venerdì 25 maggio 2018

Philip Roth



Con Philip Roth muoiono due terzi delle pagine culturali di Repubblica ma anche del Sé ideale dei suoi redattori, tutti in cuor loro un po' ebrei newyorkesi e liberal [SGA].



23 Maggio 2018 Repubblica Bignardi

Philip Roth, addio allo scrittore che credeva solo alla letteraturaÈ morto martedì a 85 anni il grande autore americano, più volte candidato senza successo al Nobel. Nella sua opera l’insoddisfazione esistenziale rasenta spesso la disperazioneAvvenire Alessandro Zaccuri giovedì 24 maggio 2018



Morto il romanziere che trasformò l'eros in comicità grottesca. Ottenne il Pulitzer con "Pastorale americana". Nel 2012 si ritirò
Giuseppe Conte - Gio, 24/05/2018


Philip Roth, le ossessioni che fecero grande uno scrittore per sempre nel canone 

Protagonisti. È morto a 85 anni per insufficienza cardiaca. Da sei aveva annunciato il suo addio alla letteratura. Figlio di immigrati galiziani di origine ebraica, era nato nel 1933 a Newark, luogo elettivo del suo sarcasmo 

Luca Briasco  Manifesto 24.5.2018, 0:05 
Se si vuole sintetizzare in una circostanza specifica la prodigiosa carriera di Philip Roth, è probabile che la si debba individuare nell’assegnazione del premio Pulitzer per la narrativa del 1998. I giurati si trovarono a dover scegliere tra quelli che rimangono forse, nella memoria collettiva, i due più grandi romanzi americani degli ultimi vent’anni. A vincere fu Roth, con Pastorale Americana, mentre il grande sconfitto fu Underworld, di Don DeLillo. Prescindendo da qualunque valutazione di ordine qualitativo – probabilmente inutile, di fronte a opere di questa portata – il successo di Roth ha tanto più oggi il valore di un vero e proprio spartiacque: a perdere la contesa, con Underworld, fu il romanzo-mondo, il megathon novel erede di una gloriosa tradizione che include alcuni capisaldi del postmoderno come Le perizie di Gaddis o L’arcobaleno della gravità di Pynchon; a prevalere, con Pastorale americana, fu essenzialmente un romanzo di famiglia, nel quale Roth si confrontava ad armi pari con l’amico e rivale John Updike ma soprattutto inaugurava una vera e propria «nuova tradizione», che ha nel Jonathan Franzen delle Correzioni e di Libertà o nel Jonathan Safran Foer di Eccomi i suoi esponenti più convinti. 
Pastorale americana rimane oggi, a trent’anni da quel Premio Pulitzer, il libro più letto di Roth – e il più amato, insieme a Lamento di Portnoy e (forse) a Il teatro di Sabbath, anche se la fama dell’autore si era già consolidata in precedenza, se è vero che nel 1994 Harold Bloom aveva incluso ben sei suoi titoli all’interno del proprio Canone occidentale. Per comprendere il fascino e la centralità di Pastorale, anche a prescindere dalla «leva» immediata rappresentata dal conferimento del Pulitzer, è allora necessario ripensarne la struttura, le dinamiche interne e la collocazione all’interno della traiettoria dell’autore. 
UN PERCORSO NARRATIVO, quello di Roth, particolarmente complesso, segnato da irrequietudini, spinte sperimentali e da un dialogo costante con la cultura e le tendenze letterarie di un cinquantennio e più. Erede e al tempo stesso decostruttore della tradizione ebraico-americana, Roth aveva contribuito – soprattutto nella prima fase della sua carriera, o quanto meno a partire da Lamento di Portnoy – a introdurre uno dei temi fondamentali del dibattito sul nuovo sperimentalismo che avrebbe dominato tutti gli anni Sessanta e buona parte dei Settanta. Il realismo di maestri quali Bellow e Malamud gli appariva non tanto contestabile per motivazioni formali, quanto superato e reso inattuale dallo sviluppo stesso della società americana, contraddistinta da un’inarrestabile velocizzazione delle relazioni come della trasmissione dei messaggi culturali, e dalla conseguente frammentazione e dispersione dell’identità. Identità che, in molti dei migliori romanzi di Roth, ci viene presentata attraverso il filtro dell’ossessione erotica e del sesso, in un percorso di indagine nel quale la polemica contro il perbenismo della società americana, il perseguimento del piacere e la scoperta di sé coincidono e si rafforzano a vicenda. 
Questa posizione critica si era tradotta nello slancio sperimentale che Roth aveva introdotto progressivamente nella sua stessa opera, e che aveva trovato nella tetralogia di Zuckerman – con il suo raffinato intarsio tra fiction e autobiografia –, nella furibonda esuberanza de Il teatro di Sabbath e nel folle gioco di doppi e sosia su cui è incentrato Operazione Shylock i suoi momenti più intensi e convincenti. 
In Pastorale si respira invece un curioso sentore di classicità. Il romanzo è prima di tutto la storia di una famiglia ebreo-americana e di un predestinato: Seymour Levov, detto lo Svedese, un uomo che dovrebbe aver avuto tutto, dalla vita. Alto, biondo, occhi azzurri: un aspetto fisico che sembra negare la sua stessa origine ebraica e aprirgli la via di una facile integrazione. Atleta impareggiabile, eroe del suo liceo, lo Svedese eredita la fabbrica di guanti del padre e si sposa con la reginetta del New Jersey, cattolica e irlandese. 
UNA STORIA DI SUCCESSO che va però a urtare contro un evento destinato a trasformare la pastorale americana del titolo in tragedia: l’attentato a un ufficio postale in cui un uomo perde la vita e di cui è responsabile la figlia dello Svedese: Merry, una ragazza complessata, indocile e ribelle, pronta a contestare alla radice il sogno integrazionista e democratico che il padre era ormai a un passo dal consolidare. 
Il conflitto generazionale è l’unica chiave di lettura degli eventi: almeno dalla prospettiva di Seymour, che mostra ben poco interesse per le ragioni e i torti della protesta anti-Vietnam cui Merry aderisce, e legge l’attentato come l’interruzione di una catena virtuosa, «la perdita della figlia, la quarta generazione americana… La figlia che lo sbalza dalla tanto desiderata pastorale americana e lo proietta in tutto ciò che è la sua antitesi e il suo nemico, nel furore, nella violenza e nella disperazione della contro pastorale: nell’innata rabbia cieca dell’America.» 
Ora, però, c’è un punto che spesso, e proprio per l’intensità, la forza e la classicità della saga dei Levov, tende a sfuggire, quando si parla di Pastorale americana: anche in questo caso, il romanzo ha un narratore interno, e non uno qualsiasi, bensì quello stesso Nathan Zuckerman che Roth aveva messo al centro di alcuni tra i suoi libri più feroci e sulfurei, come Zuckerman scatenato e La lezione di anatomia. Compagno di scuola di Jerry Levov, il fratello minore di Seymour, Nathan è vissuto nel mito dello Svedese, ma è anche terrorizzato dalla sua perfezione, dall’apparente assenza, nell’eroe, di quella «macchia umana» (per citare il titolo del successivo romanzo di Roth) senza la quale non si dà progressione narrativa, tanto meno tragedia. 
Per arrivare a raccontare «la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti», Zuckerman è allora costretto a elaborare le poche informazioni raccolte sul conto dello Svedese e trasformarle in una «cronaca realistica», rinunciando a qualunque slancio metanarrativo. La soggettività dello Svedese, inventata e creata a partire dall’illeggibilità della sua perfezione, si apre al caos della storia, subisce la rivolta generazionale, vede la sua pastorale trasformarsi in contro pastorale. 

QUELLA DI ROTH si configura dunque come una scelta deliberata: a partire da Pastorale (e proseguendo con La macchia umana e Ho sposato un comunista) si compie un’opera di sistematica ricodificazione dei temi già affrontati nelle opere precedenti, nella quale all’esplorazione diretta della scena contemporanea si sovrappone la rievocazione nostalgica di un tempo e di un sistema di valori e sogni ormai irrecuperabili. Di questa ricodificazione, che ha peraltro sancito in via definitiva l’ingresso di Roth nell’Olimpo dei classici, è testimonianza una serie di romanzi strutturalmente perfetti e sorprendentemente armoniosi, spesso imperniati su una qualche forma di conflitto generazionale e lontani dalla frenesia e dalla furibonda inventiva delle opere precedenti: serie che trova nelle due ultime opere, Indignazione e Nemesi, e nel silenzio che le ha seguite fino alla morte dell’autore, il proprio naturale compimento.

La scomparsa di Philip Roth. Sfila il corteo delle sue incarnazioni, fantasmatici eroi del nostro tempo 

Protagonisti. Alex Portnoy, David Kepesh, Peter Tarnopol, Nathan Zuckerman: tutte le anime del grande scrittore

Francesca Borrelli Manifesto 23.5.2018, 23:59 
Ora che l’addio alla letteratura di Philip Roth è senza possibilità di ripensamenti, i suoi alter ego sfileranno, fantasmatici eroi dei nostri tempi, davanti alla sua bara nell’ordine con cui sono apparsi via via nei romanzi in cui hanno preso vita: per primo Alex Portnoy, che forse cambierà per l’occasione la natura del Lamento di cui Roth lo aveva reso protagonista nel 1967 e, balzato fuori dal romanzo, si materializzerà davanti al suo creatore. Certo, oggi è un po’ invecchiato, ma quando fece la sua entrée sulla scena del mondo editoriale Portnoy vestiva con una certa sfacciataggine i panni dell’ebreo erotomane e ipocondriaco, impegnato a raccontare nel suo incontenibile monologo indirizzato a un analista, le frustrazioni della sua miserevole vita, passata a inseguire ragazze gentili sulle quali riversava, senza mai appagarle, le sue smodate esigenze sessuali. «Dottore – gli fece dire Philip Roth – forse gli altri pazienti sognano le cose…a me succedono. Ho una vita senza contenuti latenti». Povero Portnoy, che avrebbe concluso la sua esistenza rappresentandosi a se stesso come il degno «protagonista di una barzelletta ebraica». 
Dopo di lui, ancora animato da una certa baldanza, sfilerà a dolersi della scomparsa di Philip Roth la più lasciva delle sue ombre, David Kepesh, che esordì all’avventura letteraria trasformandosi… in un seno. Il fatto, increscioso per quanto corrispondente a desideri reconditi, avveniva nel corso di un racconto datato 1972, quando una «esplosione ermafroditica di cromosomi» aveva mutato l’esimio professor Kepesh in una enorme mammella: un metro e ottanta di stazza trasformati in una montagna adiposa, come la si potrebbe immaginare su una tela di Dalì. Cinque anni più tardi, recuperata la sua fisionomia umana e un certo status sociale, David Kepesh sarebbe tuttavia tornato a ribadire la natura del proprio animo in un romanzo non a caso titolato Il professore di desiderio, che Philip Roth dedicò alla sua compagna di allora, Claire Bloom, l’attrice resa celebre da Chaplin in Luci della ribalta. 
Tra quelle pagine Kepesh compariva come il protagonista di un lento apprendistato che avrebbe dovuto portarlo a coniugare appetiti erotici e sentimenti, finché Roth, abbandonato il suo smagliante sarcasmo, si era preso l’estrema soddisfazione di regalare al suo alter ego il lusso della felicità domestica. Ma non durò a lungo, e presto Kepesh si ricongiunse al destino malevolo che Philip Roth aveva predisposto per lui. Dopo avere esordito nel ruolo di una mammella, avrebbe concluso la sua parabola come protagonista di un romanzo, L’animale morente, in cui ormai ultrasessantenne si innamorava di una magnifica ragazza cubana di ventiquattro anni, che si sarebbe ammalata di un cancro al seno. Ora che le sue tribolazioni sono finite, Kepesh sfilerà davanti a Roth per ricevere dal suo cadavere l’ultima virtuale benedizione, poi si ritirerà tra le pagine dei libri di cui è protagonista, quei libri in cui ha tante volte trovato soddisfazione ai suoi desideri. 
TERZO TRA GLI ALTER EGO, piegato sotto il peso di sofferenze che non erano le sue, comparirà davanti alla salma dello scrittore americano la figura di Peter Tarnopol: verrà fuori dalle pagine di un romanzo del 1974 titolato La mia vita di uomo, dove Roth lo aveva incastrato nel ruolo di marito di una donna persecutoriamente bugiarda, una certa Maureen che con le sue gelosie, le scenate, le menzogne, i raggiri più vergognosi, gli aveva reso la vita insopportabile. Più Tarnopol si indignava e soffriva, più Philip Roth sentiva alleggerirsi il suo animo, perché quella moglie che ora scaricava al fianco di Tarnopol un giorno era stata sua: «Probabilmente nient’altro nella mia narrativa riproduce con maggiore esattezza un fatto autobiografico», confidò quattordici anni dopo lo scrittore americano, quando si premurò di convalidare come proprie le avventure di Peter Tarnopol, e rivelò che nei comportamenti di Maureen erano esemplificati quelli della sua prima moglie. 
Naturalmente, questo era niente altro che il suo punto di vista, ma tanto Roth lo riteneva insindacabile che si premurò di titolare la sua pretesa autobiografia I fatti e finse di affidarne il vaglio a Nathan Zuckerman, nel frattempo salito al rango di ombra prediletta del suo Io. È lui, solenne e rancoroso, già da tempo congedato e forse mai davvero riconciliatosi con il suo creatore, che sfilerà per ultimo al funerale. Chissà se nella decisione di non scrivere più Philip Roth sia stato inonsciamente condizionato dalla malinconia del legame perduto con il suo doppio prediletto. 
Nathan Zuckerman era entrato in campo nel ruolo dello Scrittore fantasma nel 1979 e venne congedato brutalmente da Roth nel 2007, dopo un trentennio di onorati servizi, distribuiti lungo una decina di romanzi, l’ultimo dei quali era stato eloquentemente titolato dallo scrittore americano Il fantasma esce di scena. All’epoca della sua comparsa, Zuckerman era un giovane entusiasta, focoso esploratore di mete sessuali e ardente neofita in ambito letterario, pendente dalle labbra del suo scrittore preferito, E. I. Lonoff, perché gli elargisse quella «convalida patriarcale» che il padre non sarebbe stato in grado di dargli: non solo perché altri non era se non un modesto pedicure, ma anche perché non aveva apprezzato il fatto che il figlio avesse trasferito una poco nobile storia di famiglia nel suo esordio romanzesco, compromettendo per sempre il loro buon nome e quello di tutti gli ebrei. 
Quando Roth lo fece uscire di scena, Zuckerman era ormai un attempato, famoso scrittore, che i postumi di una operazione per un cancro alla prostata avevano reso incontinente e, quel che è peggio, ridotto all’impotenza. Disilluso e solitario, Zuckerman viveva allora in una casetta sui monti dei Berkshire, estraneo alle contingenze e proiettato nel passato, quel passato che gli rimandava i pochi ricordi dell’unica visita al maestro Lonoff. Ma le prospettive di una operazione che gli restituisse le funzioni perdute lo portarono a Manhattan, dove insieme alla speranza e a dispetto del disincanto si rianimarono i sensi tacitati, e insieme a questi le antiche insofferenze, la nostalgia, i ricordi. 
NATHAN ZUCKERMAN era ormai un uomo che aveva finito da un pezzo di recitare «il dramma della scoperta di se stesso», ma ciò nonostante avrebbe finito con il precipitarsi nella direzione contraria a quella che la prudenza gli indicava. Aveva alle spalle un lungo a faticoso passato di alter ego, la cui performance più elaborata era stata probabilmente quella consumata tra le pagine di un romanzo del 1986, La controvita, nel quale era voce narrante e alternativamente oggetto del racconto di altri, creatura esemplarmente artificiosa e quindi convinta del fatto che tutt’al più possiamo fidarci delle interpretazioni, ma che la verità non esiste. «Essere Zuckerman è una lunga recita» – si lamentava – «esattamente l’opposto di ciò che si intende con l’espressione essere se stessi». 
È PROBABILE CHE, in quanto cultori della materia, chiamati a scegliere le pagine migliori di Philip Roth, i suoi alter ego estrarrebbero dai libri di cui sono loro stessi protagonisti le pagine in cui risuona più forte il sarcasmo del loro creatore, e insieme tutte quelle in cui egli ha riversato le sue più private ossessioni: lo stereotipo dell’ebreo piccolo borghese di miserabili vedute, la cupidigia sessuale, il terrore della malattia e della morte. Eppure il talento di Philip Roth non risalta solo in virtù dei suoi eccessi. Nessuno meglio di Nathan Zuckerman potrebbe testimoniarlo, ricordando una delle stagioni narrative più felici di cui fu protagonista: quella che si era inaugurata con Pastorale americana ormai quindici anni fa. Qui, l’alter ego di Roth ripercorreva la vita di un uomo che tutti chiamavano lo Svedese, apparentemente così sicuro di sé nella sua mediocrità da far sospettare di non essere «incrinato dal pensiero». Niente di più sbagliato: quello stesso uomo, in realtà, viveva tormentato dalla responsabilità di una figlia che nel 1969, in piena guerra del Vietnam, aveva interpretato la sua protesta politica facendo scoppiare una bomba e uccidendo, così, un passante. «La gente pensa che la storia abbia il respiro lungo, ma la storia in realtà, ti si para davanti all’improvviso», aveva commentato Zuckerman. Che appena un anno dopo tornò a imporre la sua voce in un altro romanzo magistrale, Ho sposato un comunista, le cui vicende sono ambientate nell’America del maccartismo e riprendono il titolo del libro in cui la protagonista femminile, l’ex diva Eva Frame, racconta il suo matrimonio con Ira Ringold, attore radiofonico di umili trascorsi ma soprattutto simpatizzante comunista. 
TRE ANNI DOPO, con le trecentosessanta pagine titolate La macchia umana, Philip Roth chiudeva la sua fortunata trilogia facendoci piombare nel cuore del feuilleton che vide protagonisti Clinton e Monica Lewinsky. Ma l’affaire non costituisce che lo sfondo: la scena principale, invece, è occupata da un ex docente universitario costretto a lasciare la sua cattedra in ragione di una pretestuosa accusa di razzismo. Nel raccogliere la rabbia di Coleman, nel risalire le tappe della sua vita già di per sé intricata quanto un romanzo, Nathan Zuckerman aveva scoperto che quella vita gli era diventata «più cara della sua»: era la vita di un uomo che nascondeva antenati di colore, un uomo mai rassegnato alla sua origine e dominato, perciò, dal risentimento.
Forte di queste sue performances alle spalle, ora Zuckerman potrebbe a buon diritto contestare a Philip Roth la decisione di averlo estromesso da alcuni romanzi che, infatti, orfani della sua voce hanno rivelato una insolita debolezza. Everyman, per esempio, che sostenuto da una scrittura veloce e da una trama essenziale ripercorre la decadenza fisica di un uomo senza nome: one of us, o meglio di quei personaggi che lo scrittore americano immagina insidiati dai fantasmi della malattia e della morte. E Indignazione, che racconta la storia di Marcus Messner ripercorrendo i passaggi tipici della vita di uno studente in attesa di unirsi alle migliaia di ragazzi americani che andarono a farsi ammazzare nella guerra di Corea, finché l’emozione seguita all’incontro con la prima ragazza significativa non lo induce a rivelarci che la sua voce è quella di un morto, e il suo racconto la ricapitolazione di una giovane vita, stroncata da un colpo di baionetta sulle colline assaltate dalle armate cinesi. 
Naturalmente, non è un caso, e se lo è sembra un caso di finzione, che l’ultimo tra i romanzi licenziati da Philip Roth si intitoli Nemesi, quasi a sigillare preventivamente una stagione che già denunciava sintomi di stanchezza. Sinistro e dotato di risonanze tragiche, il titolo del romanzo evoca gli arbitrii della dea dispensatrice di giustizia e allude al risentimento per una disgrazia immeritata, l’epidemia di poliomielite che si abbatté, nell’estate del 1944, sulla cittadina di Newark, teatro consueto dei romanzi di Philip Roth.
E COSÌ, CON QUESTO BREVE romanzo tratto dalle memorie di una estate infantile, si è chiusa la carriera di quello che è stato forse il più dotato tra gli scrittori contemporanei, solipsisticamente concentrato sulle ossessive proiezioni del proprio Io, e perciò giudicato immeritevole di guadagnarsi il Nobel che, da anni, assume le virtù letterarie quali trascurabili effetti collaterali di non si sa bene quale geopolitico principio redentore. 
Ora, forse sussurrando melliflue formulette d’antan sulla morte dell’autore, i suoi alter ego si prenderanno una rivincita sulle perfidie di cui Roth li ha resi protagonisti, sebbene alla fin fine toccherà loro rassegnarsi al ruolo di testimoni di una inappellabile volontà che tutti li trascende: la volontà dell’autore, appunto.



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