mercoledì 23 maggio 2018

"Moravagine" di Blaise Cendrars

Blaise Cendrars: MoravagineAdelphi
Risvolto
Blaise Cendrars è stato definito «il grande avventuriero della letteratura moderna». Da quando scappò di casa, a sedici anni, «la sua vita non ha fatto che cambiare rapinosamente scenari». E molteplici, e rapinosi, sono anche gli scenari che attraversiamo in questo romanzo, una boîte à surprises dalla quale vengono fuori, a ogni pagina, orrori e magnificenze. A farci da guida è un doppio dell'autore, che non per caso porta il nome di un anarchico ghigliottinato nel 1913, Raymond la Science. E un doppio diabolico e allucinato dell’autore è lo stesso Moravagine, ultimo discendente di una famiglia reale, che Raymond aiuta a fuggire da una clinica per alienati e in compagnia del quale vivrà le peripezie più mirabolanti: saranno terroristi nella Russia zarista del 1905, prigionieri degli indios blu sulle sponde dell'Orinoco, volontari nel corso della prima guerra mondiale... Moravagine è la «grande belva umana», «amorale», «fuorilegge», un essere che incarna la follia e il male, che uccide «spesso per puro divertimento», di preferenza giovani donne, e teorizza che «tutto quanto è solo disordine» e che chi ha paura del disordine ha paura della vita stessa: la quale non è altro che «delitto, furto, gelosia, fame, menzogna, sborra, stupidità, malattie, eruzioni vulcaniche, terremoti, mucchi di cadaveri», e che non esiste verità, ma solo l'azione, «l'azione effimera», «l'azione antagonista». Tra digressioni fascinose, anse maestose, deviazioni fulminee, veniamo irresistibilmente trascinati da una scrittura che, come rilevò la critica del tempo, possiede una «prodigiosa potenza pittorica, un misto di crudeltà, sensualità e lirismo» – uno stile la cui sfrenata libertà continua a vibrare. 
Il protagonista del classico di Blaise Cendrars mette in scena il caos più estremo per distruggere i luoghi comuni 
Massimiliano Parente Giornale - Mar, 22/05/2018

Cendrars, avventure conturbanti della libido Novecento francese. Dalla Russia zarista agli indios dell’Orinoco: nuova versione Adelphi per «Moravagine» (1926), il misogino e sadico romanzo di Blaise Cendrars Pasquale Di Palmo Alias Domenica 27.5.2018, 0:58
«Io non intingo la penna in un calamaio ma nella vita» scrisse Blaise Cendrars (1887-1961), pseudonimo di Frédéric Louis Sauser, nelle Rapsodie gitane. Nato nella Svizzera romanda, sorta di Django Reinhardt della poesia, funambolo di una parola coniugata a vicende biografiche avventurose e spesso grottesche, Cendrars riuscì, attraverso la pubblicazione di libri capitali come Les Pâques à New York (1912), La prose du Transsibérien et de la Petite Jeanne de France (’13) e Dix-neuf poèmes élastiques (’19), a sovvertire i canoni della lirica novecentesca francese, avvicinandoli a quelli configurati da artisti dirompenti come Picasso, Modigliani e Léger. Quasi un corrispettivo in versi della simultaneità e della scomposizione della figura operata in quegli anni dai cubisti o dai coevi procedimenti cinematografici (Cendrars lavorò a lungo come sceneggiatore e regista). Ma nonostante frequentasse abitualmente i pittori citati e fosse legato all’antesignano delle avanguardie storiche Guillaume Apollinaire, Cendrars si può considerare un isolato, un eretico, un outsider che si rifiutò di aderire a qualsiasi precetto teorico, finanche a quelli di movimenti non distanti dalla sua poetica – si pensi al futurismo, al dadaismo, al surrealismo –, in virtù di una quasi endemica tendenza alla sperimentazione tout court e a un nomadismo che non poteva che rivelare tutta la sua incontenibile irrequietezza.
D’altronde la poesia di Cendrars, come osservava Luciano Erba, «di meno in meno sopporta l’a capo» e un’antologia poetica «dovrebbe, a rigore, comprendere molte e molte pagine trascelte dall’opera di romanzo dell’autore».
Ben venga dunque la riproposta del romanzo Moravagine (Adelphi «Biblioteca», pp. 256, € 18,00), presentato nell’impeccabile traduzione di Leopoldo Carra, originariamente uscito nel 1926 presso Grasset, stesso editore di L’Or, edito l’anno prima. Moravagine aveva conosciuto una precedente versione italiana per Serra e Riva nel 1981, a cura di Sergio Sacchi, ristampata negli Oscar Mondadori un decennio più tardi. Si tratta di una vicenda dai tratti paradossali e conturbanti, tutta giocata sul ruolo del «doppio» dello scrittore e, come tale, dal retaggio fortemente autobiografico (anche se qui si intende un’autobiografia sui generis, contaminata da una tendenza all’astrazione, alla visionarietà che spesso sconfina nella vera e propria allucinazione a occhi aperti). A farci da guida è un doppio dell’autore contrassegnato dall’iniziale «R.», ispirata a Raymond la Science, amico di Victor Serge, anarchico ghigliottinato nel 1913 che faceva parte della famigerata banda di Jules Bonnot. Questo personaggio aiuterà Moravagine, «grande belva umana» e femminicida seriale, a fuggire da una clinica per alienati accompagnandolo in una serie di avventure che si svolgono nei posti più disparati del pianeta.
Si descrivono così le mirabolanti peripezie di questi due amici che, di volta in volta, diventeranno terroristi nella Russia zarista, prigionieri degli indios blu sulle sponde dell’Orinoco, volontari nel corso della prima guerra mondiale. A queste due figure centrali se ne aggiungeranno altre: la sovversiva ebrea lituana Maša Uptšak che, messa incinta da Moravagine, sospettata di tradimento, verrà trovata impiccata nel vagone di un treno, con un «feto ghignante» tra le gambe; il faccendiere Lathouille che li guiderà durante il viaggio nel continente americano; lo stesso Blaise Cendrars che appare, in uno spiazzante cammeo inserito negli ultimi capitoli del libro, nelle veci di aiutante costruttore di aerei dell’inventore Champcommunal in un hangar di Chartres. Come in molti altri testi dello scrittore svizzero viene rievocata la perdita del braccio, subita a causa di una scheggia di granata a Chalons-sur-Marne (si veda La Main coupée, il suo romanzo forse più famoso, riportato brillantemente in italiano da Caproni, in cui si descrivono le vicissitudini occorse tra le trincee, durante il periodo trascorso nella Legione Straniera).
Osserva il curatore nella postfazione: «Questo libro è dunque una grande commistione tra realtà e fantasia. (…) La commistione è qui esibita, rappresenta forse la cifra fondativa del modo stesso di narrare. Con un vezzo peculiare, da parte di Cendrars: l’estrema, puntigliosa precisione nel riportare nomi e datti fattuali. Si pensi, per esempio, alla terminologia medica del primo capitolo, o alla toponomastica russa, alla menzione degli eventi che precedettero la rivoluzione d’Ottobre. Come a tutti i vocaboli relativi alle tribù del Messico settentrionale e del bacino dell’Orinoco (usanze, vestiti, strumenti musicali, imbarcazioni, totem, malattie, piante, animali…)». Sia R. sia Blaise Cendrars sono personaggi complementari che si configurano come alter ego dell’autore. Si consideri al riguardo l’esperienza comune della perdita di un arto in combattimento: rispettivamente una gamba e il braccio destro. Questo gioco di scatole cinesi rimanda a un’ambiguità identitaria che si sviluppa durante tutta la trama del romanzo. Lo stesso Moravagine, incarnante la proiezione di una libido dai tratti sadici e dissennati, rimanda, oltre che allo stesso autore, al profilo di Adolf Wölfli, artista geniale ma sessualmente deviato. Wölfli, conosciuto da Cendrars nel 1907 in un ospedale psichiatrico, è stato riscoperto dopo la morte da Dubuffet, indiscusso artefice dell’art brut che si proponeva di valorizzare l’espressione artistica nei bimbi e negli alienati.
La tendenza a enumerare, a inventariare in una lunga serie di nomi le situazioni descritte («Miliardi di efemere, di ciliati, di bacilli, di alghe, di lieviti, sguardi, fermenti del cervello») costituisce una sorta di antidoto alla narrazione di tipo naturalista. Un altro motivo che serpeggia nel libro è quello della misoginia che cadenza l’opera medesima di Cendrars: Moravagine (che suona più o meno come «morte alla vagina») non fa che infierire dal primo all’ultimo capitolo sopra le sue vittime, di preferenza bambine o adolescenti, senza incontrare una parola di sdegno da parte del suo sodale. Si snodano, come avverte il curatore, «immagini uterine, inquietanti rappresentazioni di feti e psicoanalitiche spie di una temuta castrazione». Non di rado si approda a una visionarietà che sembra derivare da certi scorci teratologici che contrassegnano i dipinti di Bosch o Bruegel: «Ogni pietra si mise a girare, a dibattersi, a sradicarsi. Smorfie, bocche spalancate, rigide corna si proiettavano verso di me. Da ogni fessura sgorgavano fiotti di larve, da ogni buco insetti mostruosi, armati di seghe, mandibole, chele gigantesche. Il muro saliva, scendeva, vibrava, sussurrava. Grandi ombre penzolavano in avanti. Affreschi, bassorilievi sfilavano di fronte ai miei occhi, scene di miseria e di lutto, di tortura e crocifissione. E le ombre penzolavano in avanti come cadaveri di impiccati. Mi ribaltavo nel letto. Chiudevo gli occhi».
Sembra che il lirismo cosmopolita di Cendrars abbisogni, per manifestarsi, dell’effetto a tutti i costi, del tentativo di sorprendere il lettore in base all’adesione alle regole più ciniche e arbitrarie dell’esistenza: «Ma tutto quanto è solo disordine, amico mio. Disordine i vegetali, i minerali e le bestie; disordine la moltitudine delle razze umane; disordine la vita degli uomini, il pensiero, la storia, le battaglie, le invenzioni, il commercio, le arti; disordine le teorie, le passioni, i sistemi. È sempre stato così. Perché volete mettere ordine? Quale ordine? Che cosa cercate? Non esiste verità. Esiste solo l’azione, l’azione che obbedisce a un milione di moventi diversi, l’azione effimera, l’azione che subisce tutte le congiunture possibili e immaginabili, l’azione antagonista. La vita. La vita è delitto, furto, gelosia, fame, menzogna, sborra, stupidità, malattie, eruzioni vulcaniche, terremoti, mucchi di cadaveri». Con buona pace di teologi e razionalisti.

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