sabato 17 febbraio 2018

La mostra sull'arte del periodo fascista a Milano



C'è una mostra di sinistra che fa diventare... fascisti
Nel Ventennio ci fu una esplosione creativa testimoniata da "Post Zang Tumb Tuum"


Il regime esibisce la sua vitalità 
Arte fra le due guerre. Non solo opere alla Fondazione Prada dove è allestita la mostra «Post Zang Tumb Tuuum», ma gigantografie fotografiche che documentano gli allestimenti delle esposizioni originarie 
Giuseppe Frangi Alias Domenica 4.3.2018, 6:00 
Uscendo dalla Fondazione Prada di Milano, la sensazione è di aver visto una mostra destinata a essere ricordata a lungo. In realtà sarebbe corretto parlare, più che di uscita di riemersione da un percorso che è come un viaggio nel tempo: in un tempo preciso, quello che va dal 1918 al 1943 e che per l’Italia è contrassegnato dalla tragica esperienza del fascismo.
La mostra, Post Zang Tumb Tuuum Art, life, politics, Italia: 1918-1943 (fino al 25 giugno) sarà certamente ricordata per la quantità di materiali e la qualità dei prestiti ottenuti, a riprova di una grande scrupolosità organizzativa e anche di una notevole potenza di mezzi. Ma c’è un aspetto ancora più rilevante, rispetto a questa strabordanza espositiva, ed è il metodo seguito. Come spiega con una battuta efficace Germano Celant, il curatore della mostra non è lui stessso con la sua squadra: il curatore è la storia stessa. Basta scorrere titolo e titolini che scandiscono il suo saggio in apertura di catalogo, per capire il disegno dell’operazione: «Verso una storia reale e contestuale»; «Mostrare il mostrare»; «L’esposizione d’arte VS l’arte dell’esposizione»; e infine «Un racconto per documenti e un tentativo di visione sferica dell’arte in Italia tra il 1918 e il 1943». Il saggio si chiude con questa dichiarazione d’intenti: «Svolgere un ruolo critico contro la decontestualizzazione espositiva, con la sua pratica di isolamento, funzionale solo all’ubiquità del valor mercantile, per cui l’arte si tramuta in prodotto e in economia». 
Immersione straniante
In sostanza, il visitatore non è semplicemente messo davanti a ciò che in quei decenni in si è prodotto Italia nel campo dell’arte, ma viene introdotto a una riproposta dei contesti espositivi, per verificare come quelle opere erano state concepite e viste: aspetto, questo, che – come Haskell aveva insegnato – non è affatto indifferente alla comprensione delle opere. L’effetto è perciò straniante e insieme immersivo: le pareti sono state tutte coperte di un telo di iuta per scongiurare quella sensazione decontestualizzante alla «white cube». Quasi in ogni spazio ci si trova davanti alla spettacolare ricostruzione fotografica in scala 1:1 delle più importanti situazioni espositive che avevano segnato quei decenni. Lo studio 2×4 di New York che ha curato l’allestimento (e anche la grafica del catalogo, splendido e imperdibile per la ricchezza dei contenuti) ha messo a punto una soluzione sobria nella sua spettacolarità: i contesti espositivi, ricavati dall’ingigantimento di documenti fotografici si sgranano in un grigio elegante, sul quale spiccano le opere avute in prestito, grazie all’energia visiva dei loro colori.
La sequenza cronologica perciò non segue quella delle opere, bensì quella della loro messa in mostra. Per fare un esempio: il Dinamismo di un foot-baller, capolavoro di Boccioni arrivato in prestito dal Moma (pochi dubbi che vada considerato uno dei grandi quadri del secolo), datato 1913, lo troviamo invece all’altezza del 1934: è di quell’anno, infatti, la celebre foto che lo riproduce a Roma nella casa di Marinetti a Piazza Adriana, davanti allo stesso Marinetti intento a dare istruzioni alla sua cameriera. Sul tavolo si scorge una ceramica di Tullio d’Albisola, puntualmente riesposta al fianco del quadro. 
La mostra prende avvio da Marinetti, perché il suo «Zang Tumb Tumb» funziona simbolicamente da post quem (in realtà uscì nel 1912). Dove purtroppo fosse andato velocemente a parare quel vitalismo futurista lo si scopre in una delle sale più choccanti della mostra, quella che propone l’esibizione del gruppo (senza Boccioni, morto nel 1916) alla Terza Biennale Romana nel 1925.
In quell’occasione Giacomo Balla aveva esposto una lunga tela Fascisti e antifascisti quasi raccapricciante per faziosità e anche per qualità: la parete è stata ricomposta con le opere di Benedetta Cappa, di Prampolini, Marinetti e Dottori che l’affiancavano. Nei passaggi di proprietà si è persa provvidenzialmente la cornice di quell’opera, che conteneva una scritta trucemente fascista. Di fronte, ritroviamo il grande pannello con Le mani del popolo italiano, sempre di Balla, in cui la fosca retorica si alleggerisce in un linguaggio da propaganda pop.
Ben diverso il climax di cui si viene resi partecipi davanti alla religiosa disposizione delle opere di Morandi così come erano state esposte alla mostra berlinese dedicata a «Das Junge Italien» del 1921: opere allineate ordinatamente alla base, con spaziature ritmiche e cornici sobrie e tutte uguali che incassettano le tele come dentro delle teche. Anche gli allestimenti privati trovano spazio nel percorso: ad esempio si incontra lo spettacolare ambiente orchestrato a Parigi nel 1928 dal gallerista Léonce Rosenberg, nella casa di Rue de Longchamp. Su un’unica parete campeggiavano le tele del ciclo dei Gladiatori di un De Chirico provocatoriamente anacronistico in sfregio ai surrealisti. L’ambiente era privato, ma l’eco era inevitabilmente e volutamente pubblico. Privati erano anche gli ambienti torinesi di Riccardo Gualino, sofisticato collezionista di arte antica ispirato da Lionello Venturi e mecenate nei confronti degli artisti della sua città, Casorati per primo. La collezione raccolta nella sua residenza, documentata in questo caso da una tela di Jessie Boswell, ebbe però vita breve: Gualino venne travolto dagli attacchi del regime per la sua opposizione alla politica finanziaria di Mussolini e il suo patrimonio fu disperso.
Mettere in mostra le mostre a volte permette di scoprire dettagli niente affatto secondari per la comprensione di un artista. È il caso dell’allestimento che Adolfo Wildt studiò per le sue opere alla Biennale di Venezia del 1922. Lo scultore aveva presentato ben cinquanta opere esposte ai ferri battuti di Alessandro Mazzucotelli. La presenza dei ferri battuti in funzione di supporto obbediva a una precisa strategia dell’allestimento: Wildt voleva dare la sensazione che le sue sculture ondeggiassero leggere nello spazio. Carattere leggero – Anima gentile, un marmo del 1912 poggiava ad esempio su sei aste metalliche dalle linee fluttuanti. Guardandole si capisce quanto quel dispositivo voluto da Wildt avesse potuto influenzare uno dei suoi migliori allievi, Fausto Melotti, per altro tanto diverso da lui. Nel 1935, alla mostra alla Galleria del Milione, Melotti avrebbe infatti rovesciato la grammatica del suo maestro, facendo transitare la leggerezza di quelle aste nella scultura in gesso che si arriccia nello spazio, e giocando a contrasto con un piedistallo a pilastro, solido e ben piantato sul terreno. 
Una leva di propaganda
È un’Italia che amava mostrarsi quella che scorre di sala in sala, a volte anche soprassedendo alle evidenti diversità di cultura e di linguaggi: faceva parte di una strategia del regime, che nelle esposizioni vedeva una leva efficace di propaganda, come conferma la mostra, organizzata senza risparmi di mezzi, per il decennale della marcia su Roma, in cui vennero chiamati a convivere sensibilità opposte come ad esempio quella di Sironi e di Terragni. Ma le mostre erano anche uno strumento per documentare quanto fosse vitale la creatività italiana, concepita senza compartimenti stagni. Scultura, pittura, architettura e arti applicate non solo convivono, ma a volte confluiscono l’una nell’altra. 
Alla Fondazione Prada questa «fusione» spicca in modo sorprendente, proprio perché, per il metodo scelto, tutti i manufatti sono trattati innanzitutto come documenti. Ed è un metodo che alla fine si rivela vincente anche perché svuota completamente quella componente retorica e ideologica, pur così drammaticamente pervasiva nell’Italia di quei decenni.

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