lunedì 8 maggio 2017

Grande Regressione dall'universalismo liberale astratto o sconfitta dei ceti subalterni e fine oligarchica della democrazia moderna?

Il balzo indietro del Politico in cerca della sovranità perduta
Saggi. «La grande regressione», quindici intellettuali liberal e radical sulla crisi in un volume Feltrinelli
Benedetto Vecchi Manifesto 19.5.2017, 20:50
Naufragata l’idea di un mondo armonico unificato dal libero mercato, la globalizzazione si sta manifestando come una «grande regressione» verso un pianeta scandito da migrazioni, guerre locali, povertà sempre più diffusa, regimi postdemocratici e conflitti per ripristinare vecchie egemonie o per affermarne di nuove. È questo l’affresco di un libro collettivo che Feltrinelli ha mandato in libreria in questi giorni.
COMPOSTO da quindici interventi di intellettuali ritenuti rilevanti nel dare forma allo «spirito del tempo» nelle rispettive società o regioni del mondo, il volume non esprime tuttavia nessuna nostalgia per il passato. La grande regressione (pp. 235, euro 19) si muove su un piano completamento diverso, cioè quello di rappresentare l’interregno nel quale viviamo. Nell’ottantesimo anniversario dalla morte di Antonio Gramsci, la situazione attuale corrisponde a quanto il teorico marxista scriveva negli anni della prigionia: un mondo dove il nuovo non si è completamente manifestato, ma in cui il vecchio continua a offrire sussulti di vitalità inaspettata.
I contributi raccolti vedono insieme Arjun Appadurai, Zygmunt Bauman, Donatella Della Porta, Nancy Fraser, Eva Illouz, Ivan Krastev, Bruno latour, Paul Mason, Pankaj Mishra, Robert Misik, Oliver Nachtwey, César Rendueles, Wolfgang Streeck, David Reybrouck e Slavoj Zizek, cioè filosofi, economisti, sociologi, storici che nel tempo hanno espresso punti di vista sul capitalismo non sempre coincidenti.
ETEROGENEI sono anche i temi trattati: il populismo, le migrazioni, la crisi della democrazia, le disuguaglianze sociali, il ritorno della guerra, anche quella asimmetrica combattuta contro lo Stato islamico dell’Isis, come mezzo per regolare le relazioni internazionali. (Stranamente i cambiamenti climatici sono evocati in tutti gli interventi, ma rimangono sempre sullo sfondo, quasi fossero un «fattore naturale», come la pioggia o il vento).
Il filo rosso che inanella e che dà senso al volume è essenzialmente costruito ex post attraverso il richiamo, nell’introduzione, a Karl Polany, l’economista che negli anni Trenta del Novecento cominciò a lavorare a La grande trasformazione, il saggio sulla nascita del capitalismo e sull’egemonia del mercato sulla politica, utilizzato spesso come una metafora della globalizzazione. E se Polany analizzava criticamente il capitalismo come dominio dell’economico sulla società, la «grande regressione» alla quale si fa riferimento nel libro è la «sussunzione» del Politico nell’economico. Il lutto da elaborare è quindi la cancellazione del welfare state e la capacità della sinistra politica – fatta coincidere con il «Politico» – di garantire lo sviluppo capitalistico attraverso i diritti sociali di cittadinanza tesi a garantire stabilità e pace sociale.
La «grande regressione» riguarda proprio il Politico, chiamato a svolgere una funzione oscillante tra l’esercizio violento del dominio dell’economico sulla società o, invece, a inventare forme istituzionali tese a ridurre il governo della società a semplice amministrazione dell’esistente. Arjun Appadurai, antropologo e sociologo indiano, legge tutto ciò attraverso l’emergere di un populismo caratterizzato da un rapporto «inedito» tra il leader e il popolo.
I LEADER POPULISTI, scrive Appadurai, sono consapevoli che la sovranità nazionale non sarà mai recuperata perché la globalizzazione è un fenomeno irreversibile. Ciò che i populisti possono fare è conquistare il consenso del popolo attraverso il loro carisma o la loro capacità di parlare il medesimo lessico, senza poter mai riuscire a tradurre operativamente le loro promesse elettorali. Una differenza radicale dal populismo novecentesco – quasi sempre esperienza latinoamericana – dove la (falsa) promessa era di cacciare l’élite per restituire il potere al popolo. Il populismo contemporaneo, sia nella versione di destra che di sinistra, si propone solo di incanalare elettoralmente, per conquistare briciole di potere personale o di gruppo, il risentimento popolare, come argomenta lo studioso e scrittore indiano Pankaj Mishra. Da questo punto di vista, i leader populisti esprimono solo la nostalgia per la sovranità nazionale perduta e, per quelli di sinistra, per il «Partito», espressione della sinistra novecentesca. Temi affrontati anche da Nancy Fraser, Zygmunt Bauman e Slavoj Zizek.
VOCE DISSONANTE è il giornalista e economista inglese Paul Mason, che prende le mosse dal legame tra populismo e razzismo per delineare tuttavia una alternativa allo stato di cose. Mason scrive di prospettiva postcomunista, di individuo interconnesso attraverso la rete a «simili» dislocati fuori dai confini nazionale, di crescita della produttività grazie alle macchine informatiche, di possibile riappropriazione dei mezzi di produzione e di sviluppo di iniziative economiche e sociali «postcapitaliste». È questa la possibile diga alla «grande regressione». Anche se sembra quel bambino che ostinatamente vuol svuotare il mare con il secchiello. Ammirabile nella tenacia, ma inguaribilmente ingenuo.

2 commenti:

Kristina Juhas ha detto...
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.
Theresa williams ha detto...
Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.