lunedì 5 giugno 2017

Una biografia di Etty Hillesum e un libro


Etty Hillesum e l’audacia di pensare il bene del mondo 

A partire da «Donna di parola», un saggio di Antonella Fimiani sulla scrittrice olandese 

Alessandra Pigliaru Manifesto 24.8.2017, 0:03 
«Sono affidata a me stessa e dovrò cavarmela da sola. L’unica norma che hai sei tu stessa, lo ripeto sempre. E l’unica responsabilità che puoi assumerti nella vita è la tua. Ma devi assumertela pienamente». Quel 21 di ottobre del 1941 Etty Hillesum annotava in poche righe una delle grandi lezioni che avrebbe consegnato al Novecento, nell’Europa flagellata dal nazismo che da lì a poco più di due anni l’avrebbe condotta alla morte in un campo di sterminio. Di quell’affidamento a se stessa, lei che se n’è andata sulla soglia dei trent’anni, conosceva ogni singolo interstizio insieme a tutti i pericoli. Nonostante la solitudine sperimentata nei recessi materiali e spirituali di cui la condizione umana è provvista, sono state grandi e nitide le genealogie della scrittrice olandese, ebrea e poeta rara, che ha vissuto e perlustrato l’umano fin dentro la profondità del suo guscio fragile e sensuale, di bene e male. 
MOLTO ERA IL MALE, conosciuto prima nell’anno a Westerbork e poi ad Auschwitz, esiziale l’odio e la furia assassina con cui – ne aveva piena contezza – da lì a poco si sarebbe consumata l’ecatombe. Eppure a leggere i suoi Diari (insieme alle Lettere sono editi da Adelphi), scritti nei tre anni precedenti il congedo definitivo dalla desolazione terrestre, a sollevarsi è una parabola del bene. Per niente paradossale, né un’apologia della bontà, questa fame di bene poggia su una forza instancabile di parole luminose, sull’istante abbacinante dell’aver pacificato il tormento di sé, a scansare il lutto di un «mondo inospitale». Senza riparo per il disastro, il compito a cui si autorizza Etty Hillesum è di raccontarne la realtà fenomenica per arrivare alla parte umbratile, meno visibile. Questo il centro della scrittura come tentativo supremo di mettere ordine anzitutto in se stessa e nel mondo che la frastornava.
Un’ostinazione lancinante, la sua; poi il corpo a corpo con la pratica della preghiera su un tappeto di cocco, insieme ai baci e alla breve nausea che la coglieva quando non riusciva a esprimere ciò che intendeva fermare sul foglio. Donna di parola. Etty Hillesum e la scrittura che dà origine al mondo (Apeiron, pp. 159, euro 12) di Antonella Fimiani è un interessante modo per fare ritorno a quel potente apprendistato. Con ferma dedizione, Fimiani consegna in cinque agili capitoli i temi principali della parabola di Hillesum. 
L’AMORE, l’audacia di pensare il proprio tempo, la cova silenziosa di un indicibile che va tuttavia registrato e testimoniato. Da Dostoevskij a Rilke e Hannah Arendt, il corredo di colloqui era architettura di chi accetta il dolore eppure non vi si sa rassegnare. È in questo solco che incontriamo «la scoperta di un dio non relegato nella solitudine ma tracciato dalla relazione concreta con l’umano».
Così la scrittura «è un altro modo di possedere, di attirare le cose a sé con parole e immagini». Una questione di insaziabilità, non di altruismo, in cui arriva l’assunzione piena della responsabilità. Magistero semplice, dettato dall’intuizione formidabile che senza sporgersi verso gli altri e le altre si rimane nella cecità di un io autocentrato, drammaticamente inutile. È fame di bene il divenire «un cuore pensante» in un’epoca scellerata, complessa traiettoria resa da un’altura – prima ontologica che etica – per molte e molti irraggiungibile. 
SCOPRIRSI VEDENTI nella ineluttabilità di una sorte, svettarne i confini materiali, toccarli tutti per tenere l’umano con sé e ammettere uno statuto ulteriore che quella realtà sia in grado di espandere; si potrebbero chiamare strategie di sopravvivenza, per Etty Hillesum erano la stoffa stessa del suo stare nel mondo.
Non c’è bisogno di superare se stessi, basterebbe accogliere ciò che si è, con grazia spiega anche questo Antonella Fimiani, seguendo il tragitto della scrittrice.
L’attaccamento primordiale alla relazione è il primo tassello ineludibile. 
PRIMA DI CAPIRE l’impossibilità di amare un solo uomo, la mano di Julius Spier era ciò che le sosteneva le giornate. Grande e generosa, la sua mano non era solo un secondo volto – come prometteva la chirologia di cui si occupava il bizzarro psicologo junghiano – quando le carezzava i capelli o la stringeva a sé, era l’abbraccio di chi aveva deciso di crederle, certo meno ipnotico della bocca indisponente eppure esperta nel tessere i sogni di una donna della metà dei suoi anni. Come dalla mano di Dio da cui Etty immaginava di «rotolare melodiosamente», anche la mano dell’amante era sapientemente mobile. Disegnava giravolte e proiezioni, infinite e perturbanti; Spier, (S., così nominato nei Diari), era in fondo l’altra parte di Dio, perfetto congiungimento in un mondo altrettanto vulnerabile. 
«E ORA CHE NON VOGLIO più possedere nulla e che sono libera – ammette, risolta – ora possiedo tutto e la mia ricchezza interiore è immensa». Un’interiorità così carnale che è difficile non cadere innamorati o perlomeno commossi, dalla prima all’ultima parola della giovane scrittrice olandese, stando davanti allo specchio in frantumi di un Novecento che custodisce tra i nomi più scintillanti quello di Etty Hillesum.

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