mercoledì 10 gennaio 2018

Un Atlante delle sirene e altri Atlanti di luoghi misteriosi e letterari

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Luigi Mascheroni Giornali - Ven, 26/01/2018


Sirene sul confine che corre tra esistenza e storia 
Immaginario occidentale. Dall’«Odissea» di Omero al cinema, un mito che ha attraversato i secoli con la vitalità delle forme simboliche capaci di racchiudere aspetti costitutivi dell’umano: Agnese Grieco, «Atlante delle Sirene», per il Saggiatore 
Luca Fiorentini Alias Domenica 24.6.2018, 0:32 
Omero descrive le Sirene molto sommariamente. Le prime informazioni si ricavano dalle parole con cui Circe istruisce Ulisse, ormai prossimo a lasciare l’isola di Eea per salpare alla volta di Itaca (Odissea, libro XII). Se vorrà fare esperienza del canto delle Sirene senza esserne annientato, Ulisse dovrà spalmare «dolcissima cera» sulle orecchie dei compagni e farsi legare all’albero della nave. Le Sirene gli appariranno adagiate su un misterioso «prato», e non potrà sfuggire all’eroe il «gran mucchio di ossa» che le circonda: prova inequivocabile della loro mortale ferocia.
Circe non dice nulla dell’aspetto delle Sirene. Dapprima accenna alla «voce» – phtongos – con cui costoro attirano le loro vittime, quindi al «canto armonioso» che sono in grado di produrre, e che induce gli uomini all’oblio delle cose più care, «la moglie e i figli bambini». Sono dunque i canti intonati dalle Sirene a stregare l’ascoltatore, o è piuttosto, e più semplicemente, la loro voce? L’oscillazione che si registra nelle parole di Circe è replicata un centinaio di esametri dopo, quando finalmente Ulisse si imbatte nelle temibili creature. Nel condividere con i compagni le indicazioni ricevute da Circe, Ulisse descrive la voce delle Sirene ripetendo il termine udito dalla maga: phtongos. Non appena i naviganti si avvicinano all’isola delle Sirene, la voce sembra assumere l’intensità di un grido: suoni penetranti e prolungati incalzano la nave in corsa e solo in seguito si tramutano in un «limpido canto». A una vibrazione che si ripercuote incessantemente Ulisse farà riferimento anche quando, rientrato a Itaca, racconterà dell’incontro con le Sirene a Penelope.
Gli effetti e la ‘qualità’ dei suoni emessi dalle Sirene omeriche hanno suscitato vari interrogativi. In una ricca monografia pubblicata nel 2005, Loredana Mancini osservava che il vocabolo impiegato da Circe e Ulisse, phtongos, indica di norma in Omero un’emissione vocale «inarticolata», un «grido di guerra o di terrore, o che ingenera terrore». Note acute e convulse sono tipiche anche dei canti funebri, e più precisamente del pianto selvaggio, della manifestazione ritualizzata di un dolore che si sottrae al controllo.
Lo strumento musicale associato alle Sirene nelle fonti letterarie – ad esempio nell’Elena di Euripide – è l’aulos, il flauto, messo al bando nella Repubblica platonica in quanto troppo versatile: contenendo in sé tutte le armonie, il flauto induce stati d’animo di eccessivo rilassamento o di eccessiva esaltazione. Tanto nella teoria musicale quanto nel mito, l’aulos è veicolo di sonorità istintive, ed è contrapposto alla lira di Apollo come la vocalità spontanea, non educata, si oppone al canto disciplinato da norme razionali. Del resto il flauto può adattarsi a trasmettere anche suoni estranei al dominio degli esseri umani: creato da Atena per imitare il grido delle Gorgoni, è lo strumento dei Satiri e dei Coribanti, gli iniziatori delle danze orgiastiche.
Il suono udito da Ulisse sembra dunque liberare la potenza del canto nella sua essenza primigenia, non umana. Nel suo andamento ripetitivo e ipnotico, nel suo essere ritmo privo di melodia, il grido delle Sirene riproduce il flusso inarrestabile del divenire, quel perpetuo processo di metamorfosi nel quale l’individuo riconosce la propria origine ma anche la propria fine, poiché in esso nessuna operazione razionale – nessuna astrazione, nessuna norma, nessuna identità, nessun ‘affetto’ – può conservarsi.
Torna oggi sul celebre episodio contenuto nel libro XII dell’Odissea Agnese Grieco, autrice di un affascinante Atlante delle Sirene Viaggio sentimentale tra le creature che ci incantano da millenni (il Saggiatore, pp. 343, € 28,00) nel quale alla sequenza omerica è opportunamente attribuito il ruolo di una ‘scena primaria’. Come osserva Grieco, l’icona delle Sirene attraversa i secoli con la vitalità che contraddistingue le forme simboliche capaci di racchiudere aspetti costitutivi dell’umano. Tra di essi risalta indubbiamente quello che De Martino indicherebbe come il conflitto tra ‘esistenza’ e ‘storia’, tra esperienza individuale e drammatica percezione di un ‘tutto’ in cui l’individualità è assorbita e annullata. Le Sirene si muovono lungo il bordo che separa questi due momenti. Gli sconfinamenti, come noto, sono numerosi, tanto che la letteratura che ha per oggetto le Sirene potrebbe intendersi nel suo insieme come una letteratura di sconfinamento.
Quando esseri umani e Sirene entrano in relazione le conseguenze, a ben vedere, sono sempre simili. È sufficiente ricordare un solo esempio, sul quale Agnese Grieco si sofferma nel capitolo intitolato Incontri. Nella sua indimenticabile Sirena (1957), Tomasi di Lampedusa narra dell’amore tra il grecista Rosario La Ciura e una Sirena improvvisamente emersa dalle acque siciliane. Lighea, questo il nome della Sirena, si descrive così: «Sono tutto perché sono soltanto corrente di vita priva di accidenti; sono immortale perché tutte le morti confluiscono in me». La sua voce è «gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli». Il suo sorriso esprime «soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia». Il congiungimento con Lighea è per La Ciura l’esperienza del contatto con una storia non umana: è la radicale presa di coscienza che storia umana e realtà non coincidono. E infatti a quell’esperienza nessun’altra potrà seguire.

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