mercoledì 14 giugno 2017

Tradotto "Il monastero", di Zachar Prilepin

Alle isole Solovki la storia è fatta di ciò che si tace 
Narrativa russa . Trasferendo gli stilemi del romanzo picaresco sullo sfondo degli anni venti, Zachar Prilepin concepisce una narrazione-fiume intorno al rapporto con l’entità sovraindividuale dello Stato: «Il monastero», edizioni Voland 
Valentina Parisi Alias Domenica 18.6.2017, 17:45 
«D’altronde che cos’è la verità, se non ciò che si ricorda?» Con questa domanda all’apparenza retorica Zachar Prilepin introduce fin dalle prime pagine quello che si rivelerà uno dei motivi conduttori del suo ultimo romanzo, uscito in Russia nel 2014. Il monastero (traduzione di Nicoletta Marcialis, Voland, pp. 816, euro 25,00) trae infatti la sua motivazione dal contrasto tra la Storia così come emerge dalla narrazione dei testimoni oculari – spesso lacunosa o parziale, eppure dotata di una sua logica interna – e la visione frammentaria, quasi atomizzata, restituita dai documenti d’archivio. 
Cosa rimane oggi delle centinaia di vite inghiottite dal campo di lavoro «a regime speciale» che il potere sovietico istituì agli albori della sua esistenza nell’antico eremo delle isole Solovki? E a chi deve prestare ascolto uno scrittore, nel momento in cui si accinge a sottrarre all’oblio uno di quei destini? Forse ai racconti scarni, quasi restii, uditi da bambino dalla voce del proprio bisnonno Zachar (anch’egli internato nel lager) e immediatamente circonfusi da un’aura forse ingiustificata di leggenda? Oppure alla realtà non meno effimera contenuta in elenchi di nomi e verbali di interrogatori, aridi lacerti burocratici dietro i quali si intravede a stento la vita? 
Di fronte all’impasse morale di chi si trova a voler ricostruire uno dei periodi più drammatici della storia del proprio paese, pur non essendone stato testimone, Prilepin rompe di slancio gli indugi, appropriandosi della vicenda a un tempo banale ed esemplare del giovane Artëm e conferendo a quest’ultimo tratti che consentono di inserirlo a pieno titolo nella genealogia dei suoi eroi precedenti. Come il ribelle San’kja o l’io narrante del racconto Il peccato, anche Artëm è un ragazzo impulsivo e dalla fantasia sbrigliata, che agisce d’istinto, pressoché alla cieca, ostentando di fronte alle conseguenze spesso rovinose delle sue azioni una apparente imperturbabilità. Ai lavori forzati è finito per aver ucciso il padre in una lite. 
Al compagno di sventura Vasilij Petrovi, che gli domanda chi sia veramente, risponde: «Nessuno. Un moscovita, un perdigiorno, un divoratore di libri». Ed è proprio questa inafferrabilità difondo (oltre a un attaccamento pressoché animale alla vita) che gli permette di barcamenarsi nella realtà ambigua del campo, tra fatiche massacranti, cekisti sadici, criminali comuni, controrivoluzionari complottardi e il lento trascorrere dei giorni, che non vanno mai contati. Come nota con una punta di ironia lo stesso Vasilij Petrovi (l’intellettuale che, con la sua finezza un po’ demodé, incarna quel sistema di valori e di punti di riferimento di cui il protagonista è sprovvisto), Artëm si è perfettamente integrato nella realtà terribile e stralunata delle Solovki, sorretto da una qualità davvero invidiabile: non prendere mai nulla a cuore. Senonché questa capacità intuitiva di adattamento entra in crisi allorché Artëm comincia a subire la fascinazione del potere, incarnato dalla figura del direttore del campo Fëdor Ejchmanis, epitome del rivoluzionario per cui il fine giustifica i mezzi: «Artëm si accorse di provare una sensazione piuttosto imbarazzante: in quel momento Ejchmanis gli piaceva come persona. I suoi gesti erano precisi, convincenti, e dietro ogni parola c’erano una sicurezza e una forza insolite. Se Artëm avesse dovuto combattere, avrebbe voluto un ufficiale così». Ma lo stato sovietico non ha certo bisogno di soggetti inaffidabili come Artëm; anzi, di lì a breve comincerà a fagocitare anche i suoi servitori più fedeli come Ejchmanis, fucilato nel 1938 durante quelle stesse repressioni che aveva contribuito a organizzare. 
Trasferendo gli stilemi del romanzo picaresco sullo sfondo degli anni venti, Prilepin costruisce una narrazione-fiume che si snoda intorno all’eterno tema su cui si innestano tutte le sue opere, ovvero il rapporto tra l’uomo e l’entità sovraindividuale dello Stato. Una questione che assume dimensioni ancora più complesse alla luce delle posizioni neo-slavofile e patriottarde espresse dall’autore e della sua partecipazione diretta ai combattimenti nella regione del Donbass in appoggio ai separatisti filorussi. 
Nell’ottica di Prilepin, il campo delle Solovki non è l’arcipelago Gulag di Solženicyn, né il «crematorio bianco» di Šalamov, bensì un «riflesso della Russia», che qui appare «come sotto una lente d’ingrandimento», rivelando aspetti ora grotteschi, ora di sconvolgente crudezza. L’idea di forgiare l’uomo nuovo attraverso il lavoro si concretizza in forme che non mancano di suscitare le ironie di Artëm, come l’istituzione di un laboratorio per l’estrazione dello iodio dalle alghe o di allevamenti per il ripopolamento della fauna locale. Allo stesso tempo, alle Solovki avvengono in continuazione atrocità di cui il protagonista verrà a conoscenza solo orecchiando, mentre viene dettato il rapporto sulle condizioni di vita dei detenuti stilato nel maggio 1930. Quella che emerge da Il monastero è dunque l’immagine cupa di un paese dove l’individuo è fatalmente destinato a soccombere a un potere che esercita su di lui oscure forze di attrazione. A questa deriva non esiste scampo, come osserva Vasilij Petrovi, quando rammenta ad Artëm che in prigione, così come in guerra, è impossibile vincere. Sicché, in ultima istanza, la verità storica finisce per coincidere con quel che si vorrebbe poter tacere o non ricordare.

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