lunedì 9 ottobre 2017

Rembrandt e gli ebrei

Gli ebrei olandesi nello specchio di Rembrandt 
Steven Nadler, "Gli ebrei di Rembrandt", Einaudi "Saggi". Nel disegnare le relazioni di Rembrandt con le comunità sefardita e ashkenazita di Amsterdam, Nadler (l'importante studioso di Spinoza) è ancora ignaro, purtroppo, delle recenti, cruciali ricerche sul pittore, in particolare il Corpus of Rembrandt Paintings realizzato sotto la guida di Ernst van de Wetering
Marco M. Mascolo Alias Domenica 26.11.2017, 0:10 
Il rapporto di Rembrandt Harmenszoon van Rijn con gli ebrei di Amsterdam è stato spesso oggetto dell’interesse sia degli storici dell’arte che di altri studiosi. È documentato che l’artista, dal gennaio 1639, occupò una casa nel cuore del quartiere ebraico, il Vlooienburg: un’isola tra i canali della città, strappata all’acqua grazie alla perizia ingegneristica degli olandesi. Lì Rembrandt trascorse quasi vent’anni della sua vita sino a quando, nel 1656, fu costretto a vendere la casa perché non era riuscito a restituire l’enorme somma di tredicimila gulden che gli erano serviti per comprarla (si tratta della lussuosa magione che oggi è diventata il museo Rembrandthuis).
Oltre a questa vicinanza ‘fisica’, lo scambio con la comunità ebraica di Amsterdam è tramandato anche da alcuni documenti e, soprattutto, dalle opere dell’artista. Sono molti, infatti, i quadri a soggetto ebraico (come il Festino di Baldassarre oggi alla National Gallery di Londra) o che ritraggono alcuni dei membri della comunità sefardita della città. Nel 1655, ad esempio, l’artista illustrò Piedra Gloriosa, un testo scritto dal rabbino Menasseh ben Israel, al secolo Manoel Diaz Soeiro, nativo di Madeira e giunto in Olanda attorno al 1610, ancora in tenera età (era nato nel 1604, due anni prima di Rembrandt). Le quattro acqueforti che raffigurano altrettanti episodi di alcune delle più note storie bibliche (ad esempio Il sogno di Giacobbe, o Davide contro Golia) sono proprio uno dei risultati della vicinanza dell’artista al rabbino.
Come molte delle vicende legate a Rembrandt anche quella del suo rapporto con la comunità ebraica è stata oggetto di una serie di studi che si sono susseguiti quasi senza soluzione di continuità nel corso del tempo. Sin dalla vague tardo-ottocentesca e primo-novecentesca che ha determinato (e sostanzialmente imbrigliato) l’immagine di Rembrandt, questi ha assunto di volta in volta panni diversi, mutando incessantemente sotto la spinta della penna degli esegeti che hanno tentato di ‘svelare’ alcuni aspetti della sua vita e della sua arte. In questo senso non fa eccezione il libro di Steven Nadler, Gli ebrei di Rembrandt , edito da Einaudi («Saggi», pp. 275, 44 ill., euro 32,00). Nadler, un esperto della cultura ebraica del Seicento e fra i maggiori studiosi di Spinoza, ha messo sotto la lente proprio il rapporto di Rembrandt con la comunità ebraica di Amsterdam. Purtroppo, ed è bene dirlo subito, il risultato non è dei migliori. Lo stile accattivante dello studioso, che in alcuni tratti del volume accompagna il suo lettore per le strade della città, nelle case private, nelle sinagoghe, se da un lato ricostruisce in modo dettagliato e preciso le vicende degli ebrei olandesi concentrandosi su alcuni personaggi di spicco (come il già ricordato Menasseh ben Israel, o Saul Levi Mortera, il più importante rabbino nell’Amsterdam dell’epoca), dall’altro usa Rembrandt e la sua opera come un semplice pretesto per arricchire il suo racconto.
In alcuni casi, per quanto Nadler inviti alla cautela nell’accettare ipotesi e proposte che non hanno trovato una definitiva soluzione, nelle successive argomentazioni pare invece dare per scontati proprio i suoi stessi caveat. A volte gli studi e le informazioni sui quali poggiano le proposte dell’autore risultano essere state in parte corrette o ridimensionate dalle ultime ricerche attorno a Rembrandt. A onor del vero, la prima edizione inglese del testo risale al 2003, quando non erano ancora stati pubblicati gli ultimi tre volumi del Corpus of Rembrandt Paintings che, sotto la guida di Ernst van de Wetering, il maggiore studioso odierno dell’artista, hanno impresso una svolta cruciale alle ricerche su Rembrandt. Nadler non aveva quindi a disposizione le ricerche che sarebbero state pubblicate a partire dal 2005 e che, in un decennio, hanno consegnato agli studiosi un’immagine assai diversa dell’artista.
In definitiva, quello che Nadler disegna è un affascinante affresco della società olandese del XVII secolo, caratterizzata dalla sua fiera volontà d’indipendenza dalle province cattoliche e dilaniata da una serie di sanguinose guerre di religione, nella quale le comunità ebraiche sefardite e ashkenazite riuscirono a trovare un minimo spazio di libertà per mantenere vive le loro tradizioni. La parte migliore del libro resta quella in cui Nadler, come in precedenti lavori, mette a fuoco la rete sociale di questi individui vissuti secoli fa, ne indaga le relazioni con i gentili, ne ritesse le vicende sullo sfondo della società europea d’Ancien Régime. Tratteggiando ad esempio le attività di Menasseh ben Israel emergono le frizioni e gli scontri interni alla comunità ebraica di Amsterdam.
Certo, in quella società e in quella città, negli stessi anni presi in esame dallo studioso, viveva anche Rembrandt che, forse come nessun altro artista ha suscitato una curiosità e un interesse mai sopiti da parte delle successive generazioni di amatori, storici e storici dell’arte. In molti vorrebbero riuscire a sapere chi è raffigurato in questo o in quel ritratto così magistralmente eseguito; a più di qualcuno piace riconoscere in Rembrandt un vero e proprio outsider, ai margini della società che invece avrebbe voluto imbrigliarlo con le sue convenzioni e i suoi ‘rituali’. È un’idea derivata, ancora una volta, dall’immagine dell’artista costruita tra Otto e Novecento, sempre dura a morire.
Riproporre tal quale senza nemmeno un aggiornamento questo libro, rischia di non rendere giustizia neppure al suo autore. E poi davvero viene da chiedersi come mai, a voler presentare in italiano un libro su Rembrandt, non si è scelto di tradurre il Rembrandt and his Critics di Seymour Slive, uno dei maggiori specialisti di pittura olandese del Seicento, pubblicato nel lontano 1953 e a tutt’oggi di proficua consultazione; o magari uno dei libri di van de Wetering, che con rara acribìa ha scardinato alcuni dei più stantii luoghi comuni su un gigante dell’arte occidentale come Rembrandt. In fondo, anche questi, hanno il nome del grande artista nel loro titolo, a rincuorare le ragioni del marketing e le proiezioni di vendita. 


Condividi: 
Scarica in:

Nessun commento: