martedì 13 marzo 2018

Assidui elettori del PD e di Vendola riflettono sulla sconfitta del PD e di Vendola ma attaccano soprattutto gli altri


Il grande sconfitto è il mito europeista 
Gianpasquale Santomassimo Manifesto 10.3.2018, 23:59 
A tutti quelli che fanno analisi molto complicate e politicistiche, che ritengono che un certo partito abbia perso barcate di voti per una parolina sbagliata in tv, per un obiettivo errato nel programma, per quel candidato indigesto ecc., va ricordata una semplice verità: che il grosso dell’elettorato si orienta e ragiona in maniera molto più semplice. Se la «sinistra» è divenuta indigesta e invotabile agli occhi degli elettori questo si ripercuoterà a raggi concentrici, da Renzi a Grasso e ancora più a sinistra. 
Le distinzioni che gli appassionati di politica fanno, spaccando il capello in quattro, non hanno alcun valore e non sono intellegibili per l’elettore comune. Si tratta di capire perché vi sia stato un rigetto così ampio e probabilmente definitivo di ciò che è stato considerato «sinistra» negli ultimi decenni. Un fenomeno non sorprendente, e che viene da abbastanza lontano, da un’inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione. 
Non è che mancassero offerte di sinistre possibili, anche molto variegate, se pure di scarsa qualità: a questo punto è mancata la domanda di sinistra, diciamo. Tutta la sinistra (moderata, radicale, antagonista) è stata percepita e giudicata dall’elettorato come parte integrante di un sistema da cambiare. 
Assistiamo anche in Italia all’inabissamento della sinistra liberal che era stata a lungo egemone con la sua visione del mondo. La stessa cosiddetta «sinistra radicale» era stata null’altro che l’ala estrema di questa ideologia diffusa, sensibilissima alle tematiche dei diritti civili e delle battaglie «umanitarie», di fatto inerte sul terreno dei diritti sociali. 
E anche complice della costruzione del mito europeista, che è sullo sfondo il grande sconfitto di questa consultazione. Parte integrante dell’establishment europeista il Pd, molto spesso ascari della «più Europa» i suoi critici di sinistra. 
Non solo euro e regole ci troviamo di fronte, ma anche una ideologia complessiva potentissima e pervasiva, un fronte politico e culturale vastissimo, convinto che «più Europa» sia la soluzione ai problemi che l’Europa stessa ha posto con la sua folle attuazione. Si tratterebbe di affrontare un lavoro di lunga lena per demistificare – come si diceva un tempo – le risultanze di una egemonia costruita con molti decenni di impiego massiccio di risorse culturali, mediatiche, economiche, ma che riposa su basi storiche e teoriche fragilissime, testimoniate da quell’imbarazzante documento che è passato alla storia come «manifesto di Ventotene».
Il problema dell’europeismo di sinistra è che ormai non è più soltanto ideologia sostitutiva di quelle novecentesche crollate nell’89 e non è più solo «religione civile» imposta ai sudditi dall’establishment. Ma ormai è religione vera e propria, con i suoi dogmi, i suoi atti di fede cieca e assoluta, il credo quia absurdum (credo perché è assurdo) e anche una dose massiccia di sacrifici umani. Cominciare almeno a porre il problema, discuterne apertamente e laicamente a sinistra, sarà sicuramente un fatto positivo (oltre che doveroso). 
Senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire. Non mi faccio grandi illusioni, la Repubblica continuerà a delirare su populismo e «sovranismo», la sinistra continuerà a trattare da fascisti e razzisti le masse popolari che esprimono disagio per le loro condizioni di vita, continuerà a discettare di «ossessioni securitarie» e a immaginare che il “multiculturalismo” sia un pranzo di gala privo di lacerazioni e drammi. Si lascerà alla destra la difesa dell’interesse nazionale, e perfino l’esercizio della sovranità costituzionale per la quale avevamo votato il 4 dicembre del 2016. 
«Non ci interessa la sovranità nazionale, siamo internazionalisti» dichiara la dirigente di una lista elettorale che ha preso l’1,1%. Ci si chiede da quando questa posizione, che ignora perfino il significato delle parole, e che sarebbe impossibile spiegare ai cubani, ai vietnamiti, ma anche ai curdi e a qualunque altro popolo, sia diventata luogo comune nella sinistra italiana. 
Anziché evocare il Popolo bisognerebbe cominciare almeno a parlarci. Quando ci si deciderà a farlo non sarà mai troppo tardi.


La sinistra muore perché si è chiusa in se stessa 
Dopo il voto. Sulle ragioni della sconfitta non basta il lamento, serve una spietata autocritica 

Gaetano Azzariti Manifesto 10.3.2018, 23:58 
Terrei ben distinte le questioni dell’attualità politica rispetto a quelle di prospettiva. Nell’immediato bisognerà dare un governo al paese in base ai risultati elettorali. Se si vuole evitare il ritorno alle urne senza nessuna possibilità di un’inversione di tendenza si dovrà giocare di rimessa, con l’unico obiettivo di cercare di non far precipitare il paese nella spirale del peggior populismo xenofobo e salvaguardare alcune casematte della sinistra. 
Si potrebbe provare a condizionare un governo a direzione pentastellata (piaccia o no sono loro ad avere ottenuto il maggior consenso tra le forze politiche organizzate) individuando i temi e le formule di un possibile accordo. In fondo il reddito di cittadinanza e la questione del lavoro, il superamento delle politiche economiche restrittive e la messa in discussione del principio del pareggio di bilancio in costituzione, politiche sociali maggiormente favorevoli ai diritti dei cittadini sono terreni di possibile confronto. Su altri fronti si potrà cercare di limitare i danni cercando di volta in volta una mediazione possibile, sfruttando quel margine di intervento che c’è, vista la non autosufficienza dei 5 Stelle. Non necessariamente ciò deve portare ad un accordo di governo, basterebbe riscoprire il valore dell’attività parlamentare. D’altronde, la fine del bipolarismo dovrebbe portare «naturalmente» a quest’esito. Comprendo che non è facile cambiare passo in parlamento dopo venticinque anni di ubriacatura maggioritaria. Una storia alle nostre spalle che ha teso a considerare «inciucio» ogni possibile «compromesso» politico. 
PER EVITARE ESITI degenerati sono necessari alcuni presupposti che garantiscano gli accordi che si vanno assumendo. In passato bastava la forte legittimazione delle forze politiche e dei loro leader (il Pci e Togliatti non avevano difficoltà a parlare con Giannini dell’Uomo qualunque o con le diverse anime delle Dc), oggi la trasparenza si rende necessaria per rassicurare un popolo – giustamente – diffidente. Dunque, non tanto nelle sedi di partito ma è in parlamento che deve svolgersi la discussione politica. In fondo, tra le cause di degenerazione degli accordi tentati nel più recente passato v’è proprio l’assenza di visibilità. Il patto del Nazareno contratto alla sede del Pd o quello della crostata a casa Letta sono stati definiti nell’ombra e tra leader di partito a titolo privato. In una situazione ancor più complessa che non in passato, con equilibri istituzionali più fragili e forze politiche ben poco riconosciute, rendere pubblici gli impegni raggiunti a seguito di un dibattito parlamentare aperto e trasparente credo rappresenti la maggiore garanzia per conseguire più solide mediazioni politiche. 
NON MI ILLUDO certo che il metodo indicato, che privilegia il ruolo del parlamento, possa portare ad una rivincita della sinistra. Tutt’altro. La sinistra ha perso le elezioni e dunque, almeno nel breve periodo, potrà svolgere solo un ruolo di resistenza. La trincea parlamentare è certamente sguarnita, ma – dal punto di vista istituzionale – non ne vedo altre. 
Preso atto dei ridotti limiti entro cui possono continuare a sopravvivere le politiche di sinistra radicale nel breve periodo, si deve necessariamente anche riflettere sulla prospettiva di più lungo periodo. Interrogarsi attorno alle ragioni della sconfitta storica subita e valutare realisticamente le possibilità di una sua «rifondazione» (termine orribile, abusato e ormai privo di significato, ma non riesco a trovarne un altro). Su questo terreno non basta più il lamento, c’è bisogno di una spietata autocritica. La sinistra non s’è disfatta per colpa degli altri, ma per le proprie debolezze. 
ESSA STA MORENDO perché s’è chiusa in sé stessa. Non riesce più a prospettare un cambiamento reale della vita delle persone, le quali si sentono sempre più abbandonate dalle forze politiche di sinistra. E infatti i «dimenticati» guardano altrove, spesso alla destra populista. Per provare a sopravvivere la sinistra deve smetterla di pensare alle proprie piccole cose, che troppo spesso coincidono con la difesa di rendite di posizione personale e la voglia di regolare i conti solo all’interno delle proprie organizzazioni politiche ormai esangui. Per avere un futuro il pensiero critico deve ricominciare ad interpretare il cambiamento. Non in base a promesse roboanti (ne siamo stati sommersi in questi anni), ma mostrando il coraggio della concretezza. Si potrebbe iniziare cominciando a discutere con chi ha vinto le elezioni di temi che possono far maturare una coscienza anche a sinistra, in fondo un modo per mettere alla prova tutti: la forza degli altri, le nostre debolezze. Chissà che non ne esca qualcosa di buono?

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