mercoledì 28 febbraio 2018

Lo scandalo della Banca Romana nella letteratura. Il parere del Nostro Toynbee come storico del Risorgimento e dell'unità nazionale

Gabbie romanzesche per lestofanti della politica 
Romanzi parlamentari. Clotilde Bertoni ricostruisce abilmente la rete che, fra cronaca e narrativa, venne tessuta intorno al caso della Banca Romana, fra il 1892 e il 1894, rendendolo emblematico: «Romanzo di uno scandalo», dal Mulino 
Francesco Benigno Alias Domenica 25.3.2018, 6:00 
«Dai cieli d’Italia in quei giorni pioveva fango (…) Tutte le sere, tutte le mattine, i rivenditori di giornali vociavamo per le vie di Roma il nome di questo o di quel deputato al Parlamento nazionale, accompagnandolo con lo squarciato bando ora di una truffa ora di uno scrocco a danno di questa o di quella banca (…) Torbida, fetida alluvione di melma su cui svolazzavano stridendo neri uccellacci, il sospetto e la calunnia». Queste parole di Luigi Pirandello (tratte da I vecchi e i giovani si riferiscono agli anni tra il 1892 e il 1894, il periodo dello scandalo della Banca Romana, il più rilevante della storia d’Italia prima di Tangentopoli. 
Fu una vicenda di enormi malversazioni, ora ripercorsa con eleganza da Clotilde Bertoni in Romanzo di uno scandalo La banca romana tra finzione e realtà (Il Mulino, pp. 382, euro 29,00). L’autrice, studiosa di letteratura, non si limita a fornirci qui una puntuale cronaca dei fatti, ma indaga il modo in cui lo scandalo è stato rappresentato in un particolare genere letterario, il romanzo parlamentare; e attraverso ciò come esso sia diventato emblema dei guasti del sistemo politico italiano. 
Spiegazione del buco
Tutto ebbe inizio con una trama, ovvero con il tentativo di un uomo politico di lungo corso come Giovanni Nicotera di allontanare dalla direzione generale del Banco di Napoli il senatore Gerolamo Giusso, suo fiero avversario. A tal fine fu disposta un’inchiesta su tutti e sei gli istituti bancari che avevano licenza di emissione, vale a dire che possedevano la facoltà di stampare banconote. L’indagine, affidata al senatore veneto Giuseppe Giacomo Alvisi, fece emergere varie irregolarità ma soprattutto rivelò una situazione assai critica alla Banca Romana, in cui un grosso ammanco di cassa (nove milioni) era stato artificiosamente ripianato con banconote «duplicate», ristampando cioè cartamoneta già emessa. 
Al timone della Banca Romana era da tempo un commerciante fattosi banchiere, Bernardo Tanlongo. Vedovo, cattolicissimo, padre di numerosa prole, di costumi frugali e quasi austeri, questi ostentava, insieme a un italiano incerto e a un tratto paternalistico, la radicata propensione al clientelismo e una spiccata capacità di addensare vaste reti di interessi, che includevano il Vaticano e la Casa Reale.
Oltre a ricoprire varie cariche pubbliche e a gestire numerose proprietà del Sovrano, Tanlongo aveva da poco curato la liquidazione della Banca Tiberina, proteggendo così gli interessi dei politici coinvolti e anche quelli di alcune note amanti di re Umberto I. La spiegazione del clamoroso ammanco è semplice: dopo aver finanziato largamente lo sviluppo immobiliare della Capitale egli non aveva saputo, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, governarne la successiva crisi. 
Malgrado l’evidenza dei fatti e l’ammissione dei gravi reati finanziari commessi, la reazione del sistema politico, che era stato da lui ampiamente foraggiato, fu ergere un muro a sua difesa. Non solo la relazione di Alvisi fu annacquata ma, mentre veniva elaborato un progetto di estensione per sei anni del privilegio di emissione, Tanlongo – probabilmente su pressione del Re e forse per dotarlo di immunità parlamentare – venne addirittura nominato senatore. 
Come nei migliori feilleuton, però, la vicenda, che pareva conclusa, ebbe uno sviluppo imprevisto. Malato e avvilito, ma non domo, Alvisi passò la sua inchiesta a un deputato patavino, tale Leone Wollenborg, chiedendogli di divulgarne il contenuto dopo la sua morte. Detto fatto: le carte giunsero così a una pattuglia di deputati di opposizione, radicali, repubblicani e socialisti, uomini come Matteo Renato Imbriani, Napoleone Colajanni e Felice Cavallotti. A seguito della denuncia pubblica avanzata da costoro in parlamento e ripresa con clamore dalla stampa, venne allora istituita una commissione parlamentare d’inchiesta. Malgrado la plateale chiamata a correo della classe politica da parte di Tanlongo («se precipito casco in buona compagnia»), l’indagine si concluse con le dimissioni del governo Giolitti e con il successivo arresto di Tanlongo e di vari altri amministratori. 
Non mancarono gli episodi inquietanti (come la rivelazione dell’occultamento di importanti documenti da parte di personale di pubblica sicurezza), tragici (come la morte di crepacuore dell’inquisito deputato Rocco De Zerbi), o boccacceschi (come la vicenda del commendatore Vincenzo Cuciniello, già celebrato aiutante di Silvio Spaventa nella lotta alla camorra, che aveva rubato per soddisfare un’incontrollabile, senile passione per le donne). 
Come conseguenza di tutto ciò dilagava nell’opinione pubblica la percezione che una stagione, quella gloriosa dell’eroismo risorgimentale, fosse irrimediabilmente finita; facendo spazio a un’epoca volgare, intrisa di meschina vita parlamentare e di corruzione.
Soprattutto si aprì a quel punto la guerra di tutti contro tutti e segnatamente tra Giovanni Giolitti e il suo successore al timone del governo, Francesco Crispi. Giolitti, per ritorsione, fece depositare in parlamento un misterioso plico contenente documenti compromettenti per il presidente del Consiglio, tra cui lettere personali di sua moglie che si diceva documentassero una relazione avuta col maggiordomo. La «macchina del fango» era entrata in azione. 
Mentre Crispi sospendeva le camere, riconvocandole dopo sei mesi, si apriva il processo, che finì per scagionare del tutto gli inquisiti, sorvolando anche sui reati che avevano confessato. Lo scandalo della Banca Romana terminava così con uno scandaloso nulla di fatto. 
Topoi narrativi
Si rafforzò così ancor più la risaliente sfiducia nella democrazia rappresentativa, riproposta ora con la nuova formula – destinata a lunga vita – di «questione morale», e in ciò furono fondamentali una serie di romanzi che ruotarono attorno allo scandalo.
Le attente pagine che l’autrice dedica a testi oggi poco noti – Le ostriche di Carlo Del Balzo, I corsari della breccia di Filippo Colacito, L’assalto di Montecitorio, di Ettore Socci – letti in comparazione con il Rome di Émile Zola, restituiscono il modo con cui la letteratura, nutrendosi della cronaca, corrobora e fissa i topoi su cui si costruiscono narrazioni collettive influenti. Alcuni di questi autori, come Socci e Del Balzo, erano stati politici e anche deputati in quegli anni. Ma i loro romanzi piuttosto che nutrirsi dell’esperienza personale, traendone spunti potenzialmente preziosi, ricalcavano in sostanza la vulgata corrente, utilizzando gli schemi narrativi in voga, ed eternando così l’immagine della classe politica come «grande ladreria».

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