lunedì 20 novembre 2017

Oz oltre Oz






Oz, la favola modernizzata per i bambini d’America del 1900 
Frank Baum. «Il meraviglioso mago di Oz», del 1900, ebbe un successo travolgente, così tra il 1904 e il ’19 il suo autore aggiunse altre 13 storie, una per ogni Natale. Einaudi le ha antologizzate 
Caterina Ricciardi  Alias DOmenica 31.12.2017, 0:57 
L. Frank Baum, l’autore del Meraviglioso mago di Oz, pubblicato nel 1900 all’età di 43 anni, fu un personaggio singolare: versatile e intraprendente, un po’ alla Benjamin Franklin, ma molto più estroso del pragmatico e frugale creatore del «povero Riccardo». Nato nello Stato di New York da una famiglia arricchitasi col commercio del petrolio, Baum fu – rischiando spesso la bancarotta – tipografo, avicoltore, commesso viaggiatore, decoratore di vetrine, gestore di un negozio nel South Dakota, imprenditore teatrale, scenografo, attore, giornalista, e infine – quando si stabilì a Chicago, la città magica del momento – scrittore a tempo pieno per l’infanzia. Nella sua vita aveva attraversato la (corrotta) «Gilded Age» post-Guerra civile, con le sue promesse d’oro e d’argento, e a Chicago assistette al successo della spettacolare Esposizione Colombiana del 1893 che, con l’allestimento della «White City» e delle sue architetture di cartapesta in stile neoclassico, combinava tecnologia (il Palazzo dell’Elettricità, la Ferry Wheel) e un sontuoso (sia pur effimero) senso del bello. L’evento esercitò su di lui (come su altri) grande fascinazione, soprattutto per gli inediti effetti abbaglianti della luce elettrica: un prodigio di Edison, che Baum volle incontrare.
Avevano ancora bisogno di gnomi, elfi e fate, i bambini americani del nuovo secolo? No. Era tempo di aggiornare il folklore favolistico e di scoprire un nuovo territorio magico, archiviando stereotipi europei nonché episodi «orribili e gelasangue inventati dagli autori per fornire una morale spaventosa» a menti innocenti. Così Baum annunciava nell’Introduzione al Meraviglioso Mago di Oz, che definiva una «favola modernizzata, in cui trovano posto il meraviglioso e la gioia, ma l’angoscia e gli incubi restano fuori della porta». Il progetto sembra ambizioso negli intenti (aiutati dalle accattivanti illustrazioni di W. W. Denslow) e problematico nei risultati, non solo se pesati a posteriori.
Una terra abitata da streghe
Si uccide, si sterminano animali, si combatte e si schiavizza nel mondo alternativo di Baum; ed è un «ciclone» a travolgere disastrosamente il già arido e grigio Kansas contadino e a dare inizio alla storia, catapultando Dorothy, la piccola protagonista, in una terra abitata da streghe (buone e cattive), strane popolazioni riottose, e tre creature malconce (lo Spaventapasseri, il Boscaiolo di Latta e il Leone Codardo), che, dopo la morte della Malvagia Strega dell’Est, perita nell’impatto con l’atterraggio di Dorothy, si uniranno a lei su strade giallo-oro verso l’opulenta «Città di smeraldo». O almeno così essa appare a chi vi entra, costretto a farsi «inchiavardare» sul volto occhiali dalle lenti verdi per non essere accecato dallo splendore. Qui, nel trionfo di un verde egalitario, in cui l’individuo si perde, e di un consumismo ad libitum, regna con polso dispotico un mago multiforme e illusionista, abile manipolatore di congegni meccanici. È il Mago di Oz, un impostore, l’unico che può permettere a Dorothy di tornare a casa, ma solo dopo aver ucciso la Malvagia Strega dell’Ovest.
Il volo vorticoso, che ribalta la caduta di Alice nelle ombre del suo paese delle meraviglie, impone a Dorothy prove ben più inquietanti di una partita a croquet. Non c’è da stupirsi. Perché Il meraviglioso mago di Oz è un libro americano che – nello scambio fra mondo reale e mondo fantastico, ostacoli e privilegi, bene e male – punta a esaltare, con la fiducia in se stessi, il progresso tecnologico e quel poco di ‘magico’ che, nella necessità, può risiedere in ciascuno di noi. Il successo del libro presso i giovani lettori fu senza precedenti. Se ne ricavò subito un musical a Broadway, cui seguirono diverse versioni cinematografiche, tutte un po’ edulcorate (in quella muta del 1925 un imprevedibile Oliver Hardy impersona il Boscaiolo di Latta). Il film in technicolor di Victor Fleming del 1939, con Judy Garland nella parte di Dorothy, confermò la solidità di un mito, alla cui costruzione avevano contribuito nel passato le migliaia di letterine inviate a Baum dai bambini che lo esortavano a non abbandonare la terra di Oz.
Dal 1904 al 1919, l’anno della sua morte, Baum aggiunse altre tredici storie (più o meno una per ogni Natale) che Einaudi raccoglie per la prima volta in Italia, antologizzate (ma qualche passo chiave andava lasciato nella sua integrità), in un «Millennio» a cura di Chiara Lagani corredato di ottime note e un utilissimo lemmario di oltre 300 voci: I libri di Oz, illustrazioni di Mara Cerri (pp. 917, euro 90,00).
L’entrelacement di storie e invenzioni (anche linguistiche) è spumeggiante e labirintico. Non a caso Chiara Lagani invita ad adottare nella lettura un itinerario personale: cronologico o tematico (il suo, in chiave femminile, aggiunge nuove prospettive: Baum era, tra l’altro, un suffragista), o persino visivo, adoperando le immagini di Mara Cerri «come carte da gioco, speculari ai testi». Che si proceda in linea retta o a ritroso, o magari a zig-zag, s’inaugurerà – ella scrive – una nuova figura: «la spirale, il vortice». Forse lo stesso vortice, in cui Baum resterà prigioniero – come Dorothy nel ciclone –, incapace di uscirne, nonostante le impennate delle sue risorse immaginative. Tant’è che dall’insieme si ha piuttosto l’idea di una visione in caleidoscopio di una medesima strategia (e istanza ideologica), messa in gioco su un palcoscenico permanente, dove, al pari dei numerosi personaggi (circa duecento), si entra e si esce e, volendo, si rientra, scegliendo, a piacimento, di attraversare il confine tra la realtà e il regno della fantasia. Ma è questo il punto critico: è difficile – sembra suggerire Baum – restare nell’una e, al contempo, abbandonarsi all’altro, ovvero consegnarsi all’incanto di quel mondo alternativo (e, tutto sommato, poco rassicurante), che infatti non fa mai passare a Dorothy la nostalgia di «casa». Molto curiosa risulterà pertanto la sua scelta finale.
Un’improbabile città celeste?
Nel cruciale sesto libro, La città di smeraldo (un’improbabile città «celeste»? un’utopia ambigua: populista e al contempo capitalista? una Chicago elettrificata?), Dorothy deciderà di fermarsi lì, in quel «verde» che dà felicità, portando con sé gli zii che l’hanno cresciuta, colpiti nel Kansas da un’ennesima crisi finanziaria. La rivedremo solo nell’ultimo libro, Glinda di Oz, ben integrata negli splendori (e le insidie) del Meraviglioso: un riparo dai mali del mondo o una fuga – non costruttiva – dalla realtà? Una domanda pleonastica, cui possono rispondere solo i segreti di Baum. Alla lunga, esaurita la sua vena, ormai centrifuga e commerciale, egli non riuscì ad affrancarsi dal suo mito, e dai conflitti educativi ed ideologici in cui era caduto.
Ma c’è chi l’ha vista diversamente, almeno ai fini del primo libro di Oz. Secondo un’ipotesi abbastanza accreditata – che dal fantastico ci precipita nel più vile quotidiano –, Baum volle creare un’allegoria politica, imperniata sulla questione del bimetallismo (oro e argento), una formula monetaria sostenuta dal populista William Jennings Bryan (candidato più volte alla Presidenza a partire dal 1896). La libera circolazione dell’argento, che avrebbe salvato il Midwest rurale, piagato da deflazioni e calamità naturali, era però avversata dai potenti baroni dell’Est (la Malvagia Strega dell’Est), promotori di un ferreo capitalismo industriale. Le magiche scarpette d’argento che la Buona Maga del Nord dona a Dorothy («rosse» nel film di Fleming), starebbero a indicare la moneta d’argento; la strada giallo-oro: il Gold standard; la Città di Smeraldo: il greenback, il dollaro cartaceo; il mago è l’impostore tirannico che governa il paese; e la Malvagia Strega del West sarebbe figura delle rimanenti comunità indiane, già massacrate a Wounded Knee, e che, secondo dichiarazioni pubbliche di Baum, bisognava sterminare definitivamente in nome della civiltà. L’allegoria funzionerebbe, senza tuttavia assolvere L. Frank Baum dalle sue numerose contraddizioni.

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