sabato 24 giugno 2017

La guerra del Pacifico e il Secolo Americano: Douglas Ford

Copertina La guerra del PacificoDouglas Ford: La guerra del Pacifico, il Mulino

Risvolto
Il 7 dicembre 1941 i giapponesi attaccarono a tradimento la base navale americana di Pearl Harbor, nelle Hawaii. Quell’atto, spingendo gli Stati Uniti a entrare in guerra contro Giappone, Germania e Italia, costituì uno dei maggiori punti di svolta della seconda guerra mondiale. La guerra del Pacifico, in cui si affrontarono Giappone e Usa, è qui approfonditamente raccontata e analizzata nelle sue peculiarità: la predominanza degli scontri navali (fra tutti, la grande battaglia delle Midway) nel teatro vastissimo dell’oceano, la difficoltà dei combattimenti nelle isole e nel Sudest asiatico, nella giungla o in impervie zone montagnose, l’estrema brutalità, l’indisponibilità alla resa e l’annientamento dell’avversario come unico esito possibile del conflitto.
Douglas Ford insegna Storia militare nell’Università di Salford (Gran Bretagna). Tra i suoi libri: «Britain’s Secret War against Japan» (2006) e «The Elusive Enemy. U.S. Naval Intelligence and the Imperial Japanese Fleet» (2011).

Il futuro che viene dal lontano Oriente 
Mappe asiatiche. «La guerra del Pacifico», di Douglas Ford, docente di storia militare. Dalla nascita dello stato giapponese moderno, alla crisi tra il 1929 e il 1933, uno sguardo inedito. I prodromi dell’attacco di Tokyo nel dicembre 1941, un evento che modificò per sempre la storia globale 
Simone Pieranni Manifesto 22.6.2017, 19:25 
Quali sono le cause che – ormai 60 anni fa – hanno scatenato la guerra del Pacifico? Cosa rimane da dire su un evento che ha reso indelebili nel nostro immaginario alcune istantanee, come l’attacco violento e improvviso dei giapponesi a Pearl Harbor, le battaglie navali in luoghi sconosciuti – come quella nelle Midway nel 1942 – ma improvvisamente diventati celebri perché «turning point» del conflitto o le bombe atomiche sganciate sul Giappone dagli Stati uniti? 
In quasi tutta la letteratura pubblicata sulla guerra del Pacifico prevale la tendenza a focalizzarsi esclusivamente sul ruolo svolto dagli Usa: come invece il Giappone sia arrivato a quell’attacco e come mai, poi, abbia subito una devastazione atomica, e quali siano state le premesse e le conseguenze «asiatiche» di quel conflitto, sono elementi quasi sempre tenuti in secondo piano. 
L’APPROCCIO di Douglas Ford, professore di storia militare all’università di Salford, in Gran Bretagna, ne La guerra del Pacifico (Il Mulino, pp. 378, euro 28) è invece incentrato proprio sull’Asia. Dalla nascita dello stato giapponese moderno, alla crisi degli anni tra il 1929 e il 1933, alla necessità per l’élite nipponica di prevedere un piano di espansione, passando attraverso le sanzioni delle potenze occidentali nate dal sospetto nei confronti della baldanzosità di Tokyo, fino ad arrivare alle conseguenze per gli stati asiatici della sconfitta giapponese: Ford analizza i prodromi che spinsero Tokyo, non senza scontri interni, ad arrivare a quell’attacco a Pearl Harbor nel dicembre 1941, modificando per sempre la storia del mondo e dell’area asiatica. 
La mancanza di una prospettiva puntata sul Giappone negli anni precedenti al 1941 non ha permesso, in molti casi, di fornire validi strumenti per comprendere anche l’attuale diffidenza di parte del mondo asiatico nei confronti di Tokyo, poco disposto a fare i conti con il proprio passato e al momento sottoposto a una fase di revisionismo, guidato dal primo ministro Shinzo Abe, che prevede oltre a una modifica della costituzione anche un ritorno delle forze militari vietate dopo il secondo conflitto bellico. 
ECCO ALLORA che analizzando la storia politica del Sol Levante negli anni che hanno preceduto l’improvviso attacco a Pearl Harbor si potrà notare come il vero rivale di Tokyo non fosse affatto Washington, bensì Pechino e come il Giappone si sia mosso in un’ottica di espansione in diverse parti dell’Asia, creando i presupposti non solo per un conflitto su vasta scala e come tale insostenibile per le forze armate giapponesi, ma anche per future problematiche nei rapporti tra stati nella regione asiatica.
Si potrà notare inoltre come il Giappone di quegli anni sia stato vittima di incomprensioni e opinione diverse tra stato maggiore dell’esercito e marina e di come tanto il Giappone quanto gli occidentali siano finiti nel mezzo di una guerra partendo da basi completamente sbagliate. 
Nel marzo del 1932 Tokyo annuncia «la creazione dello stato fantoccio del Manchukuo in Cina»; l’anno successivo «per affermare pubblicamente l’indisponibilità a cooperare con le potenze occidentali, il Giappone si ritira dalla Società delle Nazioni». 
Nel 1937 Tokyo dichiara guerra alla Cina: è questa una prima svolta, perché contrariamente a quanto si aspettavano i comandi militari giapponesi, il conflitto si protrarrà per otto anni e le forze armate di Tokyo incontreranno una strenua resistenza. 
QUESTO PORTERÀ a due conseguenze fondamentali: nonostante le difficoltà «i successi ottenuti in Cina avevano dato alle forze imperiali un’ingiustificata fiducia alle proprie capacità belliche», mentre nei circoli militari inglesi e americani prevaleva l’opinione che «se il Giappone non era riuscito a ottenere la vittoria facile sulla Cina, allora era un nemico di seconda classe». 

Un altro problema per i giapponesi fu il venir meno a una precauzione sottolineata anche da Clausewitz: i generali non devono pensare a come «vorrebbero» che fosse il corso di un conflitto, ma a quello che realisticamente sarà. 

ED ECCO IL SECONDO errore di Tokyo: per allargare la propria sfera di influenza il Giappone aveva cominciato un’occupazione dell’Indocina meridionale. Così, nell’estate del 1941 – «con gran sorpresa della leadership nipponica» – gli Stati uniti bloccarono le attività giapponesi oltreoceano «privando il paese dei fondi occorrenti per l’acquisto di materie prime all’estero», imponendo anche un embargo petrolifero cui parteciparono anche Gran Bretagna e Indie olandesi. Di fronte a queste imposizioni l’élite al potere a Tokyo prese la decisione: occupare il Sud est asiatico era la sola via praticabile «per ottenere le materie prime negate loro dall’embargo». 
A quel punto nella dirigenza giapponese divenne chiaro che il confronto non si sarebbe limitato all’Asia, ma avrebbe coinvolto i paesi occidentali. Si trattava solo di capire quanto provare o meno un’attività diplomatica: «l’unica soluzione praticabile era annettere la Malesia britannica e le Indie Olandesi per procurarsi fonti alternative, anche se questo avrebbe significato entrare in conflitto con gli Usa»; il compromesso – ritirarsi dall’Indocina e negoziare un compromesso con la Cina- veniva visto da Tokyo come umiliante. 
IL PUNTO DI PARTENZA del Giappone, basato sull’ideale panasiatico che costituiva il fulcro ideologico della nascita del moderno Giappone, prevedeva che Tokyo definisse una propria «sfera di sovranità» che doveva comprendere: «le isole del Giappone più le aree nelle immediate vicinanze, cioè la Corea, Formosa (Taiwan n.d.r.) e la Cina continentale»: questo significava estromettere le potenze straniere dalla regione. Un ampliamento di questo piano divenne necessario nel 1941 a seguito delle sanzioni occidentali. Il piano venne così definito: il principale obiettivo divennero Malesia e Indie occidentali per le risorse; era poi necessario difendere i territori, quindi «completare il blocco della Cina e prevenire un’invasione britannica dall’India, occupando la Birmania». 
Sul fronte del Pacifico era necessario bloccare gli americani: la conquista delle Filippine «offriva una parziale soluzione», ma i giapponesi «dovevano impedire alla flotta Usa di ostacolarli nella conquista delle regioni meridionali del continente»: fu in questo contesto che l’ammiraglio Nagano accettò la proposta del comandante in capo della flotta combinata nipponica, Yamamoto Isoroku: attaccare gli americani a Pearl Harbor, fiduciosi del fatto, basato sulle recenti esperienze con la Russia (nel 1905) e con la Cina, che «sferrare il colpo decisivo all’inizio» fosse fondamentale per arrivare alla vittoria. Come ben sappiamo le cose andarono in maniera diversa. 
Resta il fatto che la sconfitta del Giappone costituì «uno spartiacque, dando origine a un ordine asiatico che dura ancora oggi»: fra i mutamenti più importanti portati dalla corsa egemonica giapponese e dalla sua sconfitta, va sicuramente registrato «lo smantellamento degli imperi coloniali europei e la nascita di stati nazionali, molti dei quali sarebbero diventati importanti potenze regionali». 
L’ESPANSIONE giapponese e la sua presunta «sfera di prosperità» indicarono una strada ai tanti partiti nazionalisti asiatici che poterono accorgersi della debolezza dei dispiegamenti militari occidentali nella regione. Inoltre i giapponesi avevano finito per diffondere un rancore anti-occidentale che aveva fatto presa anche nei paesi «conquistati» da Tokyo: in questo modo i sentimenti anti occidentali e anti giapponesi fornirono una forza ideologica non da poco ai movimenti popolari indipendentisti. Non è dunque un caso se l’onda lunga della guerra del Pacifico arrivò dieci anni dopo la fine del conflitto, quando quasi tutte le ex colonie, comprese Malesia, Indocina e Indie orientali, ottennero l’indipendenza.

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