mercoledì 21 giugno 2017

Spezzaferro rivendica privatizzazioni e guerra contro la Jugoslavia. Dove c'è puzza di Vendola e Fratoianni, lì è già destra



D’Alema: «A sinistra è vietata la rottura, per tutti noi è l’ultima chiamata» 

Il colloquio. L'ex premier: un fischio non mi spaventa, ma insieme a tanto impegno al Brancaccio c’era dell’estremismo. La sfida di governo è doverosa. I civici facciano una svolta, servono tutte le forze. Con Pisapia ingenerosi, ho detto a Vendola: non è una creatura del renzismo 

Daniela Preziosi MAnifesto ROMA 20.6.2017, 8:59 
Per dirla come la direbbe un comunista italiano, non si può dire che Massimo D’Alema sia stato convinto dalla riunione dei ’civici’ di domenica scorsa al Brancaccio. 
«Da vecchio militante ho una certa esperienza di assemblee, in questa c’era un po’ di estremismo. A partire dall’introduzione di Tomaso Montanari», spiega a chi gli chiede un giudizio. 
C’è dell’ironia. Ma la questione è seria. 
D’Alema era in prima fila, a un passo dal palco, quando il combattivo giovane studioso ha elencato le colpe del vecchio centrosinistra. E, nel lungo elenco, ha scandito «la guerra illegale in Kosovo». D’Alema, che era il presidente del consiglio in quel marzo ’99, non ha mosso ciglio. 
Ma ora replica: «Vorrei spiegare a Montanari che di questo fui accusato da un gruppo di giuristi. Poi la Cassazione emise una sentenza che archiviò tutto riconoscendo la piena legittimità del mio agire». Perché, spiega, l’art.11 della Costituzione dice che «l’Italia ripudia la guerra» eccetera, «ma poi anche che consente alle limitazioni di sovranità necessarie agli obblighi derivanti dai trattati internazionali». La conclusione è tagliente: «L’accusa è decaduta, se lui la rilancia è una calunnia». 
Non che intenda passare alle carte bollate, l’ex presidente del consiglio. Ma «il mondo è complesso, prima di parlare meglio informarsi, non ci si aspetta da un illustre storico dell’arte una sortita inutile e dannosa. Non si fanno battute a caso, tanto più se si lavora ad unire la sinistra». 
Segue racconto dei suoi ritorni in Serbia, dei giovani che lo hanno ringraziato perché quella guerra fu l’inizio «del ritorno alla libertà». Ma questa sarebbe un’altra storia. 
FATTA QUESTA PREMESSA – come dire, patti chiari per un’amicizia lunga – torniamo all’assemblea del Brancaccio. Che D’Alema ha seguito dall’inizio alla fine, cinque ore incollato alla poltrona («sono un professionale, se partecipo a un’assemblea non ’passo’ per fare finta, e poi avevo un’autentica curiosità»), incastrato fra Luciana Castellina e Nichi Vendola. 
LA PRIMA IMPRESSIONE «è che ci fosse un certo furore iconoclasta, non contro Renzi ma contro tutti». Soprattutto contro l’ex sindaco di Milano, bersaglio di salve di fischi per interposto senatore Gotor, che ha parlato dal palco resistendo alle interruzioni. 
«Il becerare contro Pisapia e i fischi a Gotor non portano lontano. Gli organizzatori dovevano fermarli, sono inutili anche alla causa che cercano di sostenere. Altro segno di estremismo e settarismo, l’avversione verso il più vicino: quello più lontano è un avversario, quello più vicino è il traditore». 
SEMBRANO PREMESSE POCO incoraggianti per chi si è assunto la fatica erculea di unire la sinistra, una sinistra così. E invece il senso del ragionamento di D’Alema è un altro. Opposto. A dispetto delle premesse. 
Ed è un appello, un’ultima chiamata. «La situazione del paese è grave, persiste la difficoltà italiana di agganciare la ripresa, persistono le gravissime diseguaglianze, c’è un enorme problema disoccupazione giovanile, e l’attuale guida del governo, che pure ha fatto delle cose sui diritti civili, non appare in grado di imprimere la svolta necessaria al paese», dice. 
«Il paese va verso elezioni in cui le alleanze saranno due: quella del Pd con Forza italia da una parte, quella di Grillo con Salvini dall’altra. Un’alternativa diabolica, nessuna in grado di portare il paese fuori dal disastro». 
Dunque non c’è scelta, «dobbiamo raccogliere tutte le forze e mettere in campo un’altra possibilità. Nell’assemblea, fra qualche eccesso estremistico di cui dicevo, si è espressa però anche una ricchezza di risorse, di militanza e impegno civile, quello che i partiti – che non sono autosufficienti – debbono ascoltare. Ma quello che non ho avvertito è l’urgenza e la responsabilità di una sfida di governo. E invece dobbiamo offrire al paese una chance. Anzi, è il nostro dovere». 
SENZA SCADERE nelle accuse di minoritarismo, nei fatti quella del governo non è stata la preoccupazione principale degli interventi. Neanche in quelli «di linea» dell’avvocata Falcone e del prof Montanari. 
«Ecco. In un altro contesto potremmo intrattenerci con l’idea di lungo periodo di ricostruire la sinistra. Oggi però chi lo pensa manca di senso di responsabilità, di senso della gravità della situazione», di analisi insomma, «e non possiamo permettercelo». 
DI QUI ARRIVA AL CUORE del ragionamento: «La rottura» è quello «che non possiamo permetterci», e il problema non sono i fischi, «non ci spaventano», il punto è che «spetta a chi ha voluto l’iniziativa del Brancaccio promuovere una svolta rispetto a quell’atteggiamento contraddittorio». 

Nel vicolo stretto dell’unità siamo già arrivati al crocevia «svolta o rottura», eterna pietra d’inciampo del centrosinistra. 
Ma i fischi, è l’obiezione, non sono un segno di primitivismo, insomma quanti fischi – da quelli contro Berlinguer dei socialisti di Craxi – hanno significato serissimi contrasti politici, ancorché sonanti e sibilanti? 
La proposta di primarie con il Pd, la scelta di Pisapia: l’assemblea ha detto il suo no a questo. Fischiando, facendo un po’ di chiasso. 
«GUARDI, ERO VICINO a Vendola, gli ho ricordato che Pisapia non è una perfida creatura del renzismo. E comunque quest’atteggiamento è ingeneroso. Io lavoro all’idea di una lista aperta alla società civile, che non sia un cartello di partiti» tipo lo sfortunato Arcobaleno di Bertinotti, «che incalzi il Pd sui contenuti, con l’idea che in questo paese l’alternativa alla destra si può fare solo con un centrosinistra marcato da una discontinuità. Sa cos’è?», no, «sono le parole di Pisapia a Milano, all’iniziativa di Art.1, e le condivido». 
«Falcone e Montanari capiranno che non c’è apertura se ci si prende a pernacchie. Dicono ’passiamo ai contenuti’: bene, al Brancaccio in mezzo a qualche follia ho sentito cose interessanti, si possono sviluppare. Ma è strumentale dire che non sappiamo cosa pensa Pisapia dei voucher: ha espresso solidarietà alla Cgil». 
RESTA QUELLA PROPOSTA indecente di primarie con il Pd, quella relazione pericolosa con Renzi. Che anche D’Alema notoriamente non condivide. 
«Consideriamolo un eccesso di generosità destinato a fallire, anzi già fallito visto che Renzi – ma che disinvoltura è quella di chi passa in un’ora dall’alleanza con Berlusconi a quella con Pisapia? – gli ha proposto un pugno di posti. Ci fa piacere pensare che era una proposta così implausibile da essere stata fatta apposta per essere rifiutata». 
IN OGNI CASO PER D’ALEMA questa proposta non c’è più, respinta dallo stesso Renzi. Quindi, i ’civici’ sono a un bivio: «Abbiamo un disperato bisogno di lavorare su quello che ci unisce, e non lasciarci affliggere dalla malattia mortale della sinistra ovvero l’entusiasmo per ciò che divide. Dobbiamo sentirne il dovere». 
TUTTO MOLTO BELLO, ma qualcosa non torna. Per il Fatto lei ha detto che Pisapia è un «cog..one». 
«Non è vero, non l’ho mai detto. Non mi dilungo perché la mia saggistica sul giornalismo italiano è già vasta». E poi, «sono diventato buono, so che i giornalisti hanno nostalgia del D’Alema cattivo ma invece, vede, ho ascoltato quelle calunnie sul Kosovo e sono rimasto seduto. In altri tempi mi sarei alzato e me ne sarei andato. A proposito, andrò a piazza Santi Apostoli il primo luglio, lo considero un mio dovere di militante».



La tentazione che frena la sinistra 
Norma Rangeri Manifesto 20.6.2017, 10:35 
Non è che l’inizio, l’inizio di una perigliosa navigazione però. L’affollata assemblea di domenica al teatro Brancaccio ha riunito le isole dell’arcipelago della sinistra, quelle che nel referendum del 4 dicembre hanno vissuto e condiviso la felice battaglia per la Costituzione. 
Accanto a una straripante partecipazione, molto importante per l’avvio dell’impegnativo cammino, sono emersi tuttavia forti accenti identitari, una scarsa propensione all’unità. 
Anzi, di più: l’impressione netta è che per il momento i carri della carovana della sinistra in costruzione siano due. Orientati verso direzioni diverse e distinte. 
Forse potrebbero incontrarsi per strada, ogni tanto, per convergere su alcune battaglie politiche e sociali comuni. 
Ma se si votasse domani la spinta prevalente sarebbe a favore di due liste separate, il contrario di quel che i due promotori, Anna Falcone e Tomaso Montanari, intendono perseguire con la loro coraggiosa iniziativa. 
Sarebbe un esito molto negativo. 
Naturalmente non per chi pensa che venti deputati e un bottino elettorale del 3% siano l’obiettivo da raggiungere, ma sicuramente per chi ancora spera in un’aggregazione larga, con l’ambizione di oltrepassare i confini fin qui tracciati dagli attori rimasti in campo negli ultimi, drammatici anni della crisi. 
L’elenco dei presenti all’incontro fa capire che le «isole» sono tantissime. 
I promotori Montanari e Falcone di Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza, Sinistra Italiana, i Rifondaroli, i fuorusciti dal Pd e ora Art.1- Mdp (pochissimi), e D’Alema, Castellina, Civati, Ingroia, de Magistris (Claudio). Storie e vite politiche molto diverse tra di loro, ma non per questo meno animate da una viva e giusta convinzione: che c’è un mondo – piccolo, medio o grande che sia – oltre il Partito democratico. 
Però quello che si notava di più era proprio l’assenza dei tanti che in questa lunga traversata nel deserto della crisi, hanno voltato le spalle alla sinistra decidendo di non votare. Anche se c’erano esempi, esperienze portate al microfono da nuove generazioni, ragazze e ragazzi dei movimenti sociali. 
E però nel rosso teatro viveva un terzo elemento, che si è mostrato ai presenti platealmente. La contestazione. Il rifiuto. 
Tangibile quando ha parlato il senatore Miguel Gotor, uscito dal Pd con Bersani: le sue parole sono state coperte dalla sala rumoreggiante, contenuta a fatica dagli organizzatori. L’episodio ha messo in rilievo il sentimento prevalente della riunione: mai un centrosinistra con Renzi, tenere alla larga quelli del Pd perché hanno contratto un «virus». 
Ma se un ex, un fuoriuscito dal Pd viene a dire che si riconosce nei valori e nei contenuti dell’assemblea, non dovrebbe essere considerato come un nemico del popolo. Quindi un ostacolo in più. Bensì il segno tangibile di un meritato consenso. 
L’immagine offerta al Brancaccio dalla platea e dagli intervenuti al dibattito, fa dunque risaltare, insieme alla vivacità e ai colori di una radicata presenza nella società, insieme all’orgoglio di una militanza tanto preziosa, i punti più deboli di una «alternativa» (non di governo) di sinistra: la mancanza di una reale unità; lo scarso interesse verso chi negli ultimi anni ha deciso di non impegnarsi, perché disilluso e poco attratto dalle «minestre riscaldate»; la prevalenza di quelli convinti di avere la «giusta» linea. 
E quindi come uscirne? Non avendo la bacchetta magica possiamo solo avanzare qualche suggerimento, sul filo dei discorsi fatti in passato sostenendo che «c’è vita a sinistra». 
Innanzitutto non dovrebbero prevalere atteggiamenti divisori, perché se è corretto sostenere che con Renzi non c’è futuro a sinistra, è sbagliato invece porre paletti o veti nei confronti di chi ha rotto, con dolore e con fatica, con il proprio passato (penso a Bersani e ai bersaniani). 
Poi ognuno dei «costruttori per l’alternativa», dovrebbe essere in grado di dire, innanzitutto a se stesso, che non esistono questioni politiche irrinunciabili (tranne quelle legate ai valori e ai principi) e anche a questo serve una piattaforma programmatica. 
Terzo punto, di conseguenza, bisognerebbe elaborare un programma politico economico e sociale per il Paese, sia sul breve che sul lungo periodo. 
E, infine, last but not least, identificare una leadership, un punto di riferimento, preferibilmente femminile, capace di unire, mettere insieme, essere protagonista. La presenza dei leader è servita alla sinistra inglese e americana per riunire le forze sparse alternative, di sinistra, democratiche, riformiste. Va preso atto che oggi la politica, in Italia e nel mondo, si fonda anche sul leaderismo. Che non significa avere una persona sola al comando, come Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini. 
La fantasia al potere è uno slogan che l’anno prossimo compie cinquant’anni, quanti ne sono passati dal 1968. Di quella fantasia ne abbiamo ancora un discreto bisogno, anche sul terreno della leadership che deve rappresentare un contenuto altrettanto forte e radicale. 
Alla fine dell’estate questa perigliosa navigazione dovrebbe trovare l’approdo in una Costituente, come suggeriva su queste pagine Alberto Asor Rosa
Ovvero il risultato, l’approdo di un processo largo e democratico che discute le forme, il nome, il simbolo di una forza, di una Nuova Sinistra. Una prospettiva per la quale lavoreremo per aiutare un esito felice di questo processo.

1 commento:

Mario Galati ha detto...

Semplicemente vergognoso. È scandalosa la giustificazione dell'aggressione alla Iugoslavia. Le limitazioni alla sovranità consentite dall'articolo 11 della Costituzione sono soltanto quelle finalizzate alla pace e alla cooperazione, non ad aggredire un altro popolo e uno stato sovrano. Quello sull'articolo 11 è lo stesso sofisma usato per giustificare le limitazioni della sovranità a favore dell'U.E. incompatibili con la nostra Costituzione.
I criminali si appellano alla legge per giustificare i propri crimini. Con gli attuali rapporti di forza i giudici interpretano le norme secondo la corrente. Se ci aspettiamo che la Costituzione venga rispettata per opera dei giudici o della stessa Corte Costituzionale, stiamo freschi.
Harold Pinter chiedeva di processare Blair come criminale internazionale. Se Harold Pinter fosse stato italiano, chi avrebbe indicato al posto di Blair? I servi della NATO e del capitale si presentano con spocchia come grandi dirigenti, ma non sono buoni neanche a friggere salsicce.