lunedì 12 febbraio 2018

Tre saggi di Boezio di Dacia

La felicità più alta è la conoscenza: Boezio di Dacia 
Filosofia medievale. Vissuto nel XIII secolo, dalla Danimarca approdò a Parigi alla Facoltà delle Arti, culla dell’aristotelismo. Ora tre sue opere sono tradotte e annotate da Luca Bianchi, per La Vita Felice
Gianfranco Fioravanti Alias Domenica 29.4.2018, 0:38 
Boezio di Dacia: chi era costui che apparentemente porta lo stesso nome dell’autore della più che celebre Consolazione della Filosofia, dell’aristocratico giustiziato a Pavia da Teodorico, presentato da Carducci come l’ultimo martire della romanità contro la barbarie gotica? Dico ‘apparentemente’ perché Boethius è nel nostro caso la trascrizione di un nome assai poco latino: Bo, oppure figlio di Bo. Esso ci rimanda dunque alle nevi dei paesi del nord: Scandinavia e Danimarca, a popoli che, dopo esserne stati il terrore ‘pagano’ , erano diventati parte dell’Europa cristiana, rimanendo però ancora culturalmente del tutto periferici. Da questa periferia, a cominciare dalla fine del XII secolo, partivano, per raggiungere Parigi e qui abbeverarsi al sapere della sua Università, i discendenti di quei capi norreni che due secoli prima avevano sottoposto la città a durissimi assedi.
Boezio di Dacia, cioè, Boezio il Danese, è stato uno di questi; insieme ad altri suoi connazionali, Martino, Giovanni, Simone, Pietro, tutti di Dacia, dopo essere giunto nella città definita dai papi come «madre delle scienze» ha percorso il curriculum di studi dell’Università parigina per diventarvi a sua volta insegnante. La formazione degli universitari parigini cominciava ad un’età per noi molto precoce (non esisteva infatti ancora niente di simile agli odierni Licei): essi si iscrivevano, verso i dodici tredici anni a quella che veniva chiamata Facoltà delle Arti, destinata essenzialmente a fornire una accurata preparazione logico linguistica (grammatica, dialettica e in subordine retorica) affiancata da una meno impegnativa informazione matematico-astronomica: le sette Arti liberali. Si trattava di una Facoltà propedeutica al sapere più alto, quello teologico, dunque una Facoltà di passaggio. Come recitava un detto corrente: nella Facoltà delle Arti non ci si deve invecchiare (Non est senescendum in artibus).
Non è stato il caso di Boezio, come non lo è stato quello del suo collega Sigieri, proveniente da una regione assi più vicina della Scandinavia, il Brabante. La loro carriera è cominciata e finita all’interno della Facoltà delle Arti, senza alcun passaggio alla teologia. E qui entriamo nel vivo del discorso: nei cento anni che precedono la partenza di Boezio dalla Danimarca, attraverso un sempre più attivo e spesso pianificato lavoro di traduzioni, una massa imponente di scritti filosofici e scientifici greci e arabi si era riversata sull’Europa latina. Nessuna delle traduzioni aveva avuto come patria Parigi, ma piuttosto zone periferiche rispetto all’Europa, luoghi appartenenti a culture e anche a fedi diverse: Toledo, Costantinopoli. Ma proprio a Parigi e proprio alla Facoltà delle Arti la sezione più significativa di questa eredità culturale, l’insieme degli scritti filosofici e scientifici di Aristotele, aveva trovato chi li aveva prima assimilati e poi fatti oggetto di insegnamento: dalla metà del XIII secolo fino a tutto il Cinquecento e oltre, il pensiero dello Stagirita sarebbe stato un punto di riferimento centrale per la cultura europea. Da Galileo e Cartesio in poi l’aristotelismo è stato visto come un ostacolo al progresso del sapere, ma il suo arrivo provocò l’entusiasmo di una scoperta. Per la prima volta dalla fine del mondo antico, dalla morte del più famoso Anicio Manlio Severino Boezio, l’ultimo filosofo in Occidente, si aveva a disposizione un sistema coerente dell’universo indagato con metodo razionale: a partire dai molluschi, su su per i diversi gradi dell’essere fino a Colui che immobile move il sole e l’altre stelle.
Molti, anche se non tutti i professori parigini della Facoltà delle Arti si sentirono e si presentarono come gli eredi degli antichi pensatori greci, portatori di un sapere scientificamente fondato che valeva di per sé stesso e non doveva più essere propedeutico a nessun sapere superiore. Si autodefinirono, insomma, filosofi. La rivendicazione di una piena autonomia del fare filosofia fu il loro manifesto, insieme alla affermazione della dignità superiore di chi si dedica alla ricerca della verità razionalmente dimostrabile: una vita, quella filosofica, che, sola, come leggevano nell’Etica di Aristotele, attuava pienamente le potenzialità umane ed era fonte di vera felicità. Boezio di Dacia è appunto uno di questi filosofi, forse il più rappresentativo, sicuramente il più affascinante nel suo coniugare rigore dimostrativo e pathos intellettuale. Tre sono le sue opere più significative a questo riguardo: Il sommo bene, L’eternità del mondo, I sogni.
Nel primo, una vera e propria Ethica more syllogistico demonstrata, Boezio presenta un modello di vita fondato sulla conoscenza razionale delle cose: l’esercizio del pensiero orienta tutta l’esistenza di chi vi si dedica e gli permette di percorrere dal basso in alto tutta la struttura di un universo che sicuramente trascende le singole individualità, ma che è concepito pur sempre come finito e gerarchicamente ordinato nelle sue componenti, fino a raggiungere la Causa prima, principio di movimento e di vita per tutte le cose. In questa conoscenza consiste, per Boezio, la più alta forma di felicità possibile all’uomo in questa vita.
Nel trattato sull’eternità del mondo il nostro autore parte dalla constatazione che, dal punto di vista della filosofia della natura, il mondo non può aver avuto un inizio nel tempo, a differenza di quanto dice la Sacra Scrittura interpretata dalla Chiesa. Questo contrasto è per lui solo apparente. La soluzione offerta viene considerata valida per tutti gli altri casi in cui conclusioni della scienza sembrano contraddire le affermazioni della fede: si tratta di due livelli diversi di verità. Le conclusioni scientifiche hanno un valore all’interno dell’oggetto e del metodo razionale che costituiscono le singole scienze; le affermazioni della fede hanno anch’esse un fondamento razionale: la teoria per cui Dio, come causa superiore, può produrre effetti che vanno al di là della natura stessa. La fede in sé consiste poi nel credere, come Dio stesso ha rivelato, che questi effetti si sono realmente dati (ad esempio l’inizio del mondo nel tempo) o si daranno in futuro (ad esempio la resurrezione dei morti, anch’essa impossibile da un punto di vista fisico). Le verità di fede sono dunque verità in assoluto. Ma quello che Boezio nega con forza è che esse possano interferire nel ragionamento filosofico- scientifico modificandone la natura. Uno scienziato cristiano può quindi rimanere scienziato senza rinunciare ai presupposti e ai metodi della sua scienza. La soluzione offerta da Boezio non fu accettata: probabilmente non fu compresa e sicuramente fu condannata nel 1277 dal vescovo di Parigi nell’ambito di una più ampia condanna di tesi filosofiche in contrasto con la vulgata teologica. Fino a Galileo non si avrà un tentativo così teoricamente articolato di risolvere il contrasto tra scienza e fede (e come sappiamo, anche a Galileo non andò molto bene).
Infine il trattato sui sogni, anche se il più breve delle tre opere tradotte non è il meno interessante: presenta in fatti un esempio di come procede per Boezio l’indagine scientifica. Il sogno viene spiegato in base esclusivamente a coordinate fisiologiche, negando che esso possa essere veicolo di conoscenze non razionalmente fondate, in particolare della conoscenza del futuro attraverso un contatto con realtà non umane, angeliche o diaboliche (anche in questo caso, però, Boezio precisa che negare questo scientificamente non significa negare in assoluto). Bisogna essere grati a Luca Bianchi – uno dei più quotati studiosi di Storia della filosofia medievale e una autorità per quanto riguarda l’aristotelismo dal Medioevo al Rinascimento – di averci dato la possibilità di leggere questi testi in italiano: Boezio di Dacia, Sull’eternità del mondo, Sui sogni, Sul sommo bene (a cura di L. B., La Vita Felice, pp. 276,euro 16,50). La sua traduzione, arricchita di note puntuali, riesce a trasmettere pienamente la struttura di pensiero che li innerva e il pathos che li pervade; l’ampia introduzione generale, accompagnata da una premessa per ognuno dei testi tradotti, ne fa risultare ancor meglio lo spessore sullo sfondo della cultura filosofica europea del XIII secolo.

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