lunedì 14 maggio 2018

Morin sessantottino e due nuovi libri


L’ignoto è nel cuore del conosciuto 
Saggi. Due libri di Edgar Morin: il nuovo «Conoscenza Ignoranza Mistero», per Raffaello Cortina e «Lo spirito del tempo», uscito nel 1961 e ripubblicato da Meltemi 

Marco Pacioni  Manifesto 13.6.2018, 0:05 
Della prolifica attività di Edgar Morin sono da segnalare due libri apparsi di recente in Italia. Il primo, Conoscenza Ignoranza Mistero (traduzione di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, pp. 148, euro 13), è nuovo e costituisce un compendio delle idee più importanti attraverso le quali il Morin epistemologo ha indagato e descritto la scienza e la conoscenza. Il secondo, Lo spirito del tempo (a cura di Andrea Rabbito, intr. di Ruggero Eugeni, nuova traduzione di Vinti e Boschi, Meltemi, pp. 339, euro 20), è invece un libro che ha visto la sua prima edizione nel 1961 e ha attraversato gli studi culturali e sociali diventando un riferimento imprescindibile. 
SIA NELLA SCIENZA che nella cultura Morin ha sempre combattuto determinismo e riduzionismo. Per Morin la conoscenza si muove nella complessità e la cultura, in particolare quella di massa, è caratterizzata dall’ambivalenza. La sua posizione si è sempre differenziata da quella di apocalittici dell’industria culturale come Adorno, Horkheimer, Macdonald. Morin non è stato il solo a puntare sulle articolazioni concettuali invece che sulle separazioni categoriche nel descrivere scienza e cultura. Analoghi tentativi, per esempio, sono stati quelli di Barthes, Kuhn, Popper, Eco. 
VI SONO tuttavia delle peculiarità in Morin che vale la pena sottolineare approfittando di questi due libri, così lontani fra loro nel tempo e nell’oggetto, ma proprio per questo rivelatori di nodi comuni cruciali. Mentre in studiosi come quelli citati prima la dialettica della contrapposizione fra scientifico e irrazionale, cultura e incultura è superabile mettendo in evidenza il rapporto fenomenologico delle coppie dialettiche, che però così rimangono dentro lo stesso schema contrappositivo, in Morin è proprio lo schema a cambiare, ad andare oltre i dualismi e la relazionalità.
In Conoscenza ignoranza mistero vi è una frase particolarmente rivelatrice di questo atteggiamento: «L’ignoto è nel cuore del conosciuto», cioè non all’esterno, come l’opposto che fronteggia minaccioso la scienza. 
È PERCIÒ MISTERIOSO conoscere perché quello che conosciamo non riesce a farci dominare tutti i passaggi del processo attraverso il quale arriviamo a comprendere. Cruciale nell’epistemologia della complessità di Morin è che la combinazione delle diverse componenti di un fenomeno non è mai uguale alla considerazione separata di esse.
Tuttavia non semplicemente nel senso che basti pensare la conoscenza come un plesso nel quale si distinguono relazioni di elementi che rimangono inalterati, ma più radicalmente come un complesso nel quale le relazioni possono mutare i loro costituenti e far «emergere» risultati diversi. 
NIENTE E NESSUNO può riuscire a trarsi fuori dalla complessità, neanche l’ignoto come si è detto, e men che meno il soggetto che conosce. Per questo anziché pretendere di rimanere distaccati, occorre partecipare a ciò che si cerca di comprendere. Lo spirito del tempo reca traccia di tale modo partecipato di conoscere anche nella scrittura, piena di invenzioni terminologiche e dotata di una sintassi acrobatica che pare competere proprio con la complessità dei fenomeni analizzati.
Una scrittura diversa dal modello geometrizzante della prosa cartesiana e più vicina all’affilato saggismo di derivazione montaigneana. Di non minore influenza in questa scrittura è il montaggio dell’amato cinema che è anche una delle fonti dalle quali Morin deriva le trasformazioni della cultura di massa.
Il ruolo del cinema in Morin è sottolineato dai curatori della nuova ottima traduzione dello Spirito del tempo, quale elemento che ha dato impulso ai visual culture studies. Certamente la visualità e l’immagine sono presenti in Morin, ma forse in un modo non così rappresentativo e precorritore della culturologia della visualità. 
IL CONTRIBUTO di Morin va oltre il rinnovamento metodologico e tocca almeno due grandi questioni nella scienza e nella cultura di oggi. Rispettivamente quella dell’inseparabilità di epistemologia e ontologia e quella dello spettacolo quale ritualità che produce effetti, oltre che nella cultura, anche nella politica e nel discorso della comunità scientifica. L’attualità di Morin va cercata in quell’ipercomplessa e partecipata critica dell’ideologia che a suo tempo si era già nutrita dello Spirito del tempo e della complessità e cioè quella sviluppata da Debord nella Società dello spettacolo.

Uno spartiacque nel potere costituitoEdgar Morin. «Maggio 68. La Breccia», del filosofo francese per Raffaello CortinaAlessandro Santagata Manifesto 13.6.2018, 0:04
Come era prevedibile, la ricorrenza del cinquantenario del Sessantotto ha già riempito gli scaffali delle librerie. Molta memorialistica, numerose ristampe, nuove edizioni; e qualche studio originale. È ancora presto per tirare le somme, ma risulta già evidente la riproposizione di schemi interpretativi ormai consolidati e spesso figli delle polemiche che hanno scandito gli ultimi decennali. La memoria del Sessantotto rimane un campo aperto e conflittuale, sebbene depotenziato dalla crisi complessiva che ha investito l’eredità dei long sixties a tutti i livelli.
IN UN BEL LIBRO del 2008 (Le Moment 68, Seuil) la storica Michelle Zancarini-Fournel ha illustrato i passaggi di questa «storia contestata», mettendo in luce la parabola del Sessantotto nella memoria pubblica francese: dalla «vittoria culturale» della generazione delle barricate alla demonizzazione, che ha assunto le sembianze di un processo ai soixante-huitards. Si inseriscono nella primissima stagione, quella delle razioni «a caldo», i due articoli di analisi pubblicati da Edgar Morin su Le Monde tra maggio e giugno 1968 e successivamente raccolti nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, nel quale comparivano anche contributi di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.
Morin sarebbe tornato a scrivere del Sessantotto in occasione del primo decennale e nuovamente nel 1986 sulla rivista Pouvoirs. Entrambi i testi sono stati integrati nelle successive edizioni e ora tradotti in italiano da Raffaello Cortina Editore: Maggio 68. La Breccia, a cura di Francesco Bellusci (pp. 124, euro 11).
Nella prefazione, datata gennaio 2018, Morin ricorda i mesi trascorsi a Nanterre – dove era stato chiamato a sostituire per un breve periodo Henri Lefebvre –, le visite a Jussieu, alla Sorbona, nel cuore della protesta parigina. «Diversamente dai trotzkisti, dai maoisti, ecc, che pensavano che stesse per cominciare una rivoluzione – commenta – noi pensavamo che si trattasse di una breccia. Qualcosa che stava per affermarsi come una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della civiltà borghese occidentale».
LA TESI DI FONDO, rimasta invariata nel tempo, è che l’anima del movimento fosse, in sostanza, «sovra e infra-politica». Il taglio interpretativo generazionale – l’idea di una «lutte de classe d’âge» di carattere internazionale – sarebbe stato avvalorato dagli eventi degli anni Settanta, quando «l’ideologia che è stata sovraimpressa sul maggio ’68 si è dissolta» sotto i colpi dei nouveaux philosophes, della debolezza del comunismo globale, degli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Del Sessantotto si sarebbe conservato invece il suo spirito, a tal punto da considerarlo una vera e propria svolta antropologica, una «liberazione dei costumi» rimasta viva nel nuovo femminismo.
MORIN RIGETTA quindi la tesi del ’68 come puro e semplice adattamento alla modernizzazione neocapitalistica. Leggendo i testi nella loro successione storica è possibile rintracciare alcune oscillazioni nell’analisi e ricostruire le tappe della sua evoluzione. Nei primi due articoli, infatti, sembra prevalere l’esigenza polemica nei confronti di due modelli interpretativi: quello di Raymond Aron e di parte dell’establishment, che riduce la protesta a un problema di anacronismo della struttura universitaria, e quella dei «gruppuscoli» dell’estrema sinistra. Per Morin, il ’68 sarebbe nato invece da un’elettrolisi, a partire da due poli estremi: da una parte sì l’inadeguatezza dell’università rispetto alla pressione demografica, ma dall’altra il rifiuto degli studenti verso un sistema modellato sulle carriere tecnico-burocratiche.
Il filosofo-osservatore descrive la lotta sulle barricate come un «gioco», anche se ad altro rischio, che avrebbe permesso a una generazione di compiere un ingresso alternativo nella società adulta. I gruppi rivoluzionari non rappresentano per lui che un’eccedenza, un di più, ma strategico perché permette la fraternizzazione tra studenti e operai, iscrivendo così il movimento nell’asse rivoluzionario della storia francese. L’apporto dell’estrema sinistra diventa invece negativo nella fase discendente del movimento, cioè quando «le parole “rivoluzione” e “classe operaia” ridiventano parole mana» e la crisi viene (rapidamente) riassorbita dal potere.
NEL SAGGIO del Settantotto Morin ha approfondito il nodo dell’eredità di quel gauchisme che ha frantumato definitivamente il modello del maschio bianco, adulto e borghese. A suo giudizio, gli anni Settanti hanno visto l’emergere di una «dialettica progressiva-regressiva della cultura di sinistra»: avanzamento sul piano dei diritti, ma crisi della coscienza di classe. Come arriverà a scrivere nel 1986, il ’68 sarebbe stato dunque il primo stadio di una rottura che si è manifestata definitivamente solamente tra il 1973 e il 1978. Sia chiaro che Morin rigetta la tesi di chi imputa al Maggio di essere la matrice dell’«individualismo edonistico» dell’età neoliberale; una interpretazione, quest’ultima, diventata mainstream negli ultimi vent’anni. Rimane aperto ancora oggi invece il problema del rapporto tra protesta e modernizzazione. Come risulta anche dalla storiografia più recente, è evidente che il Sessantotto non è riducibile solamente al gauchisme e che il rapporto con la trasformazione sia stato complesso e contraddittorio. Nello stesso tempo, però, è ormai chiaro che la scissione tra la natura politica e quella socio-culturale del Sessantotto è stata funzionale a chi intendeva spezzare il legame tra la protesta e la storia del movimento operaio, operando così una forzatura interpretativa e, soprattutto, politica.

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