giovedì 17 ottobre 2019

Calasseide biblica

Roberto Calasso: Il libro di tutti libriAdelphi pagg. 555 euro 28

La Bibbia secondo il signor Ka 

Avvicinarsi alle Sacre scritture in modo non confessionale significa cercare di capire “che cosa vi accade” e lasciarsi guidare dall’unica legge possibile: quella delle storie. Roberto Galasso ci consegna le riflessioni a margine dell’ultimo capitolo della sua opera: “Il libro di tutti i libri”

di Roberto Calasso Robinson
lLibro di tutti i libri presuppone innanzitutto una lettura non confessionale - quindi non ebraica, non cattolica, non protestante e certamente non laica - della Bibbia. È un tentativo di capire che cosa vi accade. Non a caso ha cominciato a elaborarsi mentre stavo finendo di scrivere K, che parla di Kafka. In entrambi i casi il procedimento non era dissimile, anche se Kafka concentra tutto sulla punta di uno spillo, mentre la Bibbia ha inizio dal cosmo e finisce come cronaca di una stirpe. Il procedimento è invece del tutto opposto a quello di Thomas Mann nella trilogia su Giuseppe. Per Mann il testo della Genesi è un canovaccio romanzesco, su cui innestare e sovrapporre le proprie inclinazioni psicologiche, entrando a forza nella testa dei personaggi e usando le innumerevoli omissioni bibliche come lacune dove sfogare una incontenibile libido narrandi. Mentre la singolarità del testo biblico è sempre nel contrappunto fra ciò che viene detto e ciò che viene omesso. E l’omissione vi ha talvolta la parte più rivelatrice e più misteriosa, che esige di essere trattata con la massima cautela e non come uno spazio vuoto e disponibile.
Le prime pagine del Libro di tutti i libri sono state scritte all’inizio del 2001 e sono rimaste identiche nella versione Anale. Nell’intervallo erano state pubblicate altre sei parti della stessa opera (da K &\\YInnominabile attuale). Evidentemente occorrevano molte deviazioni e circumambulazioni prima di tornare al punto di partenza. Questo corrisponde alla materia della Bibbia: la più vicina e la più intrattabile. Ma tale da essere sempre presente, nell’ombra o palese.
Per una sua singolare caratteristica, la Bibbia impone a chi la legge di vedere le cose come stanno, nel modo più asciutto, senza orpelli e anche senza ornamenti, aderendo o opponendosi a ciò che il libro dice, ma sempre attenendosi all’essenziale. E scoprendo che dell’essenziale fa parte anche la morchia delle cose. Nessuno ha saputo dire perché ciò avvenga inevitabilmente con questo libro - e solo in misura meno stringente con altri libri sacri, come se fosse la potenza di un certo stile a produrre un tale risultato. E il punto non si chiarirà avvicinandosi alla Bibbia con i termini della filosofia, perché, come scrisse Leo Strauss, è «antica premessa giudaica che essere ebreo ed essere filosofo sono due cose incompatibili».
La Torah contiene la Legge ed è anche un racconto, in quanto comprende cinque libri che in vasta parte sono un racconto di eventi. Soltanto due, Deuteronomio e Levitico, sono innanzitutto enunciazioni di precetti. Ma Torah, nel corso del tempo, è parola che ha finito per identificarsi con “Legge”. E di fatto il racconto culmina nell’enunciazione della Legge. Così il precetto ha prevalso sul racconto. Fra i due estremi era però all’opera una potenza mediatrice, la Sapienza, Hokmah, che è artefice del mondo e ne dispone i limiti «con misura, numero e peso», quindi legislatrice, figura femminile che gioca ai piedi di Iahvé e trova il suo piacere fra gli uomini: «Etdeliciae meae esse cum filiis hominum ».
Esiste una sola democrazia compiuta: quella delle storie. Pretendono soltanto di essere narrate. Si dispongono una accanto all’altra, senza pregiudizi di età, di razza o di origine. Se si impongono, è soltanto perché attirano, non perché fanno valere qualche privilegio. E si lasciano capire soltanto da chi gli si abbandona. Qualsiasi sia il loro carattere - religioso o profano -, le storie desiderano innanzitutto essere considerate in quanto tali, aH’interno del continuo delle storie. Le storie sono autosufficienti: se significati devono esserci, li trascinano con sé, come relitti nella corrente. E dalle storie si può giungere a tutto, anche a ciò che è più astratto o più segreto o più remoto. Non c’è acquisizione del pensiero che non possa essere raggiunta attraverso una storia. Non c’è teorema che non possa essere mostrato attraverso una storia. Se alla fine domina il dubbio, rimangono pur sempre le storie con le loro incessanti ondulazioni, simili ai disegni delle foglie o ai profili delle montagne o delle coste. La Legge senza le storie non potrebbe sussistere. E anche le storie mirano a svelare la Legge. Le storie ebraiche, come le storie greche, sono intricate e interdipendenti. Capirne una è la via per capirle tutte. E, per capirne una, occorre averle percorse tutte. È questo che II Libro di tutti i libri tenta di fare. Ogni appartenenza confessionale è un intralcio, se le storie riescono ad agire e a pensare da sole. Non occorre che siano credute.
A partire da Wellhausen, verso la fine dell’ottocento, si riconobbe che l’Antico Testamento è fatto di molteplici strati e sub-strati, progressivamente corretti, aggiustati, accorpati. E cominciarono a profilarsi varie fisionomie a cui ricondurre alcuni di quegli strati, distinte da sigle - J, E, P, D. Soprattutto lo Iahvista e l’Elohista (J e E) spiccavano, come voci antifonarie. Ma, quanto più la filologia biblica tentava di operare distinzioni nette, tanto più i suoi criteri apparivano dubbi e opinabili. Il terreno era di perenni sabbie mobili. In paragone, i filologi classici sembravano operare come pazienti orologiai. In tutto questo, chi rimaneva nell’ombra era il Redattore Finale, colui o coloro che avevano dato al testo la forma ultima, canonica, che sarebbe rimasta intatta nei secoli. Alla sua (o loro) responsabilità, che Cassuto riteneva non minore di quella dei singoli autori, si deve se l’Antico Testamento appare come un tutto - scosceso, irto, brusco, ripetitivo e composto di parti gloriosamente compatibili, pur nell’urto delle loro immense differenze.
A questo Redattore Finale dovrebbe corrispondere un lettore finale,, che usasse l’Antico Testamento come sua unica fonte, ignorasse la cronologia, se non quella dichiarata nel testo, ricorresse agli atlanti solo per verificare la posizione dei luoghi nominati, considerasse la coerenza o incoerenza del testo come una sua insopprimibile caratteristica, lo seguisse passo per passo, nella sua scansione in libri e capitoli, nei suoi equilibri e squilibri, e soprattutto tentasse di illuminare la lettera di ciò che viene nominato e i vasti spazi di ciò che non viene nominato.
L’Antico Testamento è il libro più diffuso e anche il meno letto, il più usato e abusato, il più citato, il più commentato. I gesti, le glosse, le parole dette e cantate hanno sviluppato una cortina protettiva, occultatrice della lettera. Ma la lette- ra, rocciosa, rimane intatta. Nessuna spiegazione riesce a diluirla tanto meno a dissolverla o renderla superflua. I libri più diversi dell’Antico Testamento hanno un tratto in comune: la mancanza di ordine. O almeno di quell’ordine che venne codificato nella retorica greca e trovò la sua summa in Quintiliano. Ed è appunto questo tratto che ha sconcertato e inquietato innumerevoli biblisti. Per i quali la Bibbia ideale dovrebbe essere composta da una successione di strisce diversamente colorate, ciascuna corrispondente a un versetto o a piccoli blocchi di versetti per ciascun libro. Con i mezzi digitali non sarebbe diffìcile produrla. Ma dovrebbero essere anche molte Bibbie, perché l’attribuzione delle strisce colorate varia da biblista a biblista.
Si può dire che quell’ipotesi fosse implicita, in varie forme, anche nei secoli precedenti, come se qualcosa nella Bibbia imponesse il desiderio si smembrarla. Era come se il canone della Bibbia avesse un carattere disturbante, che impediva di contemplarlo qual è, nella sua ostentata compresenza di elementi discordanti, così urtante da far inclinare certi biblisti verso una insana mistura tra fideismo ed erudizione, dove alla fine l’ordine che viene imposto al testo corrisponde non già al rigore filologico ma al gusto del singolo studioso o piuttosto alla sua suscettibilità verso le contraddizioni e i dati confliggenti. Ciò che così è venuto a mancare è stata la capacità di riconoscere la lettera, di abbandonarsi alla Bibbia così come si presenta, compagine elusiva e informe, come un magma in perpetuo movimento che a un certo punto, apparentemente arbitrario, si è irrigidito in una forma ultima, svelando un ordine che a nessun ordine precedente o successivo corrisponde.
Più ancora di altri libri sacri, l’Antico Testamento è fatto di tempo.
Libro stratificato, versetto per versetto, gremito di interpolazioni e di vocalizzazioni incerte, non concede di risalire a un testo originario. È un campo di forze dove elementi incompatibili tentano di neutralizzarsi o di elidersi. Ma spesso sussistono, forse anche perché così incompatibili non erano.
0 almeno tali non erano sembrati a queH’inafferrabile personaggio che fu il Redattore Finale.
©Roberto Calasso ©RIPRODUZIONE RISERVATA

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