sabato 23 giugno 2018

Un'altra storia dei Quaderni Piacentini e dintorni


Giuseppe Muraca: Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa, Ombre Corte 

Risvolto
Nato a Piacenza il 15 dicembre 1931, Piergiorgio Bellocchio fa parte di una generazione di intellettuali che si sono formati nel corso degli anni Cinquanta e che nei decenni successivi hanno offerto un contributo determinante al rinnovamento della sinistra italiana e della cultura contemporanea. Bellocchio ha fondato e diretto le riviste "Quaderni piacentini" (1962-1984) e "Diario" (1985-1993),e ha pubblicato vari libri, tra cui Dalla parte del torto (1989), L'astuzia delle passioni (1995) e Al di sotto della mischia (2007). In questo libro l'autore raccoglie articoli e note dedicati alle opere e all'attività politica e culturale dello scrittore piacentino, di Grazia Cherchi e di Goffredo Fofi e alla storia dei "Quaderni piacentini", di "Ragionamenti" e di altre riviste della sinistra eterodossa. Al di là delle differenze, ciò che accomuna questi intellettuali militanti è principalmente la critica della sinistra istituzionale, del Potere, della cultura e dei valori dominanti. 


l'autore
Giuseppe Muraca è docente di lettere e saggista. Ha fondato e diretto la rivista "L'utopia concreta" e ha fatto parte della direzione delle riviste "InOltre" e "Per il '68" e della redazione del giornale "Ora locale". Ha pubblicato vari libri, tra cui Utopisti ed eretici nella letteratura italiana contemporanea (Rubbettino, 2000) e Luciano Bianciardi, uno scrittore fuori dal coro (Centro di Documentazione di Pistoia, 2011). Ha collaborato e collabora a numerosi giornali e riviste, tra cui "il manifesto", "Lotta continua", "Il Grandevetro" e "Dalla parte del torto". 
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L’epopea politica dei «Quaderni piacentini» 

Fabrizio Scrivano Manifesto 20.6.2018, 0:10 
Quando nel 1848 in Europa esplose la rivolta contro i poteri assoluti, il primo duraturo effetto fu la nascita improvvisa e caotica di foglietti, riviste e giornali indipendenti. Portatori di contro-informazione, ideali e opinioni, si sfidarono nel narrare il tempo presente. Forse fu da questa esperienza diffusa che nacquero giornali e gruppi editoriali (almeno in Italia dove la stampa periodica aveva un circuito elitario), ma lo spirito libero e militante di quella pubblicistica non si spense nella pratica né nell’immaginazione, modello di un modo alternativo di fare comunicazione (lo sapeva Giangiacomo Feltrinelli che costituì una straordinaria raccolta di quei periodici). 
A SCORRERE IL LIBRO di Giuseppe Muraca, dedicato ad alcune riviste volutamente marginali e dissenzienti attive tra gli anni Cinquanta e Ottanta, può venire in mente quell’antecedente che si andava evocando, pur nella diversa situazione storica. In Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa (ombre corte, pp. 121, euro 12), l’autore raccoglie alcuni suoi scritti, già editi in libri, riviste e giornali, con i quali ha seguito nel tempo i protagonisti di un’avventura culturale e politica coagulatasi nel 1962 intorno ai «Quaderni piacentini»: una rivista fondata da Piergiorgio Bellocchio, presto codiretta da Grazia Cherchi e Goffredo Fofi, e che riunì tra i collaboratori, nei suoi lunghi anni di pubblicazioni, Fortini, Pirelli, Cases, Timpanaro, Giudici, Solmi, Fachinelli, Raboni, Asor Rosa, Jervis, Berardinelli (solo per citarne alcuni), poi estintasi nel 1984; o forse già nel 1980, come sembra suggerire Giacomo Pontremoli, I Piacentini. Storia di una rivista. 1962-1980 (Edizioni dell’Asino, euro 10), quando cioè, approdando all’editore Franco Angeli, finiva l’autogestione, uno dei veri tratti che fa la differenza nel rapporto tra cultura ed economia. 
DAL CICLOSTILE alla stampa il passo fu rapidissimo, e i «Quaderni» si fecero sentire in maniera forte e influente, raggiungendo punte di 12 mila lettori. Lettori principalmente coinvolti, all’inizio, nelle declinazioni politiche della cultura letteraria, sociologica e filosofica, e col tempo sempre di più militanti di un’azione politica, segnata coi nomi di «sinistra eterodossa» o «nuova sinistra», alla ricerca di modalità interpretative del marxismo, dell’operaismo e della lotta politica al di fuori e in concorrenza con i partiti della sinistra. «Quaderni» mantenne sempre un atteggiamento critico di analisi e di riflessione verso i grandi movimenti, giovanili e non, e i grandi eventi che percorsero quegli anni. 
A QUESTO PRIMO, solido ed informato capitolo ne seguono altri, tramite i quali si vorrebbe stringere l’obbiettivo su Piergiorgio Bellocchio e quella stagione. E ciò accade in parte analizzando alcuni successivi scritti, letterari e non, dell’intellettuale piacentino, in parte alcuni scritti dei suoi più vicini sodali, Cherchi e Fofi, scelti tra quelli che in qualche modo rievocassero quegli anni di collaborazione ai «Quaderni». 
Purtroppo l’esito è abbastanza faticoso, perché l’accorpamento in volume di interventi per lo più prodotti in occasioni e con finalità diverse, tra i quali solo pochissimi vengono stesi come completamento e legame, non riescono a coagularsi. Benché l’insieme di argomenti e prospettive riaffermi la necessità di ripercorrere storicamente le voci e le idee della cultura italiana di sinistra, e i modi di fare narrazione politica.

Piergiorgio Bellocchio Quella volta che stroncai Lolita 
di Antonio Gnoli Robinson 4 4 2020
A quasi novant’anni dice che può permettersi il lusso di chiamarsi vecchio. «Non sono un anziano, sai quelle figure ben temperate e pompate dalla pubblicità. Fornite di dentiere scintillanti, di sorrisi smaglianti e abbronzature perfette.
Tinti a puntino. Che vanno nei parchi a cercare l’elisir dell’immortalità. No, io sono fuori da tutto, pur restando dentro casa, con mia moglie Marisa, barricato nel tempo del contagio. Che faccio? Quello che fa un vecchio: vado spesso in bagno, dormo male la notte, spio dalla finestra il vuoto della mia città, Piacenza». E Piacenza è una delle zone più martoriate dal coronavirus. Avevo incontrato Piergiorgio Bellocchio poco prima che accadesse tutto questo. Quasi in un’altra era. Ero stato a trovarlo dopo aver letto Un seme di umanità, un bel libro, edito da Quodlibet e fortemente voluto da Gianni D’Amo, che parla di letture di classici (ma non solo), di predilezioni e idiosincrasie. Ora ci sentiamo per telefono. Gli chiedo come sta nella condizione del recluso. È perplesso, un po’ smarrito. Dice che è come durante la guerra. Ma senza le bombe né il rumore degli automezzi tedeschi. La paura è ovattata. Ti avvolge nel silenzio delle città, e nella circospezione dei pochi che si avventurano fuori: «Ti confesso che sono senza parole».
Ci manca il linguaggio per descrivere tutto questo?
«L’Occidente ci ha abituati a riconoscere i sintomi di una malattia e a reagire a livello individuale. Ma tutto quello che sta accadendo a livello collettivo lo ignoravamo. Va oltre la nostra immaginazione. Con che lingua possiamo raccontare questo “noi” disperato nel quale presto potrebbe crescere la rabbia? Questo noi che credevamo al riparo dalle sciagure, dalle guerre e dunque dalle pandemie. Non ti sto facendo un discorso medico che non mi compete, ma antropologico: saremo ancora noi tra un anno o due? Sarà ancora Piacenza la città che ho conosciuto, amato, detestato?».
Ci sei anche nato?
«Ci sono nato e vissuto, su questo crocevia che confina con più regioni. Siamo la provincia più a destra dell’Emilia. Perché la base sociale era più agricola che industriale. Mentalità conservatrice, sospettosa nei riguardi del nuovo».
Tu come reagivi?
«Era come se la cosa non mi riguardasse. Allora, parlo dei miei anni giovanili, ero una specie di vitellone. Mi piaceva leggere ma non studiare. Ero iscritto a Legge ma speravo di fare il giornalista. Erano i sogni o forse le pretese o forse i privilegi di un provinciale».
Pensi di averli realizzati?
«Certo che no. Negli anni Cinquanta si stava su un crinale piuttosto confuso. Poi arrivò il 1960, che io considero l’anno decisivo della nostra storia. Il Paese si modernizzò.
La coscienza politica crebbe dopo i fatti di Genova e io cessai di essere il vitellone».
Realizzasti la cosa più bella che potevi immaginare: “Quaderni Piacentini”. Come ti venne in mente?
«Potrei dirti che era nell’aria. La verità è che nel 1961 uscì a Torino la rivista Quaderni Rossi di Raniero Panzieri.
Mettevano al centro i temi della fabbrica. Noi pensammo di spostare il focus sulla società e l’individuo. Così nel 1962 varammo la nostra rivista. Evitammo il conformismo del nostro tempo, ci piazzammo distanti dalle sirene ideologiche del Pci. Un po’ come aveva fatto Il Politecnico.
Quando uscì la rivista di Vittorini, ebbi un’impressione
straordinaria, credo dovuta alla sua totale assenza di rigore ideologico».
Ti attrae il pensiero disordinato?
«Mi attrae tutto quello che non è prevedibile o scontato.
Vale nella vita e nelle idee, come pure vale per i libri, che fanno parte sia della vita che delle idee.
Sui “Quaderni Piacentini” tu firmavi una rubrica: i libri da non leggere.
«È vero, ma mi pentii quasi subito».
Perché? In fondo la provocazione ci stava.
«Lo capisco, anche perché la nostra società letteraria raramente stronca. Ma quella rubrica, firmata non solo da me, si rivelò troppo casuale e cosparsa da errori di valutazione clamorosi. Un abbaglio colossale fu di inserire tra i libri da non leggere Lolita di Nabokov».
Impiccaste anche “La vita agra” di Bianciardi.
«Fu un altro infortunio. Ma forse in quel caso ci infastidiva l’alone vagamente maudit del bar Giamaica, con le sue innocue provocazioni artistiche».
Era un porto di mare.
«Con pochi vascelli arrembanti e molte placide barchette».
Non ti incuriosiscono i luoghi che diventano leggenda?
«No, anche perché la trasfigurazione immaginaria di certi posti, come insegna Borges, è una disciplina per pochi eletti».
Anche “Quaderni Piacentini” si è rivestita di un alone leggendario.
«Abbiamo avuto fortuna. La rivista partì con duemila copie e arrivò nel Sessantotto a venderne dodicimila. Tu dici leggenda. La verità è che a un certo punto mi stancai di farla. Pensai che avesse esaurito il suo compito. Fu solo grazie all’ostinazione e al sacrificio di Grazia Cherchi che la rivista continuò. Fosse stato per me, l’avrei chiusa negli anni Settanta».
Le cose finiscono.
«Bisogna rallegrarsene, pensa che noia proseguire a oltranza. Anche se ti confesso che quando con Alfonso Berardinelli facemmo Diario fu lui a voler smettere e io, sotto sotto, avrei continuato. Buffo, no?».
Neanche tanto, in fondo dai di te l’immagine di uno molto libero.
«Ho sempre pensato che la libertà sia più un fatto esistenziale che morale».
Ti senti libero ora?
«Che intendi?».
Sei recluso in casa, come fossi agli arresti domiciliari.
«È una situazione sconosciuta. Non ho esigenze particolari, sono vecchio, dovrei sentirmi protetto in casa. E invece mi sembra pazzesco».
Immagino che dedicherai molto tempo alla lettura.
«Più che leggere, rileggo».
Non ti piacciono le novità?
«È raro trovarne di soddisfacenti. Se guardo ai libri italiani mi spavento».
Perché?
«Uno scrittore italiano oggi a chi parlerebbe?».
Che cosa impedisce una parola alta, convincente e condivisa, magari poetica?
«Non lo so. Mi fai venire in mente Montale quando disse, un po’ provocatoriamente, può mai esistere un grande poeta bulgaro?».
Perché no?
«Ma sì, può esistere se c’è stato un grande scrittore come Canetti. Ma non è questo il punto. Una letteratura si deve nutrire delle trasformazioni sociali. Non rispecchiarle.
Almeno non necessariamente. Ma respirarle sì. Avresti avuto il primo rinascimento americano, quello che precede la Guerra civile, con i suoi Thoreau, Hawthorne, Whitman, Melville e magari Poe — senza il risveglio del gigante?».
Leggi ancora Melville?
«No, mi piacerebbe riprendere in mano Bartleby o Benito Cereno. Mi spaventerebbe affrontare nuovamente Moby Dick ».
Perché ti spaventerebbe?
«C’è un’ossessione incoercibile che non so se riuscirei a sopportare. Preferisco dilettarmi con Flaubert o magari Dostoevskij».
Alternativa secca?
«Sono diversi, non c’è dubbio. C’è in Flaubert un lato visionario e una satira vendicativa che non trovo in Dostoevskij».
Vendicarsi di cosa?
«Dell’ordine morale dei vari Homais. Flaubert è convinto che il disordine morale di Emma Bovary sia decisamente superiore alle ipocrisie e alle mediocrità dell’epoca. Che egli rappresenta nell’orrendo microcosmo di Yonville».
I sogni di Emma la sollevano dalla grettezza del luogo in cui vive.
«Ma sono sogni velleitari i suoi, come del resto lo sono quelli di Bouvard e Pécuchet».
Si somigliano?
«In un certo senso sì. Cambia l’oggetto del sogno non il motore che fa sognare. Emma desidera l’amore, la ricchezza, il prestigio sociale, il successo, l’arte. Mentre Bouvard e Pécuchet aspirano alla scienza e alla verità.
Tutti i loro esperimenti falliscono, qualunque loro impresa — dal giardinaggio all’agricoltura, dalla lettura del pensiero all’astrologia, dalla pratica medica alla rabdomanzia — naufraga miseramente. Sono dei falliti di talento. Eroi del no. Torneranno a fare i copisti. Gli umili scrivani, come Bartleby».
Sono anche due meravigliosi cretini.
«Sono le vittime del progresso. E come Emma anche loro avranno tutti contro: il prete, il nobilotto, il notaio, il sindaco, i bottegai. La loro diversità è irriducibile all’ipocrisia, al conformismo, al profitto. Se ne infischiano degli affari».
In Dostoevskij invece cosa trovi?
«Parliamo di letteratura russa dove mancano quasi del tutto i romanzi di intrattenimento, quelle letture amene ricche di convenzioni. Lo scrittore russo tende a coincidere con la figura dell’educatore; si erge a coscienza morale e, nei casi estremi, a predicatore o agitatore. Dostoevskij rientra in questa casistica: il pensiero è la sostanza della sua opera».
È uno scrittore per incalliti intellettuali.
«I suoi personaggi principali sono intellettuali più o meno disincantati. Mi piace di più nella descrizione dei personaggi minori. “La leggenda del Grande Inquisitore”, che è il momento più alto dei Fratelli Karamazov, non mi ha mai coinvolto».
Ho visto nelle tue note di lettura un grande apprezzamento per Dickens.
«Nonostante certi suoi eccessi patetici, è di gran lunga il più grande scrittore inglese del suo tempo. E poi una certa componente sadica lo riscatta dal moralismo.
Dostoevskij subì l’influenza di Dickens, almeno per certe descrizioni dei mutamenti sociali. Ma quest’ultimo non fu mai un intellettuale. Il suo genio era tutto istintivo».
Hai una predilezione per macchine narrative semplici?
«Mi piacciono le descrizioni che anticipano o rappresentano un’epoca, la scuotono come un albero con i suoi frutti. Per questo non sono mai riuscito a riprendere in mano L’uomo senza qualità, nonostante le sollecitazioni del mio amico Cesare Cases».
Degli scrittori di lingua tedesca chi ami?
«Su tutti Thomas Mann. Lo preferisco a Kafka, il quale resta uno straordinario scrittore di racconti e di parabole.
La Tana è un capolavoro. Ma i romanzi faccio fatica a rileggerli. Mann è un narratore, Kafka è un geniale rabbino».
Hai un metodo per leggere?
«No, tranne quello di usare la matita prendendo appunti.
Ma ci sono pagine delle quali non comprendo più cosa ho sottolineato. Tutto dipende dall’età in cui si è letto un certo libro. Ti faccio un esempio. Oggi non ce la farei più a leggere Adorno. Negli anni Cinquanta era il mio nutrimento. Perfino Minima moralia tradotto dal mio amico Renato Solmi mi lascia indifferente. Ma poi sai qual è la verità? ».
Dimmi.
«Che di Adorno io avrò capito sì e no un venti per cento. Non so se al liceo lo avrei eletto a mio maestro».
Quale è stato il tuo primo libro o romanzo?
« Pinocchio, di cui conservo un giudizio straordinariamente alto: esibisce la ribellione alle regole, elogia la disubbidienza, ci dice che si può essere bugiardi per necessità o per difesa e racconta un’Italietta miserabile. Vi sono paesi dove si può mangiare senza il pericolo di essere mangiati? La battuta di Pinocchio mostra le sciagure che incombono su di noi. Ora che sono vecchio vorrei tornare a qualche libro dell’infanzia».
Parlavamo della tua segregazione.
«La subisco con rassegnazione. Uno dei problemi della vecchiaia è che non ti appassioni più a niente. In me prevale il tedio. Da anni, ti confesso, non mi diverto più».
Stiamo cambiando stile di vita.
«È vero, ma più per necessità che per convinzione. Oggi tutti pensano a proteggere la salute e spero che alla fine se ne esca bene. Ma temo la batosta economica. Già eravamo messi male. Cosa ci accadrà? La nostra classe politica, al netto di questa situazione, ha contribuito a far degenerare questo mondo. I nomi di coloro che ci guidano o stanno all’opposizione non mi dicono nulla. Mi sembra di vivere in un Paese sconosciuto». © RIPRODUZIONE RISERVATA

La critica? Filosofia morale
«Un seme di umanità» di Piergiorgio Bellocchio è un libro controla cultura come impostura ideologica, una dichiarazioe di amore per un passato migliore
Alfonso Berardinelli Domenicale 5 4 2020
Benché controvoglia e avendo ritardato per anni (si considera fuorigioco da tempo), Piergiorgio Bellocchio ha ora pubblicato il libro che ne rivela di più le capacità di lettore: Un seme di umanità. Note di letteratura. È infatti più come lettore non specializzato che come critico letterario in senso stretto che ha scritto questi saggi, per lo più recensioni, prefazioni e contributi occasionali a opere generali. La forma che preferisce è quella breve e sintetica. Gli è sempre piaciuto il fatto che Edmund Wilson, il critico da cui ha imparato di più, amasse definirsi semplicemente «un giornalista».
Noto per i suoi articoli di costume culturale e sociale, aforismi, aneddoti, glosse polemiche e satiriche con cui soprattutto nella sua rivista «Diario» (1985 – 1993) ha illustrato come nessun altro i “postmoderni” decenni finali del Novecento, Bellocchio non aveva mai raccolto in volume i suoi scritti sulla narrativa. Ma in quanto strumento privilegiato di analisi dei rapporti fra individuo e società, la narrativa è sempre stata al centro dei suoi interessi. Che si tratti di capolavori del romanzo moderno, di autobiografie, di epistolari o anche di film, in Bellocchio colpisce soprattutto una passione di interprete del tutto personale e velatamente autobiografica. Narratore mancato per eccesso di autocoscienza critica e forse per impazienza, quando si tratta di interpretare un testo sente anzitutto il bisogno di raccontarlo di nuovo in breve. Le sintesi riassuntive sono tra le sue pagine letterariamente più brillanti. I saggi dedicati alle memorie di Casanova, a Stendhal, a Dickens, a Flaubert, al Soldato Svejk, a T. E. Lawrence, Céline, Orwell, Fenoglio, Bianciardi, Danilo Montaldi, sono ritratti morali e politici degli autori non meno che analisi dei loro libri. Dietro ogni narrazione Bellocchio vede un individuo di fronte a una società in una particolare situazione storica: la restaurazione postnapoleonica in Stendhal, la morale dell’età vittoriana in Dickens, il trionfo della borghesia in Flaubert, regime zarista e populismo rivoluzionario nei russi da Puskin a Cechov, il boom economico e gli emarginati in Bianciardi e Montaldi. Il volume si conclude con una esemplare e memorabile lettura del Barry Lyndon di Kubrick, film che molta sinistra non capì, scambiando la sua metodica e spietata analisi sociale per un esercizio di calligrafismo neoclassico.
Un seme di umanità è fin dal titolo (ricavato da una frase di Max Horkheimer) un libro sia attuale che inattuale. Un libro contro la cultura come impostura ideologica, maschera del privilegio o snobismo piccolo-borghese. La narrativa, almeno la migliore e più tradizionale, è invece sempre smascheramento, “aspra verità”, schiettezza e disinganno. Dire “un seme di umanità”, usare il termine di umanità per indicare un valore tanto esibito quanto dimenticato, è una provocazione e una dichiarazione d’amore, non per un futuro, ma per un passato migliore.
Contro il conformismo dei generi letterari usati come garanzia preliminare e moneta di scambio, Bellocchio mostra una speciale preferenza per i libri non intenzionali che nascono più per necessità quotidiana che per realizzare progetti ambiziosi. Dice tutto, in proposito, il saggio dedicato all’epistolario di Pasolini, considerato non solo la sua «autobiografia involontaria» ma perfino la sua maggiore opera letteraria, «l’opera che meglio lo comprende e lo consegna alle patrie lettere e alla storia italiana».
Quanto a umanità, è evidente la simpatia con cui Bellocchio si dedica per esempio a narratori come Dickens e Boll, spesso denigrati dalla critica per il loro “sentimentalismo” sociale. Né l’uno né l’altro erano degli intellettuali e per questo agli intellettuali piacciono poco. Ma Dickens influenzò Dostoevskij e fu apprezzato e difeso da due grandi critici come Edmund Wilson e George Orwell per la sua istintiva avversione nei confronti delle «inflessibili» leggi economiche e morali della società borghese. Boll a sua volta, nel più riuscito e più politico dei suoi romanzi, Foto di gruppo con signora, con l’attenzione alla «corporalità» e a un certo «nichilismo individualistico» di alcuni suoi personaggi esprime un «elogio dell’irregolarità» e un naturale «disprezzo di ogni regola economica». Del resto tutti questi saggi di Bellocchio sono abitati da personaggi reali o immaginari che danno il meglio di sé nei loro fallimenti, nella loro incorreggibile incapacità di accettare e usare a proprio vantaggio le regole del gioco sociale.
Se esistono ancora lettori interessati a un libro di saggi letterari non accademici, ne troveranno un raro esempio in Un seme di umanità. Qui la critica letteraria, secondo la sua migliore tradizione, dimostra di essere un ramo, probabilmente il più robusto, della filosofia morale. Si è visto come scienziati sociali e filosofi che non hanno imparato dalla narrativa abbiano finito per accelerare quella “disumanizzazione” progressiva e specialistica del sapere che è stata uno dei fenomeni storici più caratteristici dell’ultimo secolo e che ha svuotato di contenuto e di significato gli stessi “studi umanistici”.
Siamo così abituati a una critica letteraria come produzione universitaria che ormai distinguere fra critici accademici e critici militanti, fra studiosi e critici, suona scandaloso. Eppure in pieno Novecento la differenza è stata chiara, come dimostra il fatto che anche Walter Benjamin e Giacomo Debenedetti vennero giudicati non sufficientemente degni di un titolo di professore. Se questo oggi non accade più, è solo perché la stessa cultura universitaria si è trasformata in una variante gergale della cultura di massa.
Direi che il “seme di umanità” del libro è anzitutto nel modo che ha Bellocchio di usare la lingua italiana. Niente termini tecnici, né uso di categorie teoriche pass-partout, né esibizioni di metodo. Il suo italiano è perfino poco letterario e il suo stile non si discosta dall’uso linguistico corrente, salvo che per la sua efficace chiarezza e concretezza comunicativa, per l’acume dei giudizi sociali e delle osservazioni morali. Più che critica del senso comune, l’arma di Bellocchio è l’uso del senso comune come critica della cultura, delle istituzioni e delle manie letterarie. Proprio in questo si manifesta la sua qualità, il suo punto di vista di narratore e di moralista classico consapevolmente, polemicamente in ritardo. Tutti i suoi scritti ci dicono che per capire che cos’è l’umanità di oggi bisogna avere in mente che cos’era l’umanità di ieri e non sprecare il suo “seme”.
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