto su questa strana pratica agricola steineriana e ci serve anche un posto dove stazionare nei prossimi giorni. Dopo qualche trattativa e un po’ di iniziale nervosismo municipale il primo cittadino cede e ci sistema in un casale ai margini del paese. Il tam-tam fa il suo giro e le stanze si riempiono come tasche facoltose. Al mattino ascoltiamo questi singolari esseri, un po’ stregoni, provenienti dalle più diverse realtà agricole della Penisola. Parlano di “compost”, di pacciamatura, di miscele con l’acqua l’equiseto e l’ortica. Roba che devi mescolare credendoci, con l’anima appoggiata alle radici del verde broccolo nascituro. Il metodo è piuttosto esoterico ma pure divertente. E magari funziona pure. Anche se i più indolenti tra noi vanno in fissa per un certo Fukuoca, pigro contadino giapponese, che spinge ”La rivoluzione del filo di paglia”. Tipo che spargi i semi nella terra incolta e poi aspetti senza faticare. Mica male per gente come noi che il lavoro lo rifiuta.
Per il resto ce la viviamo bene insieme. Noi e tutti quelli che ogni giorno ci raggiungono col passaparola. La notte si dorme poco.

E un passatempo ripetitivo che ci diverte parecchio è riempire il maggiolino di un generoso agronomo piemontese fino a stenderlo al suolo con la carrozzeria che fa le scintille ad ogni curva. Si parte in genere quasi all’alba, così come ci si trova. Parlo dello stato psichico; ma anche l’abbigliamento: se sei in pigiama, mica ti cambi. Anzi ti diverti ancora di più a prendere l’aria con il busto fuori dal tettino a manovella. Per un qualche miracolo non incontriamo mai la pula. La meta-tormentone è sempre il porto di Fano dove un salernitano con la testa nel pallone, che si fa chiamare ”lottacontinua” ogni volta si arrampica su un traliccio da carico merci e inscena deserti, rosati, stralunati comizi, mentre noi, pur volendogli tanto bene, preferiamo guardare il mare e le sue onde che, moltiplicandosi verso Est, diventano gradualmente sempre più rosse.

Addio all’imprenditore di se stesso 
77 Contro il presente. Il movimento del 1977, 40 anni dopo. Dal 1977 a oggi libertà, autonomia, cooperazione sono state rovesciate nella parodia dell'organizzazione d'impresa. Il movimento del Settantasette è stato il primo tentativo di dare una nuova forma politica a queste aspirazioni 

Marco Bascetta Manifesto 5.4.2017, 10:27 
Dalle sue origini moderne fino alla metà degli anni ’70 del Novecento il proletariato non ebbe età. È solo in quel momento che irrompe sulla scena un soggetto, per nulla compreso ma grandemente temuto dalle organizzazioni storiche del movimento operaio: il «proletariato giovanile», con i suoi circoli, i suoi festival, le sue specifiche forme di conflitto e di autorappresentazione.
UN’ESPRESSIONE CHE NEI DECENNI PRECEDENTI sarebbe stata priva di ogni senso. Ma quella che sembrava proporsi come una questione generazionale non lo era affatto. Semplicemente furono i giovani a percepire più direttamente e più immediatamente una trasformazione che avrebbe messo rapidamente fuori uso categorie e paradigmi del passato e ad animare un movimento che tentava di prendere commiato da quei modelli, senza precipitare in nuove forme di sfruttamento. Ma quella trasformazione, la fine travagliata del fordismo, riguardava tutti, come gli anni a venire avrebbero messo in chiaro. Al proletariato della tradizione, insomma, bisognava dire addio, come recitava il titolo di un celebre libro di André Gorz. E, soprattutto, dire addio alla sua storica rappresentanza: la sinistra. Quest’ultima si sarebbe dedicata da quel momento in poi a una ininterrotta attività di esorcismo. Con il massimo zelo, le sinistre politiche e sindacali si sforzarono di mantenere in vigore ciò che era sempre meno vero. 
QUEL «PROLETARIATO GIOVANILE» era una «seconda società» che doveva essere reintegrata nella prima. La disoccupazione non rappresentava che un fenomeno congiunturale che sarebbe stato, presto o tardi, superato. Il lavoro salariato, lo stato sociale tagliato a sua misura e i suoi canali di rappresentanza politica restavano il solo schema di inclusione contemplato. Gli esorcismi fallirono uno dopo l’altro fino ad oggi quando, ormai sommersi dal successo della controrivoluzione neoliberista, continuano ad essere riproposti come modello di resistenza. Sembra incredibile, ma a 40 anni di distanza da quella crisi e dall’emergere di una soggettività anticipatrice, si sente ancora parlare di «lavoro di cittadinanza» e di piena occupazione come strada maestra dell’integrazione sociale. Fino all’indecente apologia del lavoro gratuito come strumento per strappare una briciola di occupazione a chi ancora la conserva.
FUORI DAL LAVORO SALARIATO ETERODIRETTO, il 1977 fu un anno di straordinaria produttività e innovazione. Nella comunicazione, nella produzione culturale, nelle forme della socialità, nella riconfigurazione degli spazi urbani. È quasi superfluo ricordarlo. Semplicemente quella capacità produttiva, quel fare intenso e generalizzato restìo a ogni idea di competitività, non fu riconosciuto né in termini di reddito né in termini di valore. E la sua pretesa, anche aspramente conflittuale, di affermarsi nella pienezza della sua autonomia, repressa. In condizioni completamente diverse le innumerevoli attività cognitive, relazionali, organizzative che fanno la ricchezza delle società contemporanee non sono in alcun modo riconosciute. Solo il comando di un padrone, di un programma di stato o di una committenza, oggi come ieri, possono sottrarre chi vi dedica il suo tempo, le sue inclinazioni e qualità, al girone statistico degli sfaccendati e degli schizzinosi.
NON ASSISTIAMO, TUTTAVIA, come 40 anni fa, a quello scontro violento per l’autonomia che segnò gli anni Settanta. Il mercato e i suoi custodi hanno avuto il tempo di integrare e corrompere l’agire di concerto di un proletariato cognitivo, flessibile, inventivo che è tornato a non avere età. L’autonomia è stata rovesciata in una competitività senza esclusione di colpi, la libertà individuale e collettiva nella parodia dell’organizzazione aziendale, la cooperazione sociale catturata da chi mantiene saldamente nelle sue mani i cordoni della borsa e le fonti del diritto.
UNA NARRAZIONE CAPZIOSA sostiene che tra il 1968 e il 1977 lo spirito egualitario, che pure aveva animato quei movimenti, finì con l’essere sacrificato a quello libertario che preparava la strada all’ «imprenditore di se stesso» nel quale le nuove soggettività avrebbero trovato la loro più propria realizzazione. In verità queste due aspirazioni non potevano essere distinte e, semplicemente, il movimento fu sconfitto. Ma aveva comunque individuato il nuovo terreno dello scontro e mosso su di esso i suoi primi passi.
INTANTO LA SINISTRA si scindeva tra i convertiti, sempre più numerosi e fanatici, al libero mercato e alla competitività e i cantori di una centralità sempre più improbabile del lavoro e della sua rappresentanza politica. La trascendenza del capitale finanziario e dei mercati si sostituiva a quella della programmazione economica, del partito e dell’«interesse generale», che avrebbe continuato, tuttavia, a sopravvivere in forme ostentate e resistenziali. Il movimento del Settantasette fu il tentativo di ricondurre nell’immanenza delle vite reali e delle innumerevoli aspirazioni che le attraversano la trasformazione della società. E questa rimane comunque l’unica strada possibile.

Paolo Virno: 1977, l’esordio del tempo nuovo 
77 Contro il presente. Il movimento del 1977, 40 anni dopo. Intervista a Paolo Virno: «Quarant'anni fa è oggi. In Italia e non solo emerse una forza lavoro capace di diventare molla della produzione e motore delle istituzioni». «Le opere dell’amicizia meritano di essere difese. Producono forme di vita e costruiscono embrioni istituzionali» 
Ilaria Bussoni, Roberto Ciccarelli Manifestp 6.4.2017, 10:30 
«Il 1977 è una data convenzionale, i soggetti sociali e le forme di lotta che ancora si ricordano sono emerse prima – racconta Paolo Virno, tra i più importanti filosofi in Italia e protagonista di una delle riviste più seguite nel movimento: «Metropoli» – A Milano con i circoli del proletariato giovanile, le manifestazioni per le uccisioni di Zibecchi e Varalli, le mobilitazioni contro il lavoro nero. Allora non irruppero sulla scena pubblica solo i soggetti non operai. Fanno parte del ‘77 anche i 10 mila nuovi assunti alla Fiat , tra i quali c’erano per la prima volta moltissime donne e persone scolarizzate. Nel giugno ‘79 bloccarono Mirafiori con lo stesso vigore con cui fu occupata nel ’69 o nel ’73. Era in corso un’accelerazione generale che si affermava in maniera estrema, coinvolgendo tutto lo spettro della forza lavoro. In quell’anno tutto questo esplose: la clamorosa anticipazione soggettiva, di segno sovversivo, di un nuovo ordine che in seguito ha preso i connotati plumbei dell’ordine produttivo del capitalismo neoliberale».
Che cosa ha anticipato il movimento? 
Il ’77 è stato un esordio. Fanno la loro comparsa le nuove figure della forza lavoro basate sulla produzione cognitiva, sulla cooperazione linguistica, una riorganizzazione della giornata lavorativa che allora ebbe una coloritura sovversiva. Non è la prima volta che un movimento anticipa il futuro: negli anni Dieci del Novecento negli Stati Uniti lo hanno fatto le grandi lotte degli operai dequalificati che precedettero il fordismo. E, ancora prima, nel Seicento inglese, quando i vagabondi furono cacciati dalle terre, non erano ancora inseriti nella manifattura e mostravano un alto grado di pericolosità sociale. Allo stesso modo, anche il ’77 è double face: da un lato, è una materia prima di comportamenti, affetti e desideri che hanno assunto una silhouette ribelle e sono diventati forza produttiva, uno stato di cose presente. Dall’altro lato, è il binario sul quale scorre il potere e il conflitto oggi. 

Quali sono le caratteristiche della forza lavoro che si sono affermate allora e che sono ancora attuali? 

Il ’77 ha anticipato, con conflitti durissimi, quello che veramente conta oggi. Marx lo ha definito un intelletto generale che non è più depositato nel capitale fisso, ma nei soggetti viventi. Conoscenza, affetti e intelletto esistono come interazioni e cooperazione linguistica del lavoro vivo. Questo rivolgimento segna un superamento della cecità dello stesso Marx, secondo il quale il tempo di lavoro è un residuo e quello che conta è la conoscenza e l’intelletto inferrati nel sistema delle macchine. La riproduzione della vita, e le stesse qualità produttive della forza lavoro, non sono solo quelle che si sviluppano nella sfera del lavoro. Per produrre plusvalore le aziende hanno bisogno di persone che sono maturate in un ambito più vasto dell’officina o di un ufficio, proprio per essere più produttivi in officina o in un ufficio. 

Quali sono le facoltà del soggetto che sono messe al lavoro in questo processo? 

Mi sono soffermato su tre elementi di fondo della natura umana: i caratteri persistentemente infantili durante la vita, la neotenia; la mancanza di una nicchia ambientale specifica per la specie umana, nella quale ambientarsi con innata sicurezza, e un alto grado di potenzialità testimoniato dalla facoltà di linguaggio, cosa ben diversa dalle lingue, che è qualcosa di plastico e indeterminato. Il ’77 è stato il primo movimento mondano, neotenico e potenziale che si è fatto forte di queste facoltà e non ha avuto il problema di tenerle a freno. Fino a quell’anno le istituzioni si erano difese da questi dati della natura umana. Dopo, e fino ai giorni nostri, li hanno acquisiti trasformandoli nella molla della produzione sociale e il motore delle forme di istituzione. Oggi la neotenia è stata rovesciata in flessibilità e formazione ininterrotta. La mancanza di una nicchia specifica ambientale è diventata mobilità e polivalenza. 
In che modo la controrivoluzione neoliberista ha modificato queste caratteristiche? 
Questi dati oggi dilagano con un segno rovesciato. Credo tuttavia che il fiorire di gerarchie minuziose, di paletti, di strettoie sia il modo in cui si esprime la fine della divisione del lavoro nel dominio capitalistico. Oggi la divisione tecnica del lavoro è largamente disfunzionale ed è diventato un modo per colonizzare il carattere pubblico delle tensioni etiche, emozionali e affettive della forza lavoro. La loro mutevolezza e imprevedibilità sono state trasformate in veri e propri mansionari. E tuttavia è difficile non considerare queste tensioni nel valore d’uso della forza lavoro, oltre che in relazione con il mondo più vasto. La condizione di base è potere e dovere condividere risorse fondamentali come l’intelletto e il linguaggio. La segmentazione del tratto cosiddetto transindividuale della forza lavoro risulta molto più accentuato di quanto avrebbe richiesto a suo tempo la divisione del lavoro. Il massimo delle potenzialità si rovescia continuamente in vicoli ciechi, ma è un rovesciamento disciplinare reso necessario proprio da questa confidenza con il potenziale che altrimenti farebbe saltare l’ordine produttivo. Ecco allora che alcune delle forme di lotta che sono possibili oggi le possiamo leggere come un documento storico in quello che è successo quarant’anni fa. La centralità di questi elementi smentisce l’idea che allora noi fossimo i rappresentanti di una «seconda società» degli esclusi. Al contrario quella che si muoveva era una «prima società», nel momento della sua inaugurazione. Ed è quella che siamo noi oggi. 
Per quale ragione da allora fino ad oggi non è stato individuato un agire sociale generale capace di rovesciare il nuovo ordine produttivo, affettivo e politico? 
È la questione saliente che si è data già dagli anni Novanta quando si credeva che l’inverno del nostro scontento fosse alle spalle e avremmo cominciato a vedere il lato civile perché ribelle della nuova realtà produttiva. Non è stato così, è arrivato Berlusconi. Siamo impantanati dal 2007 nella crisi globale e assistiamo a un’ulteriore chiusura. 
Cosa manca oggi per definire concretamente un’alternativa? 
Il minimo sindacale: il conflitto sulle condizioni materiali, come l’orario, il salario o il reddito. Questo terreno è il punto di partenza ed è diventato estremamente complicato. È difficile concepire un conflitto delle lavoratrici dei call center che non vada di pari passo con la costruzione di un embrione di nuove istituzioni. Per evitare un licenziamento o ottenere un aumento di 30 euro al mese oggi devi fare la Comune di Parigi. Quello che sembra il primo passo di un conflitto porta sempre con sé un’invenzione sperimentale di istituzioni post-statali. 
Perché il ’77 ha rifiutato le forme della rappresentanza politica conosciute fino a quel momento? 
La crisi della rappresentanza è irreversibile. In Europa, e non solo, stanno sorgendo forme genuine di fascismo: è una terra di nessuno che può essere abitata da tutti con pulsioni fra loro avverse. Il ’77 è stata una delle sue forme e il movimento l’ha letta in tempo reale, quando Lama e il suo servizio d’ordine furono cacciati dalla Sapienza. È un dato di fondo che si lega a processi di lungo termine che hanno messo fine al monopolio della decisione politica da parte dello Stato. Tuttavia è un’illusione ottica pensare che la crisi della rappresentanza sia un predicato solo di una parte, una virtù dei movimenti anti-capitalistici. Il populismo è un altro segno della sua caduta irreversibile. In realtà risponde a un fenomeno di fondo e oggi è diventato il liquido amniotico dove crescono i populismi e i fascismi europei. Sono i fratelli gemelli agghiaccianti delle istanze liberatorie, la versione orribile di cose che ci appartengono. 
In che modo si è espresso quel rifiuto? 
Nella disobbedienza, ad esempio. Questo tema ha preso allora una forma quasi costituzionale. Mise in dubbio quella che Hobbes ha definito una forma di accettazione del comando prima ancora che delle leggi. Non può esistere una legge che impone di non ribellarti. Nel ’77 la disobbedienza ha messo in discussione l’obbedienza, ciò viene prima di ogni concreto dispositivo legislativo. Quell’anno è stato estremamente violento ma, tolti i feticci della violenza che sono stati costruiti, il movimento ha espresso un diritto di resistenza rispetto alla nuova configurazione delle istituzioni post-statali. La violenza non è contrapposta a quella statale e militare. Si dà un diritto di resistenza per difendere qualcosa che hai costruito. La foto di Paolo e Daddo scattata da Tano D’Amico il 2 febbraio significa questo. 
Che cosa avevate costruito per difenderlo così strenuamente? 
Lo ius resistentiae difende qualcosa che hai già costruito: le opere dell’amicizia, un’amicizia pubblica che produce forme di vita, fatta di cooperazione e delle forme dell’intelletto generale e del lavoro vivo. Nel ’77 la categoria dell’amicizia cessa di essere una categoria parassitaria. La coppia amico-nemico viene scardinata e l’amicizia è intesa come cooperazione eccedente. È capace di costruire embrioni istituzionali, forme di vita che meritano di essere difese a ogni costo. Lo ius resistentiae non è una forma di violenza più moderata rispetto a quella delle ragazze che dal Smol’nyj, il collegio delle giovani aristocratiche di Pietroburgo, mossero contro il palazzo d’Inverno. 
Come fare il primo passo? 
Coltivando la propria incompletezza, rendendola ricettiva e virtuosa. Bisogna disporsi attivamente ad attendere l’imprevisto. E questo dipende dalla capacità del lavoro precario e intermittente di farsi valere in modo spietato. Davanti a un atteso imprevisto, la filosofia politica deve fermarsi e attendere. Per me il limite, e il culmine, della riflessione teorica è l’equivalente nel tempo presente degli Industrial Workers of World (IWW) americani. Se devo pensare a qualcosa che assomiglia al post ’77, e al ’77 messo al lavoro, penso a loro. 
Hai un ricordo particolare di una giornata di quell’anno? 
La manifestazione più vicina a un carattere insurrezionale è stata quella di Roma del 12 marzo, un corteo senza slogan né bandiere dopo l’uccisione di Francesco Lorusso a Bologna il giorno prima. Ricordo che stavo davanti al ministero della Giustizia in via Arenula, mi giro e ho visto un uomo anziano che camminava con passo affaticato: Umberto Terracini, fondatore del Pci, antifascista e presidente dell’assemblea costituente. Fu lui che al primo congresso dell’Internazionale comunista a Mosca intervenne in francese e incassò una replica da Lenin perché, secondo lui, era troppo estremista: «Plus de souplesse, camarade Terracini» gli disse. Per lui era naturale fare il percorso di quella manifestazione. Fu un momento molto toccante.

Nessun commento: