martedì 20 febbraio 2018

Torna "Ombre" di Ernst Gombrich

Risultati immagini per Gombrich: Ombre, Piccola Biblioteca EinaudiErnst H. Gombrich: Ombre, Piccola Biblioteca Einaudi, pp. XXIII-69, euro 22,00

Risvolto
Non gli oggetti che sono nei quadri, ma la loro ombra fa da filo conduttore al volume. Ernst Gombrich ci parla della presenza di qualcosa di incorporeo, che diventa reale solo perché può essere guardato, e quindi rappresentato figurativamente. E nel contempo ci mostra l'importanza di qualcosa che, nell'alternanza di zone chiare e scure, disegna gli oggetti, consentendoci di identificarne la forma. Il celebre storico dell'arte ne mostra la presenza a partire dalla lucidità «scientifica» di Masaccio, per toccare le sottigliezze di Leonardo, fino a collegare le teatrali drammatizzazioni di Rembrandt o Caravaggio alle elaborazioni che appartengono piú direttamente alla nostra esperienza, per esempio nei montaggi suggestivi di De Chirico o nelle ricerche di un fotografo del calibro di Cartier-Bresson, attraversando momenti significativi, come quelli suggeriti da Tiepolo, Guardi, Turner. Questa nuova edizione del saggio è arricchita con numerose illustrazioni a colori e un'introduzione di Nicholas Penny.


Gombrich, sbattimenti alla National Gallery 
Da Einaudi torna "Ombre" di Ernst Gombrich. Nel 1995, in occasione di una piccola mostra a tema della National Gallery, lo storico dell'arte viennese ragionò sull’«ombra portata» in pittura. Una domanda attraversa l’aureo libretto: perché in certe epoche dell’arte occidentale viene messa in discussione la «figura» dell’ombra? 

Federico De Melis Alias DOmenica 18.2.2018, 0:10 
Torna Ombre di Ernst H. Gombrich, nella «Piccola Biblioteca Einaudi» (pp. XXIII-69, euro 22,00), con un’introduzione dell’ex direttore della National Gallery di Londra Nicholas Penny. Nella copertina dell’edizione 1996, collana «Saggi», la lunga sagoma nera, su selciato, di Gombrich che fotografa, spalle al sole declinante, la sua ombra, illustrava, in modo paradigmatico, l’aureo libretto, nato, l’anno prima, come accompagnamento a una mostra a lui dedicata dalla National Gallery, nella Sunley Room. L’allora direttore Neil MacGregor, che firma la prefazione, aveva chiesto a Gombrich di selezionare, con un’attenzione particolare alle collezioni del museo, un piccolo insieme di dipinti atto a spiegare – questo il sottotitolo – La rappresentazione dell’ombra portata nell’arte occidentale. Chi, meglio del sommo studioso delle forme e della percezione visiva e, insieme, del cordiale divulgatore di complessità? E Gombrich, allora ottantaseienne, sembra avere accettato con il divertimento che comporta, dopo una vita di riflessione e di concentrazione, sciogliere in una specie di gioco condiviso, dal sapore enigmistico, una tematica a sé propria, che negli anni della forza intellettuale avrebbe forse implicato ben altro investimento speculativo. Si scusa, nei Ringraziamenti, per non avere potuto trarre profitto, poiché pubblicato troppo tardi (Yale 1995), dal libro di Michael Baxandall Shadows and Enlightenment, poi tradotto in Italia sempre da Einaudi, nel 2003 (Ombre e lumi).
Il saggio di Michael Baxandall
Per questo saggio Baxandall è stato giudicato da qualcuno come l’erede di Gombrich. Ma al contrario di Baxandall, che tenendo per base gli studi settecenteschi sulle ombre, incrociati con le scoperte della scienza cognitiva contemporanea, ambisce al trattato teorico, Gombrich si ritaglia un particolare aspetto della questione, l’ombra portata – vale a dire l’ombra che aggetta all’esterno del corpo producente – nelle rappresentazioni pittoriche. Dalla sua breve casistica tiene fuori dunque, salvo riferirne per chiarire a contrasto, l’ombra quale funzione del chiaroscuro, cioè il secolare utilizzo che i pittori ne hanno fatto per creare volume. Del resto, posta in apertura del libro, la voce «Ombra» tratta da Filippo Baldinucci (Vocabolario toscano dell’arte del disegno, 1681) chiarisce subito le differenze tra «ombra» propriamente detta, cioè «quella che fa un corpo in sé medesimo», «mezzombra», lo spazio intermedio digradante tra lume e ombra che crea, appunto, volume, e – questo il nostro caso – «sbattimento», «l’ombra che vien cagionata sul piano, o altrove, dalla cosa dipinta».
I pittori cinesi, riferisce Gombrich, non dipingevano le ombre, così una domanda, soprattutto, attraversa il suo mazzetto di pagine: come si spiega che anche alcune stagioni della pittura occidentale abbiano messo in discussione l’ombra portata? Il riferimento principe è a Leonardo, il quale nel Trattato della pittura afferma che i pittori biasimano «il lume tagliato dalle ombre con tropa evidenzia» e consiglia, condividendo il pregiudizio dei colleghi, di fare, «in campagna aperta», «le figure non alluminate dal sole», ma schermate da «alcuna quantità di nebbia o nuvoli transparenti». L’autore di Arte e illusione è colpito che Leonardo, pur studiando al dettaglio nei suoi scritti la varietà delle ombre (cui peraltro progettò di dedicare un trattato sistematico, probabilmente mai realizzato) e pur sviluppando nel modo in assoluto più innovativo la tecnica del chiaroscuro (sfumato), si precluda nei dipinti di sperimentare l’intero ventaglio delle possibilità.
In realtà le carte leonardesche che trattano di ombre sono ben più estese delle note confluite nella compilazione di Francesco Melzi, erede di Leonardo, nota come Trattato della pittura. La metà di esse resta sparpagliata in diversi manoscritti autografi dell’artista e Baxandall, attraverso una lettura meticolosa del corpus relativo al periodo 1490-1493, «quando l’interesse di Leonardo per i problemi della visione, della luce e dell’ombra è massimo», ha mostrato come egli suggerisca ai pittori di configurare l’ombra portata secondo i vari tipi di superficie sui quali questa va a cadere. Leonardo, dunque, dà per assodato, o possibile, l’uso in pittura di questo tipo di ombra (non ne esistono brani patenti sulla stessa tovaglia del Cenacolo?), che risulta invece inopportuno, perlomeno «in campagna aperta», nella pagina del Trattato suddetta. Leonardo, ammette Gombrich, non poteva non ammirare effetti di delicatezza sorprendente nell’ombra portata come la proiezione dei capitelli dei pilastri sotto l’azione della luce radente nella Madonna delle ombre (proprio) di Fra Angelico nel chiostro di San Marco.
Resta il fatto che nel Rinascimento, inteso come la generazione di Leonardo, molti maestri, dice Gombrich, considerano le ombre «come elementi di disturbo e di distrazione». Non era stato così, sottolinea, nel primo Quattrocento: lo si è visto con l’Angelico, ma, sempre a Firenze, pietra miliare in questo senso è sicuramente Masaccio nella cappella Brancacci, dove Pietro guarisce lo storpio proprio con la sua ombra portata, mentre nelle Fiandre un finissimo dipinto, Madonna col Bambino in un interno, riconducibile alla bottega di Robert Campin, documenta, nella molteplicità delle circostanze fenomeniche coinvolte, una brillante spregiudicatezza, che ritroveremo solo nel Seicento.
L’estetica tenebrista di Caravaggio
Il secolo dell’ombra portata è infatti, per eccellenza, il Seicento, quando, con Caravaggio, essa diviene costitutiva di un’estetica, l’estetica tenebrista. Gombrich ha qui gioco facile, perché proprio alla National Gallery è conservato il dipinto di Caravaggio più significativo quanto a sbattimenti: la Cena in Emmaus del 1601, che d’altra parte, egli dice, può aiutarci a capire in modo manualistico perché mai tanti pittori del Cinquecento abbiano preferito evitare l’ombra portata. L’ombra che la mano e il braccio di Cristo, nell’atto di benedire, proiettano sul suo stesso corpo, costituisce una clamorosa «interruzione della continuità del modellato della figura». Il Concerto di Hendrik Terbrugghen mostra, nel modo più compiaciuto, come queste interruzioni possano essere cagionate dalle schermature del lume di candela, in un genere fortunato soprattutto nei paesi nordici. Nella Cena caravaggesca i vari oggetti di natura morta che poggiano sul bianco semi-immacolato del desco illustrano un’altra fattispecie di ombra portata: l’ombra congiunta, «proiettata da un oggetto sulla superficie su cui appoggia» (Baxandall la definisce attached shadow, ombra aderente o unita). Tra gli esempi della National Gallery addotti da Gombrich figura naturalmente l’ombra congiunta del cartellino con la firma di Antonello da Messina (e la data, che egli ha convenuto essere 1465 e non 1475) nel parapetto del Salvator Mundi, ma anche quella della mosca sul bizzarro copricapo di un ritratto di donna dipinto, circa 1470, da un anonimo svevo, «trucco a cui André Chastel ha dedicato uno studio specifico» (Musca depicta, «FMR», 1984).
Gombrich, curiosando, vaglia ancora diverse tipologie di ombra portata. Dove questa cade su uno sfondo irregolare (per esempio in Sassetta, Stimmate di San Francesco) aiuta a comprendere la difficoltà per il pittore di rappresentare una proiezione geometrica complessa in mancanza di conoscenze più elaborate (lo stesso Leonardo approccia il problema, scrive Baxandall, in modo «molto empirico e assai poco formale»). C’è il caso in cui «la conformazione dei bordi esterni» delle ombre dà informazioni sulla natura della fonte luminosa (sempre Antonello, San Gerolamo nello studio). Oppure ancora, quando la funzione dello sbattimento è «di accentuare l’impressione generale di luminosità»: la piazza di Berckheyde, l’Arsenale di Francesco Guardi. Anche il modo sottile, sommamente ragionato, con cui Masaccio manovra il gioco delle ombre all’interno del trono nella Madonna in trono col Bambino definisce impeccabilmente, afferma Gombrich, la luminosità dell’intero dipinto. È solo dei grandi maestri la capacità di «sfruttare tramite contrapposizioni attentamente studiate» «gli effetti dei contrasti tonali», poiché «la gamma di sfumature» che hanno a disposizione è minima rispetto alla «varietà di intensità riscontrabili in natura». Qualcosa di vicino alla scienza: e infatti Gombrich, qui, rimanda in nota al primo capitolo di Arte e illusione (1960, in Italia Einaudi 1965), dove aveva studiato il problema a partire da un dipinto di Constable e dalla stessa ambizione dell’artista inglese che la pittura di paesaggio potesse «essere considerata come un ramo della filosofia naturale», cioè della fisica.
È celebre, nel Diario di Delacroix, il giorno in cui egli si rese conto, con meraviglia, che la sua carrozza gialla proiettava sulla neve delle ombre viola. Di qui, ha scritto Dora Vallier, «il colore ha assunto un’estensione e un significato interamente nuovi». Si tratta dell’impressionismo. Peccato che nella disamina di Gombrich entri quasi di sfuggita, solo per un dipinto di Camille Pissarro, artista a lui caro: le tinte delle ombre variano «a seconda dei colori dell’ambiente circostante». Si sofferma un po’ di più sull’ombra portata come creatrice di atmosfera nel genere paesaggio: quando essa, al tramonto, si allunga (Corot, Lorrain); quando è l’emanazione sul terreno di una nuvola vagante (Ruisdael).
Un altro caso riguarda l’ombra di un oggetto che noi non vediamo, che resta fuori dal campo visivo: tra gli esempi trascelti il più eclatante è Golgota: Consummatum est, dove il pittore pompier Jean-Leon Gérôme comunica la morte di Cristo solo mediante le ombre nette delle tre croci con i corpi pendenti che si allungano sul paesaggio roccioso, nell’arancione nerastro dell’ora nona, da una linea di veduta simile a quella di chi guarda il dipinto. Più serio, meno virtuosistico, lo scatto indiano di Cartier-Bresson, dove a proiettarsi dall’esterno è la sagoma di un edificio sacro: unica fotografia presente nell’intero excursus.
Alla fine Gombrich invita il lettore a visitare la National Gallery con l’idea di ricavare una personale antologia di ombre portate (Nicholas Penny lo fa nella stuzzicante introduzione). Prima, però, conserva qualche riga per divertirlo con alcuni esempi fuori legge, dove viene meno «la somiglianza richiesta tra l’oggetto e la sua ombra» e questa viene distorta o trasfigurata a scopo fantastico, moralistico, satirico: un’incisione «teatrale» di van Hoogstraten «che sfrutta l’effetto delle luci di scena», antenata seicentesca degli spettacoli di ombre fino al Museum of the Moving Image; un’altra di van Veen dove Cupido proietta un suo diabolico contraltare; un’altra di Grandville che, «retrocedendo alla moda delle silhouettes» (settecentesca), vede i membri del Gabinetto di Francia trasformati in bestie, i loro vizi. Sviluppi, dice Gombrich, che «non rientrano sicuramente nella nostra sfera d’indagine», ma cari a chi, in una giornata di sole radioso del 1993, a Urbino, mi si presentò, per sottoporsi a un’intervista pierfranceschiana, con sotto il braccio alcune strisce di Mickey Mouse.

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